Cose Che Noi Semiumane Non Possiamo Nemmeno Immaginare

Rant ahead, vi avverto.

Il 30 luglio è morta Maeve Binchy, un’incantevole romanziera irlandese, autrice di deliziose storie come Light a Penny Candle (uscito in Italia come L’Amica del Cuore) o Whitethorn Wood (Il Bosco dei Biancospini) – e molti altri.

La signora Binchy raccontava storie d’Irlanda con una grazia sorridente e acuta, era tradotta in una quarantina di lingue e nel corso della sua carriera ha venduto qualcosa come 40 milioni di copie. Era anche, a detta di chi la conosceva, una persona straordinariamente carina e tutti la ricordano con affetto e rimpianto.

Poi in mezzo a tutto ciò è piombata Amanda Craig.

Amanda Craig è a sua volta una romanziera, e ha pensato bene di ricordare l’adorabile Maeve con un articolo sul Telegraph, in cui si domanda se il fatto di non avere avuto figli non l’abbia penalizzata come scrittrice.

O meglio – anzi peggio: se Maeve Binchy fosse stata una madre, non sarebbe stata una scrittrice migliore?

[And now, all toghether: But why, of course!!!]

Perché, sapete, è ovvio che una scrittrice senza figli è straordinariamente privilegiata nella sua possibilità di dedicarsi solo alla scrittura – però le manca e le mancherà sempre… che cosa, di preciso?

Ecco, l’argomento di Craig è questo: la Scrittrice Senza Figli (henceworward known as SSF) può essere capace di immaginare la maternità, di farlo molto bene, di scriverne divinamente, MA non è una madre, e quindi le manca non solo l’esperienza diretta, ma anche una sorta di Empatia Superiore e Illuminata Comprensione dell’Umana Natura che viene soltanto con la Maternità. 

Quindi la SSF ha tutto l’agio di sfornare romanzi come se piovesse, ma di certo si tratta di lesser fare, in confronto alle poche, sudate, illuminate opere che una Madre può faticosamente cesellare tra un pannolino e una visita dal pediatra. Lesser fare, perché alla SSF mancano sia l’Esperienza Essenziale Nella Vita Di Una Donna che l’Aura che da quell’Esperienza viene…

Certo, concede Craig, bontà sua,

Maeve Binchy non ha avuto bisogno di sperimentare la maternità per scrivere d’amore e d’amicizia in un modo che ha affascinato milioni di lettori…

MA…

…se l’avesse fatto, avrebbe potuto scavare più a fondo, magari affascinando meno, ma illuminando di più.

Ecco, furore tremendo.

Furore per Maeve Binchy (che delicata e affettuosa maniera di ricordarla!), e più in generale per tutto quel che c’è di sbagliato, offensivo e deprimente in questo atteggiamento.

Dunque avere dei figli è la singola cosa più importante che una donna può fare?
Dunque la maternità è l’unica esperienza che consente di capire e narrare il mondo?
Dunque una SSF è solo un grazioso accessorio e un’artista minore, capace magari di affascinare ma giammai di illuminare?*
Dunque, per contro, una scrittrice è investita della mistica capacità di illuminare nell’istante in cui partorisce?
Dunque la Maternità è la sola esperienza di cui valga davvero la pena scrivere?

E mi piacerebbe pensare che si tratti di un caso isolato di idiozia e cattivo gusto – limitato ad Amanda Craig e alla redazione Libri del Telegraph, ma purtroppo non è così. Se siete donne senza figli sopra i trenta, scrittrici o meno, odds are che qualche variante di questa conversazione l’abbiate avuta: Ah, ma tu non sei madre, per cui… Ah, ma tu non puoi capire… Ah, si vede che non hai figli… Ah, non sai cosa vuol dire… Sempre intendendosi che dobbiate per forza essere donne minori, un pochino inutili e, se la mancata maternità non è la tragedia della vostra vita, anche del tutto aride.

E se poi, oltre ad aver superato la trentina senza produrre prole, avete anche la pretesa di scrivere, rientriamo in territorio Craig: ma come vuoi poter scrivere di queste cose, tu che non hai figli? Al che tendete a rispondere rivendicando la capacità di osservare, astrarre e trasporre che è propria dell’artista: Shakespeare non era né era mai stato una ragazzina di quattordici anni, e non per questo pensiamo che gli mancasse qualcosa per scrivere Giulietta, giusto?

