Arte & Mestiere

Più o meno sapevo che questo post avrebbe avviato un principio di dibattito, perché l’argomento tocca corde tese (molto tese) tra l’immaginario collettivo e la cruda realtà, o almeno una certa percezione della cruda realtà.

L’idea generale sembra essere che la scrittura consista nell’aprire il proprio cuore e versare il contenuto sulla carta. Messy, se lo chiedete a me, e del tutto irrealistico, ma profondamente radicato. Per contro, il concetto che scrivere sia un mestiere che s’impara, che ha i suoi principi, le sue teorie, le sue astuzie, le sue tecniche e i suoi strumenti, fa inorridire molta gente. Addirittura, come si evince dai commenti a questo post altrui, l’uso di strategie viene visto come qualcosa di sleale o disonesto.

Credo che sia necessario fare una distinzione: da un lato c’è la tecnica della scrittura propriamente detta, dall’altro c’è il mercato editoriale.

La tecnica è la cosa che, quando abbiamo sedici anni e riempiamo vecchie agende di racconti scritti a biro, ci fa rabbrividire. Non c’è da stupirsi visto che viviamo in una temperie culturale istericamente ansiosa di porre tutta l’enfasi possibile su spontaneità, istinto, ispirazione e natura. Poi qualcuno dovrebbe prendersi la briga di spiegarci, mentre cresciamo, che spontaneità, istinto, ispirazione e natura da soli non bastano. Nemmeno il talento basta, se vogliamo perché, come l’elettricità, se non è incanalato, disciplinato e convogliato attraverso i giusti strumenti, non accenderà mai nessuna lampadina. Qui, badate bene, non stiamo parlando di genio, che segue regole tutte sue e non è classificabile. Parliamo invece di una combinazione di attitudine, gusto e immaginazione, che deve essere educata e disciplinata. Disciplina, altro tabù culturale: guai a dire che la pratica dell’arte richiede disciplina… o meglio, questo non è del tutto vero. E’ generalmente accettato che eseguire lavori altrui richieda applicazione e fatica. Tutti si aspettano grandi quantità di pratica e di sforzo da una ballerina classica o da un pianista, ma quando dall’esecuzione si passa alla creazione, ecco che torna alla ribalta l’immagine dell’artista libero, spontaneo e spettinato che lavora febbrilmente sotto la spinta irresistibile dell’ispirazione. Ebbene, sorpresa: l’immagine è carina, ma fasulla. Narrare una storia è una questione di logica, di causa ed effetto, di conseguenze e di estrema consapevolezza. Narrarla bene, poi, richiede di saper calcolare con accettabile precisione l’effetto di ogni singola parola, figura retorica e frase. E questi sono strumenti che s’imparano. S’imparano leggendo molto, provando a riprodurre, sperimentando strade nuove, leggendo ancora, studiando, scrivendo e riscrivendo, rileggendo ad alta voce, leggendo ancora un po’ studiando ancora di più… E’ il lavoro di una vita, se si fa sul serio. Ma, così come c’è differenza tra chi strimpella il pianoforte per il proprio piacere e chi si esibisce come concertista, allo stesso modo c’è differenza – una differenza nettissima – tra l’impegno richiesto a chi scrive per sé e chi pubblica.

E questo ci porta al mercato. Il mercato è molto, molto competitivo. Il mercato dovrebbe fornire una forma di selezione naturale. Il mercato non sempre funziona come dovrebbe, almeno non dappertutto e non a tutti i livelli. Il mercato non è una sudicia invenzione dei nostri tempi barbari e globalizzati – il mercato è sempre stato recipiente e stimolatore dell’arte, fin dalla prima occasione in cui qualcuno è stato pagato per una creazione artistica. Provate a contare quanti Caravaggio sono stati dipinti su commissione, e quanti perché il pittore si era svegliato in preda una piena alluvionale di spontaneità, istinto, ispirazione e natura.  Ma non divaghiamo e torniamo alla scrittura. Il mercato essendo quello che è, gli scrittori sviluppano strategie che integrano nella scrittura forme, diciamo così, di marketing. I Tre Ganci sono una di queste strategie, e il loro scopo non è quello di costringere con l’inganno l’ignaro lettore-pastorello a spendere i suoi sudati quattrinelli una porcheriola rilegata in brossura, ma di catturare l’attenzione di un potenziale acquirente bombardato da un’enorme quantità di offerte. L’onestà in scrittura è questione dai molteplici livelli, perché se non mi piacesse essere condotta in tondo per un po’, non leggerei romanzi, ma mi aspetto di essere condotta in tondo con finezza, grazie. Tuttavia, è onesto offrire sempre la migliore scrittura che si è in grado di produrre, in termini di struttura e di stile. Ciò detto, però, l’attenzione del lettore va guadagnata e mantenuta. Catturare il lettore, trascinarlo dentro la mia storia, tenercelo fino alla fine e lasciarlo andare desideroso di averne ancora, non è disonesto: è il mio mestiere. Cosa mi fa presumere che il mio stile, per quanto mi sforzi, sia così superiore a quello di chiunque altro da darmi l’incondizionata attenzione del lettore senza nessuno sforzo? Beata ingenuità, direi, e forse un soffio di presunzione.

Insomma, nel momento in cui decido di pubblicare una storia, essa assume una sua forma di vita indipendente da me. Dal punto di vista di questa vita, quanta gente legge la mia storia, quanta gente la legge fino in fondo, quanta gente la apprezza davvero, non sono questioni irrilevanti: sono rilevantissimi numeri che il mio libro dovrà contendere ad altri libri a colpi di molti tipi di superiorità e di appeal. E dunque, se voglio mandarlo Là Fuori, devo anche equipaggiarlo per la lotta.

Arte & Mestiereultima modifica: 2010-05-08T08:26:00+02:00da laclarina
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3 Commenti

  • Chiara, concordo su ogni singola parola e l’ho ripetuto spesso nel mio corso di scrittura creativa on line e negli altri miei post.
    Eppure sento ancora dire: “Ma non puoi scrivere sempre, devi sentire l’ispirazione!”
    Se così fosse scriverei solo venti pagine all’anno!
    Buona giornata.

  • Già… ma è un concetto duro da far passare. Che poi, non è affatto grave se i lettori si tengono l’immagine romantica, ma chi vuole scrivere – scrivere sul serio – dovrebbe, prima o poi, lasciarsi alle spalle questo concetto adolescente. E’ un po’ come rifiutarsi di ammettere che una scena teatrale sia un insieme di prospettive dipinte, manovrate tramite corde, carrucole e macchinari, no?

  • A proposito di immagine romantica:

    « Ed è mia intenzione di rendere manifesto come nessuna parte di questa poesia sia da riferire al caso o all’intuizione, e che l’opera procedette, passo dopo passo, verso il suo compimento con la precisione e la rigorosa consequenzialità di un problema matematico. »

    (da La filosofia della composizione, E. A. Poe)