Ad Alta Voce E Con Le Cesoie In Mano

Era un po’ di tempo che non si parlava di tecnica, ma nel giro di pochi giorni mi è capitato un paio di volte di sentirmi dire (o implicare) che scrivere teatro è “più facile”, perché in fondo si tratta solo di scrivere dialoghi.

Perché a proposito dei dialoghi vige questo bizzarro mito: be’, quanto può essere difficile scrivere dialoghi? È la forma di linguaggio con cui tutti abbiamo, per forza di cose, più dimestichezza, no? Tutti parliamo, tutti usiamo il dialogo ogni giorno… ergo, scrivere dialoghi è facile.

Ebbene, no. È vero che tutti usiamo quotidianamente il dialogo, ma basta provare a trascrivere verbatim un pezzo qualsiasi di conversazione per accorgersi di che differenza abissale ci sia tra quel che si dice e un buon dialogo letterario – o teatrale.

Per prima cosa, trascrivendo, ci si rende conto che Nella Vita Quotidiana si dicono (e ripetono) un sacco di cose irrilevanti, sciatte e vacue, che per iscritto si condensano, rendono coerenti e intelligibili – possibilmente conservandone efficacia e sapore. Randy Ingermanson dice che il buon dialogo è pesce già sfilettato: solo le parti buone. Non si tratta di riprodurre pari pari il modo in cui parlano le persone, ma di trovare il giusto equilibrio tra realismo, registro ed efficacia, e servirsene per convogliare soltanto informazioni rilevanti.

Tutto quello che si mette sulla pagina deve servire a caratterizzare un personaggio e/o far avanzare la storia – possibilmente entrambe le cose. Ogni battuta di dialogo che non svolge almeno una di queste funzioni… a questo punto dovrei dire “va eliminata”, ma mi limiterò a qualcosa di meno drastico. Ogni battuta di dialogo che non svolge almeno una di queste funzioni, non ha una ragione narrativa per essere dov’è. Non è sempre facile. Personalmente, devo continuare a impormi di potare tutto ciò che è soltanto decorativo – non importa quanto mi piaccia. E non sempre ci riesco. A volte, nel tentativo di rendere rilevante qualcosa che mi piace troppo per poterci rinunciare, sono capace di dissennati equilibrismi, fino al momento in cui mi rendo conto che sto facendo John&Iris – e allora taglio tutto quanto, e in genere la scena ne guadagna.

Ma questo non mi rende necessariamente più saggia per la prossima volta.

Oh, e John&Iris è lessico famigliare per l’eccesso opposto al chit-chat decorativo, quando si lardella il dialogo di informazioni non plausibili. Può essere necessario informare il lettore sul rapporto tra il narratore, John e Iris, e del fatto che sono passati tre mesi dalla scena precedente, ma non per questo si può far esclamare al narratore “Buongiorno John, mio vecchio e fraterno amico! E come sta tua moglie Iris in questa splendida giornata di giugno?” In molti romanzi in cui una tecnica di qualche genere – non importa se si tratti di sottomarini, procedura legale, arazzi o curling – gioca un ruolo, capita di trovare lunghe pagine di dialogo in cui due o più personaggi si scambiano dettagliate informazioni su particolari che dovrebbero già conoscere a menadito. Ricordate il Comandante Phillips e la Regola del Sottomarino Nucleare?

Dopodiché trovare (e mantenere) la giusta combinazione di efficacia e plausibilità è tutt’altro che facile: è una questione d’orecchio, buon senso e intuito in parti variabili.

Io trovo utili due metodi – e li sto usando parecchio per la seconda stesura del Play Senza Titolo – di cui magari state seguendo le vicende via bollettini notturni. In primo luogo, mi leggo i dialoghi ad alta voce. Meglio ancora sarebbe farseli leggere da qualcuno – se avete una o due persone pazienti e disponibili, e so di gente che fa da sé, si registra e riascolta. Ora non dico che sia a prova di bomba, ma nove volte su dieci, se c’è, la magagna viene a galla.

Ma prima, o dopo, o prima e dopo, prendo la mia scena e fingo con convinzione di poterne tenere solo due terzi*. A che cosa proprio non si può rinunciare? È divertente quasi come farsi estrarre i denti del giudizio – ma la maggior parte delle volte, potato di fioriture, svolazzi e quisquilie varie, il dialogo ne esce più affilato, più efficace e più vivido.

Per cui, no: non c’è niente di facile nello scrivere dialoghi, thank you very much. È roba da liutai, una di quelle faccende di orecchio, precisione, tecnica, pazienza, numerose fasi e, tanto per cambiare, un sacco di lavoro. 

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* O tre quarti – anche se conosco anime avventurose e drastiche, che riducono alla metà.

Ad Alta Voce E Con Le Cesoie In Manoultima modifica: 2012-08-29T08:10:00+02:00da laclarina
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4 Commenti

  • La lettura ad alta voce è un terreno di prova per tutto ciò che scrivo.
    Se non ha ritmo, se non suona vivo, è ora di metterci mano – che sia un dialogo o che sia un passaggio tecnico in un articolo accademico.

    Nella scrittura del dialogo, io di solito lavoro in tre tempi.
    Nel primo, immagino la scena generale, e abbozzo dialogo e caratterizzazione (questo può anche essere in fase di outlining).
    Poi scrivo “ad occhi chiusi”, concentrandomi sul dialogo, sullo scambio di battute, sul suono.
    A questo punto, passo a scrivere “ad occhi aperti”, aggiungendo il movimento, la scenografia, i dettagli fisici.
    Non è particolarmente dispersivo, anche perché spesso, inserendo le azioni dei personaggi, si scopre che certe battute si possono tagliare o cambiare, e quindi ci finisce dentro anche un po’ di revisione.

    Lo strumento principe, comunque, per scrivere un buon dialogo, è origliare le chiacchiere delle persone in tram, in treno, in coda al supermarket…

  • “Lo strumento principe, comunque, per scrivere un buon dialogo, è origliare le chiacchiere delle persone in tram, in treno, in coda al supermarket…”

    Uno dei (tanti) motivi per cui vorrei tanto poter fare una capatina nella Londra del tardo Cinquecento, assistere a una tragedia in piedi tra i groundlings del Rose, fare due passi tra le bancarelle di libri del cortile di Saint Paul, ordinare chiaretto a un tavolo del Mermaid e ascoltare la gente… Eh.

  • Possibile che ci fossero delle sostanziali differenze nei ritmi del dialogo, fra ‘500 e 21° secolo.
    Cambia il lessico, certo, ma il ritmo?
    Il ritmo del parlato è legato a un sacco di cose.
    La respirazione – quella incide, e non credo sia cambiato il modo in cui respiriamo (ma i corsetti? Oltre a provocare svenimenti, incidevano sul modo di parlare, sulla lunghezza delle frasi, sull’enfasi…?).
    La percezione del tempo? Mah… siamo davvero più veloci e sincopati dei nostri antenati?
    Sarebbe bello, farci uno studio…

  • Sarebbe bello, sì. E non so, ma può darsi che ci sia altro ad influenzare il ritmo. Per dire, tra RP oxbridgense e lilt irlandese, per dire, il ritmo è considerevolmente diverso, anche se presumo che respirino tutti allo stesso modo. Per cui è possibile che le cose siano cambiate anche attraverso i secoli.
    E un viaggetto per sincerarsi… alla peggio si torna con la constatazione che i ritmi sono identici. 🙂