Ma questa risposta non basta con Craig. Craig va oltre. Craig riconosce che “scrivi di quel che sai” è una massima sopravvalutata, e che l’osservazione esterna può consentire di scrivere di un argomento con finezza e lucidità somme. Però non basta. Non basta perché manca irreparabilmente un che di viscerale e non ben definito, un Qualcosa-qualcosa che soltanto la Maternità conferisce.

Se Jane Austen avesse avuto figli, non si sarebbe concentrata tanto su corteggiamenti e bisticci. Se le sorelle Brontë avessero avuto figli, avrebbero scritto di pannolini e coliche anziché di cupi manieri e brughiere squassate dal vento. Se Virginia Woolf avesse avuto figli, si sarebbe occupata di cose più importanti che non i fiori di Mrs. Dalloway e i pennelli di Lily Briscoe. E questo, sostiene Craig, avrebbe fatto di loro altrettante scrittrici migliori.

Che se poi seguiamo il ragionamento fino in fondo, tutta una letteratura incentrata sulla maternità dovrebbe essere pienamente comprensibile soltanto alle madri… a meno di assumere che noi childless people siamo assetati di quel po’ di luce che possiamo suggere dalla letteratura stessa. In fondo la Scrittrice Madre illumina, giusto? E chi necessità di luce più di noi tragiche e/o vacue mezzedonne? O forse, in realtà, noi childless people non contiamo poi granché, e quindi poco importa quel che leggiamo?

E sì, lo so, sto diventando un nonnulla acida, ma mi irrita profondamente essere considerata una mezza persona perché non ho figli. Vedermi bollare per estensione anche come una mezza scrittrice sul Telegraph… ecco, di questo proprio non sentivo la mancanza.

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* E, signori uomini, ce n’è anche per voi. Perché nella spensierata (e non-significativa) facilità della sua vita, una SSF è proprio come uno scrittore maschio. Anche voi siete gente di seconda scelta che non partorisce, non comprende, non illumina…

 

Cose Che Noi Semiumane Non Possiamo Nemmeno Immaginareultima modifica: 2012-08-06T08:11:00+02:00da laclarina
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10 Commenti

  • Non inacidire, non si addice alla tua deliziosa persona. Il mondo sarà sempre pieno di cretini, è cosa nota, ma la cretinità applicata alla natura e/o condizione femminile, condita dall’argomento maternità, è di un tipo speciale e pervicace. Ti ho detto che giorni fa sul blog di Urania due imbecilli hanno dubitato del mio romanzo a priori perché la giuria del Premio era composta di tre donne su cinque membri, e “si sa” che le donne di fantascienza non capiscono un… a rapa? 😉

  • Amanda Craig è un’imbecille superficiale, così come tutti quelli che tirano fuori quest’argomento delle “donne senza figli” in qualsiasi contesto.
    Averne di altre Woolf, Austen e Brontë…

  • @Alessandro: ecco, appunto. Quando Sei Madre È Diverso, Le Donne Non Capiscono Una Rapa Di Fantascienza, Non Ci Sono Più Le Mezze Stagioni… il luogo comune elevato a critica letteraria. Oh, save&deliver us…! 🙂

    @Pat: io capisco che esista un forte condizionamento biologico a favore della maternità – contintuità della specie and all that jazz – e che in un’era in cui la maternità ha cessato di essere l’unica opzione aperta a una donna sia necessario romanticizzare il condizionamento biologico, ma farne un discrimine, anzi IL discrimine per l’eccellenza artistica mi sembra davvero deprimente.

  • Orrido risultato del miope concetto secondo il quale le mie esperienze sono più significative delle tue*.
    Questa idea che esistano esperienze che sono sempre e comunque, imprescindibilmente l’anticamera di uno stato di illuminazione per cui, senza le prime, non si ha il secondo.
    L’idea che “il più terribile dolore della mia vita” non sia comunque comparabile al tuo, che è molto più intenso e terribile.
    L’estremo è sempre estremo.
    Ridere (a titolo d’esempio) dei crepacuori adolescenziali perché nulla c’è di più terribile di un amore finito sul lato in ombra degli -anta è sciocco, presuntuoso e piuttosto romantico.
    Ed affermare che l’aver vissuto l’una esperienza piuttosto che l’altra attivi differenti livelli di consapevolezza è abbastanza discutibile.

