Davvero Deprimente

Sotto molti aspetti gli Elisabettiani non erano gente simpaticissima. Erano pieni di pregiudizi sessuali e razziali, spesso intolleranti, spesso spudoratamente crudeli con gli animali e con i loro simili. Dare a persone vissute quattrocento anni fa delle belle opinioni liberali in fatto di omosessualità, femminismo o persino democrazia (che era poco meglio di una parolaccia per l’Elisabettiamo medio) sarebbe tanto sciocco quanto vestirli in cilindro e redingote anziché farsetto e gorgiera, e armarli di Colt 45. Ho fatto del mio meglio per evitare gli anacronismi psicologici, che considero un delitto detestabile e irritante, e tuttavia sarebbe davvero deprimente se si pensasse che condivido le opinioni di certi miei personaggi in fatto di politica o religione, razza o orientamento sessuale.

E questa era Patricia Finney, nella nota dell’autore a Firedrake’s Eye. Condivido ogni parola, compreso il cri de coeur che aleggia, inespresso ma nemmen troppo, nell’ultima riga e mezzo. È chiaro che la cosa davvero deprimente è già successa: è capitato che qualcuno le rimproverasse le opinioni dei suoi personaggi come se fossero sue. Forse qualcuno si è alzato in piedi durante una presentazione per rinfacciarle l’atteggiamento di David Becket nei confronti delle donne. O qualcun altro le ha scritto mail astiose in cui la definisce una persona orribile per l’intolleranza religiosa di cui traboccano i suoi libri…

Ora, vedete, qualche tempo fa sul blog di Aislinn era comparso un altro cri de coeur, un post in cui si lamentava la feroce prontezza di troppi lettori nell’attribuire l’idioletto di un personaggio all’incompetenza grammatical-sintattica dell’autore. E poi a strategie evolutive Davide Mana ne aveva tratto amarognole riflessioni sulla crescente mancanza di fiducia tra lettore e scrittore.

Mancanza di fiducia e di immaginazione e di capacità di astrarre, aggiungerei – e magari si trattasse soltanto del linguaggio. L’avete letta, Finney: il lettore capace di attribuire all’autore il pregiudizio cinquecentesco del suo personaggio esiste. Oh, se esiste.

E qui interviene un altro malanno di natura diversa: la mancanza di prospettiva storica. Forse vi ho raccontato della vispa quindicenne che veniva a lezione di Latino secoli fa e diceva che, se fosse stata un’antica romana, non avrebbe voluto schiavi.

“Li avresti voluti eccome,” le dicevo io.
“Nemmeno per idea! Anche nell’antica Roma avrei avuto le mie idee.”
“Ne avresti avute di tue, ma non quelle che hai adesso. Saresti cresciuta considerando la schiavitù un indispensabile pilastro dell’economia e della convivenza civile. Avresti potuto voler trattare i tuoi schiavi con umanità, ma avresti anche considerato innaturale una vita senza schiavi.”
“Ma non è giusto…”

E, pur essendo la fanciullina ragionevolmente sveglia, non c’era verso di convincerla troppo che, a distanza di secoli, non erano solo modi e costumi ad essere differenti, ma anche l’idea di ciò che era giusto e ciò che era sbagliato.

On the other hand, ci fu una lettrice sperimentale che mi rimproverò aspramente perché nelle mie storie vandeane i sacerdoti impartivano l’assoluzione preventiva prima delle battaglie. Non era colpa mia. Non me l’ero inventato. Alla fine del Settecento era una pratica comune, antica e radicata. La lettrice sperimentale si scandalizzava del fatto che lo raccontassi, perché era sbagliato. Moralmente sbagliato dal suo punto di vista moderno. E sapeva che non sono una persona religiosa, ma…

Ma le sembrava brutto che scrivessi cose del genere. Perché se l’avevo scritto, bisogna dire che lo condividessi – o quanto meno che non lo disapprovassi, visto che questi sacerdoti, per lo più, ricadevano nel campo dei Buoni. 

