Gen 21, 2013 - Vitarelle e Rotelle    14 Comments

La Consolante Provvisorietà Delle Prime Stesure

Scrivere una prima stesura è come orientarsi a tentoni in una stanza buia, o traudire una conversazione sussurrata, o raccontare una barzelletta senza ricordarsi come va a finire. Non so più chi abbia detto che si scrive più che altro per riscrivere e revisionare, perché è riscrivendo e revisionando che la nostra mente prende piena confindenza con ciò che abbiamo scritto.

E questo era Michael Seidman, citato da Cindy Vallar sulla HNR, un paio di numeri orsono.

Credo che sia qualcosa di terribilmente difficile da imparare, e in tutta probabilità la prima causa di morte letteraria. È difficile, difficile, difficile convincersi che la prima stesura è soltanto una prima stesura, il cui scopo è quello di buttar fuori un ragionevole abbozzo della storia. Per poi lavorarci su. Sistemare la logica, aggiungere folgorazioni, intonare la voce, aggiustare lo schema di colori, il ritmo e i particolare, scuotere la struttura e i meccanismi finché non funzionano alla perfezione – questi sono tutti compiti per la revisione.

E credete, non sto predicando – o, se lo faccio, predico prima di tutto a me stessa, perché per molti anni ho strologato fino alla nausea su ogni virgola della prima stesura e, una volta giunta alla fatidica paroletta di quattro lettere, non sapevo mai indurmi a nulla più di un safari a caccia di errori di battitura, una spolveratina qui, una timida sfrondatina là…

Ma ogni volta che si presentava la necessità – o la possibiltà – di un intervento più energico ripensavo a tutto il lavoro certosino e alla bruta fatica che avevo profuso nella prima stesura, e mi mancava il coraggio.

E questo, ammettendo che alla fatidica paroletta ci fossi arrivata affatto. Non vado per nulla orgogliosa della quantità di inizi che giacciono qua e là nel mio hardware, come ciclopiche ossa in un cimitero degli elefanti. Oh, sono tutte ossa lucidate a cera – talmente lucidate che ogni volta, alla prima difficoltà, al primo intoppo, al primo colpo di noia, ho ripensato a tutto il lavoro certosino e alla bruta fatica eccetera, e mi sono scoraggiata. 

Oppure sono ossa più nature, in cui mi pareva di non trovare la voce e il ritmo e il colore che volevo e, invece di dirmi che per quello c’era tutto il tempo, e avanzare da bravo soldato… indovinate un po’? Mi sono scoraggiata.

E ancora adesso, per quanto sappia che non è così che funziona, faccio una fatica del diavolo a non perdere una sessione di scrittura fissando lo schermo e tambureggiandomi sullo sterno la Marcia Funebre di Chopin con le dita, nell’insana fissazione di trovare la replica perfetta alla battuta del personaggio X.

E poi qualche volta mi rendo conto che non è affatto detto che la battuta di X resti così com’è indefinitamente, e forse se non riesco a trovare una risposta adatta è anche perché quella fettina di dialogo non va bene in generale, e comunque non è un problema che devo risolvere adesso, e allora aggiungo un’annotazione tipo [Y TAGLIA X A FETTINE MOLTO SOTTILI – CONCLUDENDO CON UNO SCONSIDERATO AFFONDO IN CUI NOMINA Z > CONSEGUENZE] e passo oltre. Ci penserò in fase di revisione – ammesso che debba ancora farlo.

E poi, quando arrivo alla revisione, qualche volta il problema si è risolto da sé, qualche volta è superato, qualche volta richiede ulteriori cogitazioni, ma…

Badate a questo, perché è importante – ed è l’acqua calda, I know, eppure vorrei che qualcuno me l’avesse detto prima, e anche adesso che lo so, sentirei il bisogno di incidermelo in fronte*. Dico davvero, badateci:

Il punto è che, quando si arriva a riscrivere e revisionare un nodo lasciato indietro, si è forti di tutto il resto della storia. Si sa che cosa succede dopo. Si sa come va a finire. Si sa dove e come possono germogliare le conseguenze del nodo. E, cosa non indifferente, si ha molta, molta, molta più confidenza con la storia in generale. 

Per cui, a parte tutto il resto e a parità di problema, le probabilità di saperlo risolvere in seconda stesura sono infinitamente superiori a quelle che si avevano prima.

Ecco.

Perché è in revisione che si trova l’interruttore, o ci si avvicina alla gente che sussurra, o ci si ricorda come va a finire la barzelletta. E, a differenza dei narratori di barzellette, si può tornare indietro e raccontarla meglio.