    Sorge un forte sospetto di rivalsa fasulla.
    “Sì sì, avrai anche scritto dei gran libri, ma io ho fatto anche dei figli.”

    Mi sorprende inoltre che un ragionamento del genere – che tra le altre cose annienta quarant’anni (o ottanta!) di lotte femministe – arrivi da una donna.
    Perché se una donna che non ha fatto figli “scrive proprio come un uomo”, mancando di illuminazione e percezione, allora esiste evidentemente una base biologica per affermare la superiorità morale, sentimentale ed intellettuale di un sesso sull’altro.
    E che il sesso superiore sia quello delle puerpere, beh, ragazze, è poi solo la vostra versione… 😉

    (* stavo per dire “pregnanti”, ma sarebbe parsa un’ironia di bassa tacca)

  • 🙂
    A me pare che l’articolo del Telegraph pasticci su più fronti. Un gran minestrone di luoghi comuni che per loro natura tendono a rendere sgradevoli anche quelle (poche) affermazioni sensate ivi contenute. Per altro non capisco bene quale sia il punto in oggetto, e quale il fine (un tentativo, banale, di ridimensionamento un po’ snob dell’autrice citata? Non saprei, ma qui pecco io, di ingenuità intellettuale).

    La questione del tempo post-maternità a disposizione “per sé” è concreta. Non solo una questione di tempo fisico, che ad una madre manca a priori, per definizione. “All working mothers are familiar with the double toll of raising a child while earning a living”. Cielo, come si può dar torto? Ecco perché delle volte le mamme escono con la tuta o il mollettone tra I capelli, orrore e raccapriccio. “The toll isn’t only the phisical one, of broken nights and infections passed on from playground to parents (ma tu avresti mai neanche sospettata, l’esistenza di robe tipo la “mani-piedi-bocca” – una cosa che ai bambini dura 4 giorni e a te e a tuo marito ti stende per due settimane? Mah, mistero); it’s also intellectual as you strive to get you little darlings through their exams”. Ok, iniziamo a riflettere sul serio.

    Che la maternità modifichi degli equilibri interiori, questo è poco ma sicuro (pure la temperatura interna, ti modifica; si si come no, hai sempre ‘ste scalmane premenopausa che hai voglia a fare la figa sul metrò di inverno, con sciarpa e cappello in ecopelo. Tempo Repubblica-Monte Napoleone e sei già sudata come un maiale, alone ascellare incluso e frangia appiccicata alle tempie). Certo saranno equilibri diversi, assolutamente non statici, che si dovranno necessità modificare rapidamente, in maniera reattiva a seguito della crescita anagrafica e psichica delle creature – e spesso senza che quel che c’è di oramai passato sia stato adeguatamente, metabolizzato, col rischio che sì, è vero “We all worry about doing two things badly rather than one thing well” con tutta le questione dei sensi di colpa a valanga che tale affermazione si porta dietro.

    Detto ciò, credo tuttavia che sia pretestuoso fantasticare sui probabili esiti letterari di una Virginia Wolf in pieno delirio da ormone gravidico (o vittima della depressione postpartum). Non sono una fan dell’ucronia, per cui preferisco lasciare il passato al suo posto evitando la guerra dei se e dei ma. Forse Virginia sarebbe stata bravissima a parlare di maternità, peccato che poi ci saremmo privati dei fiori di Mrs. Dalloway, e chi li ripescava più? Nessuno.
    Non ho gradito personalmente neppure il “No matter what your experience of adult love, there is nothing as strong as the bond between a mother and a child” – assolutamente vero, sempre che tu abbia un momento frainteso: attention pls, quello che stai cullando tra le braccia è tuo figlio, NON tuo marito! Non ho apprezzato questa escalation di dubbio gusto che presuppone un amore unico che non prescinde dalla sostanza dell’oggetto amato (un figlio, un marito, un padre, un gatto… same thing? Oh no, my God).