Il fatto che nessuno, a fine Settecento, considerasse un sacerdote un Cattivo Sacerdote (o una Cattiva Persona, for that matter) perché praticava le assoluzioni preventive – anzi! – non era rilevante. E io, che scrivevo questa gente senza almeno implicarne l’errore morale, dovevo condividere l’errore stesso.

Il che, suppongo, è frutto della convinzione che scrivere sia questione di versare su carta il contenuto delle coronarie e del proliferare di anacronismi psicologici, soprattutto nella narrativa per fanciulli. E il lettore nutrito ad anacronismi psicologici cresce incapace di prospettiva storica e sa identificarsi soltanto con personaggi psicologicamente anacronistici: in un terrificante uroburo narrativo, le Bambinaie Francesi generano innumeri altre Bambinaie Francesi…

E no, non sto cercando di essere catastrofista – è che mi riesce bene, in un mondo in cui Patricia Finney deve scrivere l’introduzione che avete letto per evitare che qualcuno la consideri piena di pregiudizi, intollerante e crudele come gli Elisabettiani di cui scrive.

Il che, se ci pensate, è davvero deprimente.

Davvero Deprimenteultima modifica: 2012-06-08T08:10:00+02:00da laclarina
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11 Commenti

  • Il fatto è che è curiosamente connaturata nella mente del lettore medio l’idea che il libro -un buon libro- debba necessariamente avere una connotazione etica. “Insegnare qualcosa”, “lasciare un messaggio”.

    Del resto l’approccio è quello, anche nelle scuole.

    Da dove viene questa tendenza?

  • Ho avuto una visione.
    C’è questa signora, elegante in maniera un po’ retrò, che assomiglia vagamente a Isabelle Huppert, seduta a una scrivania, in un ufficio lindo e ordinato.
    È la presidentessa della “Association internationale des infirmières françaises”.
    Guarda lo schermo del PC, dove Google Translate le ha appena tradotto in francese questo tuo post.
    E si domanda “Perché, signore, perché tanto odio…?”

    Se può consolarti, io ho un amico che ha affermato in più occasioni che a lui nell’Impero Romano sarebbe piaciuto essere uno schiavo istitutore – greco, probabilmente, con una buona cultura, e sicuro di scansare tanto i lavori pesanti quanto, si suppone, le occasionali frustate.
    It takes all sorts, come si suol dire.

  • @Andrea: Per quanto riguarda la scuola, I blame “L’Ora Di Narrativa” alle medie, questa atroce istituzione che è uno dei più potenti mezzi di allontanamento dalla lettura che si possa immaginare. Costringere gli implumi a leggere, analizzare e rivoltare come calzini terribili libercoli scrittiapposta, in cui i buoni sono buonissimi, i cattivi cattivissimi, tutti annegano nei clichés più biechi e nel politically correct…
    E tu, povero implume innocente, ti fai per forza l’idea che leggere sia mortalmente noioso; e tu, zelante prof. di lettere, non ti azzarderesti mai ad adottare un libro di narrativa che non grondasse buonismo generale (scambiando la predicazione per profondità); e tu, editore per l’infanzia, pubblichi questo perché questo è quel che si richiede da te…
    Sto diventando un nonnulla acida, vero? 🙂
    Ma il fatto è: l’idea che un libro debba avere un messaggio è una vexata quaestio vecchia come le colline (ricordi l’ultimo capitolo de Gl’Insorti?) – poi, suppondendo di volercelo mettere, tutto sta nell’intendersi su cosa sia un messaggio e su come vada somministrato: inducendo il lettore a farsi domande o sbattendogli ripetutamente in testa le convinzioni dell’autore?

  • @Davide: 😀 Mais non, Madame la Présidente, veuillez agréer les sentiments de mon éstime. La faute toute entière est de Mme Pitzorno.