    Una cosa però mi preme dire. Sulla sofferenza che l’essere madre porta. Fare la mamma è un maelstrom di sentimenti che ti lascia sveglia la notte; è una coperta ruvida e corta che come la tiri, o ti lascia scoperti i piedi o la testa; è un naufragio perfetto che ti deposita, nuda e infreddolita, su un’isola deserta, e come complemento di arredo, sopravvissuto alle onde, uno specchio sbreccato che rimanda all’infinito la tua immagine scarmigliata.
    Le felicità delle madri sono evidenti (anche se talvolta un po’ “costruite”). Una scrittrice in possesso di acuta sensibilità, talento e arte le può riprodurre. Perché le madri, se sono felici, non sono solo felici; sono raggianti e questa felicità spesso la gridano, la strepitano, la urlano a tutti, anche in maniera eccessiva, violenta, finanche irrispettosa magari nei confronti di chi, piuttosto che childfree, si sente solo childless.

    E invece le madri, se sono infelici, è difficile che te lo vengano a dire. Le mamme si disperano dentro, da sole, di sera, quando i bambini dormono e non le possono vedere. E poi sperimentano questa diabolica abilità autodistruttiva anche all’esterno. Quasi mai sentirai una primipara esternare il sentimento di soffocamento nei confronti della creatura che dipende dal suo seno: una creatura che si attacca vorace al capezzolo, che lo fa sanguinare, che ti prosciuga le energie con l’allattamento e le veglie notturne. Quando mai una donna, condizionata dalla società e dall’imperante morale cattolica, oserebbe soltanto esternare, seppure in un sussurro, questo pensiero indecente?
    Quando mai ti capiterà di vedere una madre china per l’ennesima notte di seguito sul letto del figlio più piccolo che respira a fatica: una febbre strana, violenta, che non se ne vuole andare e il medico che non risponde al cellulare perché è sabato sera?
    Raramente, a meno che tu non abbia una sorella, o una amica intima, o una figlia appena divenuta mamma a sua volta. Per questo è difficile – ma non impossibile – per chi non è madre, penetrare nelle sofferenze profonde di chi madre invece lo è, magari di figli malati, o con handicap, o strappati alla vita.

    Penso che debba essere intesa in questo senso l’affermazione: “It starts with your own, for even with pain relief, the shock of giving birth changes you forever. The feelings of intense vulnerability (your own and, more importantly, your child’s) passionate, love, joy, bewilderment and exhaustion are unlike anything else” e non riesco sinceramente a leggerci una reale condanna di chi di figli non ne ha fatti, per scelta o per costrizione: di certo io non saprei descrivere le emozioni che dà il kitesurfing a chi lo pratica tutto l’anno, visto che non so neanche nuotare a rana col salvagente. E anche se un esperto di kitesurfing mi raccontasse nei dettagli ciò che si prova a volare sull’acqua a velocità supersonica, non credo sarei in grado di riprodurle sulla carta, quelle sensazioni.

    Mi viene in mente quel libro fortissimo di Cristina Comencini (3 figli), “Quando la Notte”, da cui hanno anche tratto l’omonimo film pluripremiato, che tratta proprio delle tematiche della depressione post parto.
    Oppure Margoux Fragoso (1 figlia), l’autrice di “Tigre, Tigre”, una terribile e autobiografica storia di abusi infantili perpetrati ad opera del vicino di casa di turno.
    Oppure Irene Nemirowsky, facoltosa intellettuale russa poi emigrata con la famiglia in Francia, vincitrice di un biglietto di sola andata Paris/Aushwitz-Birkenau anno 1943, che di figlie, indietro, ne lasciò due; autrice di alcune delle più belle e crudeli pagine della letteratura francese moderna sulla maternità e sui rapporti conflittuali tra madri e figlie. E ancora, Eowyn Ivey (vive in Alaska con “marito e figlie”, come recita la biografia) autrice della bella ricontestualizzazione della struggente favola popolare nordica della “Bambina di neve”.

    Possiamo giocare con la letteratura. Vediamo davvero, senza pregiudizi, quali scrittori/trici, italiani e stranieri, abbiano portato alla luce, con attenzione e delicatezza, l’oscurità dell’amore materno. Penso che rimarremmo sorprese, sia nell’uno sia nell’altro senso. Perché, per esempio, alcune delle più belle pagine (no, meglio, DRAMMATICHE pagine) sull’allattamento io le ho lette. E non sono state scritte da una donna, childless, childfree che dir si voglia. Sono state scritte da un uomo: il conte Lev Nikolaevic Tolstoj, in Anna Karenina.

    Oh, io ci ho provato, fammi sapere cosa ne pensi!
    Ciao 🙂
    ADC

  • @Davide: la rivalsa – non ci avevo pensato, nel mio candore. Specularmente opposta a quelle scrittrici che, negli Anni Settanta, dichiaravano di avere avuto libri anziché figli… ossignor. Non s’impara proprio mai nulla, eh? E sì – da Amanda Craig mi aspettavo di meglio…

  • @ADC: non saprei, non saprei.
    Non sono certissima di condividere proprio tutto quel che scrivi – per esempio, sulle madri che gioiscono rumorosamente e soffrono in silenzio ho, per esperienza diretta, qualche dubbio, così come conosco gente childless (o childfree) che bada ad anziani genitori malati e/o occupa posizioni di responsabilità dal rilevante all’estremo e, se volesse scrivere, non troverebbe un filo d’agio in più della più occupata madre di cinque.
    Quanto al dolore, è indubbio che la maternità se ne porti dietro – ma non è prerogativa esclusiva della maternità.
    Detto questo, il mio problema con l’articolo di Craig è piuttosto diverso: Craig non rimprovera a Maeve Binchy di avere scritto di maternità senza averne fatto esperienza, ma afferma che la mancata maternità ha reso lei (così come Jane Austen, e Virginia Woolf e le sorelle Brontë) una scrittrice di livello inferiore a quello che la maternità le avrebbe permesso di raggiungere.
    Che la sua conoscenza della natura umana era di necessità imperfetta perché le mancava quella fondamentale Esperienza.
    Che, essendo childless, poteva aspirare ad affascinare, ma giammai a illuminare.
    Che scrivere di amore adulto è cosa per natura inferiore a scrivere di maternità.
    E no, non ci vedo una “condanna” di chi non ha fatto figli – anche perché non so troppo bene che cosa ci sia da condannare – ma un’estensione in campo artistico dell’avvilente idea che sia la maternità a fare la persona. In questo caso, secondo Craig, è la maternità a fare l’artista.
    Quanto allo scopo dell’articolo… mah. Azzardo un’ansia di distinguersi dal coro? Un colpo di cassa-di-sapone? Una rivalsa meschinella, come suggerisce Davide? In effetti, dopo averlo letto e riletto, viene da chiedersi che cosa diamine avesse in mente…

  • :)) Sette-di-Nove, col sopracciglio alzato e la sua voce metallica da Borg redento apostroferebbe la Craig con qualcosa del tipo…. “specificare” 😉
    ps. vedevi Star Trek Voyager?!! 😀

  • 😀 Mi sa tanto che qualche Borg col sopracciglio alzato Ms. Craig l’abbia dovuto affrontare, in questi giorni…

    Ah, temo di essere ferma a Enterprise – con qualche sporadica incursione in Deep Space Nine – ma ho un amico appassionato di Voyager che mi catechizza da anni, per cui Sette-di-Nove è quasi una persona di famiglia…

  • Il punto è che non si mette in dubbio che la gravidanza e il parto siano esperienze che trasformano una persona.
    Ciò che è ampiamente discutibile è che si tratti delle esperienze fondamentali, del grande spartiacque tra quelle che si e tutti gli altri che no.
    Esistono infinità di esperienze che ci cambiano radicalmente l’esistenza, modificando in maniera sostanziale la nostra percezione della realtà, ed affermare il primato di una sulle altre è estremamente sciocco, oltre che una dimostrazione di una straordinaria mancanza tanto di empatia quanto di fantasia.
    Ciascuno di noi ha la sua esperienza chiave – o se è particolarmente fortunato (o sfortunato, depending on your politics) la sue sequenza di esperienze chiave – e saperci connettere con quelle emozioni e quelle situazioni fa certamente di noi narratori migliori.
    Ma affermare che esiste una specifica esperienza che per sua natura assoluta è sempre e comunque superiore a tutte le altre, è miope e semplicistico, oppure è un modo per darsi un tono.