    Immagino che il tuo amico non abbia neanche tuttissimi i torti, a suo modo… Anche se forse il precettore greco medio non era nato schiavo, e quindi non so con quanto aplomb filosofico sapesse prendere la circostanza. Però se era uno stoico, magari… Oh well.

    Una volta ho letto un memorialista ottomano – forse Tursun Beg? Can’t remembre right now – che protestava contro l’atteggiamento dei Cristiani nei confronti della schiavitù. Molti ragazzini cristiani, diceva costui, che nelle loro circostanze sarebbero diventati caprai o morti prima di diventare adulti, una volta raccolti per devshirme e portati a Edirne per diventare buoni Musulmani, finivano col ritrovarsi, se ne avevano le capacità, generali, o segretari di sultani, o funzionari di palazzo, o studiosi, o addirittura vizir… Schiavi, sì, ma much better off che caprai liberi…

    Per cui tutto è molto relativo.

  • Acidità comprensibile.

    Ma per il resto, come disse Michael Moorcock a Samuel Delany, “Se non abbiamo nulla da dire, perché perdere tempo a scrivere?”
    Si tratta poi solo di non usare un randello troppo nodoso per inculcare le idee nella testa del lettore.

  • Il ragionamento del memorialista ottomano mi ricorda molto da vicino quello di un mammasantissima della yakuza giapponese (ho amici criminologi), che faceva osservare come, se non ci fosse stato il crimine organizzato a dar loro un impiego come taglieggiatori o spacciatori di droga, un sacco di quei ragazzini avrebbero perso tempo e non avrebbero combinato nulla di buono.
    Il crimine organizzato svolge una positiva azione sociale.

    È il vecchio “if it’s good to you, it’s good for you”.
    O viceversa.

  • @Davide: la natura, qualità e tecnica d’uso dei randelli è un affascinante argomento. A indurmi al furore tremendo, tuttavia, è la pretesa di appiattire la forma mentis di un altro secolo in ottusa malvagità, e farne uno sfondo di cartone per qualche illuminata – e anacronistica – sensibilità XXIème Siècle, invece di cercare di mostrarla per quel che era nel suo contesto… *sigh&groan*

    E ho omesso la conclusione del memorialista, secondo il quale i Cristiani, con la loro sostanziale immobilità sociale inchiodavano ciascuno alla propria nascita in una forma di schiavitù de facto… And so they had no business crying to high heaven.

  • Concordo in pieno sul contestualizzare – che è poi da dove è partita la discussione. Se chi legge non capisce la contestualizzazione, si finisce accusati di cose turpi…
    E d’altra parte, uno sarebbe portato a dire, se leggi narrativa storica, sarà perché vuoi il senso del passato, non il presente in costume…
    Ma poi penso a chi si lamenta della narrativa fantastica troppo fantastica, della troppa scienza nella fantascienza, e di tutti quei tipi orribili nel poliziesco, e mi dico che probabilmente c’è un vizio di fondo comune a tutti.
    Le cose semplici danno assuefazione – il dumbing-down è un tunnel dal quale è difficilissimo uscire.

    [e ora basta, che in due scambi di commenti, mi hai dato materiale per una settimana di blogging… a scapito della mia vita reale 😉 ]

  • 😀 Vita reale? Che cos’è una vita reale? Qualcosa che si mangia col chutney?

  • Grazie per avermi citata. Condivido in pieno il tuo post. Sarebbe facile adeguarsi “al ribasso”, venendo incontro ai lettori che non vogliono o non sanno fare il minimo di sforzo necessario per comprendere il testo che hanno davanti, ma io credo che sia più giusto scrivere sentendosi liberi, di sperimentare, di mostrare, di mettere in campo ogni tipo di personaggio e ogni voce.
    Se non ti dispiace, ti metto tra i miei link. A presto

  • @Aislinn: figurati -grazie a te.