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* Modo di dire che mi piace, ma non posso fare a meno di considerare un po’ scemo, perché una volta che me lo fossi inciso in fronte, non avrei modo di leggermelo. Avrei bisogno di qualcuno che me lo leggesse. Oppure dovrei farlo incidere a rovescio per poterlo leggere allo specchio. Ma c’è anche la possibilità che un’incisione in fronte sia un procedimento abbastanza doloroso da restare memorabile a lungo – insieme alla causa della sua adozione? Ma allora forse basterebbe un’incisione meno elaborata e da qualche altra parte che non fosse la fronte? E lo so, tutto ciò non ha un briciolo di senso e i modi di dire son modi di dire, ma abbiate pazienza: sono convalescente.

La Consolante Provvisorietà Delle Prime Stesureultima modifica: 2013-01-21T08:07:00+01:00da laclarina
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14 Commenti

  • La scrittura digitale offre una possibilità ottima per tamponare – se non eliminare – il panico da revisione.
    Si può conservare in eterno la prima stesura, e lavorare su una copia.
    Io di solito la prima stesura la martello con un notepad in formato txt.
    Quella rimane a perenne memoria della prima fase del lavoro.
    Poi apro il txt con un software di scrittura “da grandi” (LibreOffice, di questi tempi) e lo revisiono, cancello riscrivo, sposto blocchi di testo avanti e indietro.
    Posso addirittura avere più revisioni, e osservarle fianco a fianco, e decidere quale sia la migliore.
    O integrarne due per ottenere la terza, quella che mi pare meglio.
    È divertente.

  • Me too – in teoria. Un paio di anni fa ho scoperto Q10 per le prime stesure. In teoria poi dovrei spostare tutto in Scrivener e *poi* cominciare a trafficarci su. In teoria. Cerco, cerco, cerco di attenermici, ma… hm.
    L’unica vera seccatura è che con il teatro non ho ancora trovato il modo di convertire automaticamente il .txt nella formattazione “da teatro”. Sono certa che il modo c’è, solo che non l’ho ancora scoperto, e convertire manualmente è lungo, brigoso e una noia mortale.

  • C’era chi (indovina chi?) scriveva i romanzi di getto, praticamente senza rileggerli. Ah, altri tempi! 🙂

    Però non colgo la differenza fra Libre Office e un editor di testo, in questo contesto. Semmai c’è differenza fra il formato dei file(s) che state scrivendo, ma le parole sono parole.

  • Notepad, Q10 et caetera similia, Simone, hanno il vantaggio di non offrire distrazioni. Niente fischietti e campanelli, per cui tutto quel che puoi farci è scrivere. Aiuta a non partire per tangenti editoriali – in teoria…

  • Mah, non ci arrivo. Quando uno scrive, scrive. Con il plain text ci fai tutto.
    Quello che serve, a occhio, è la buona volontà.

  • Posso solo immaginare che tu non abbia mai usato Q10, col quale non fai proprio niente – fuorché scrivere. Persino il corsivo è out of bounds, non so se mi spiego. Hai sono tutto uno schermo interamente nero (o interamente bianco, your calling, un font soltanto e, se proprio ci tieni, un timer e un set di contaparole. Fine. Dopodiché, dipende dalla persona, immagino, ma io lo trovo d’aiuto.

  • Funziona anche in emulazione Wine sotto GNU/Linux, notevole!
    Quello che intendevo è che sono tutte fisime: quando scriviamo a mano, troviamo un po’ sciocco evitare lo stampatello perché ci distrae, o no? 🙂
    Se poi pensi che intere generazioni di scrittori hanno usato la macchina da scrivere, che non aveva alcun tipo di formattazione speciale, qualche dubbio ti viene.

  • Appunto: non aveva formattazioni speciali, ergo non potevi distrartici, ma a parte quello, il computer ti rende molto facile editare mentre scrivi, se intendi farlo, il che, dicevasi nel post qui sopra, tende a non essere una buona idea.
    E poi, so che è un vecchio discorso tra noi, ma intere generazioni hanno anche arato a trazione animale, scritto a lume di candela e amputato gambe con le seghe da falegname.

  • Cavolo Chiara, risvegli sempre in me la nostalgia dei cari, vecchi tempi andati! 🙂

    Però non sono (solo) un provocatore. Noi hard scientists ormai scriviamo direttamente in camera-ready (o quasi…), con tanto di formattazione. Meraviglie del TeX!

  • Ma quanto ti capisco!
    C’è stato un tempo in cui perdevo tempo a pensare quale fosse il modo di vestire un personaggio o come farlo tornare a casa o con quale battuta farlo entrare in scena per poi scoprire che di quel personaggio non c’era alcun bisogno e lo cancellavo dalla storia senza alcun riciclo. Via buttato fuori e basta. Con un dolore infinito come se mi avessero staccato un braccio.
    Ora con i bambini il tempo è troppo poco perciò quel che mi preme è buttare giù le idee prima che svaniscano. E se mi si para davanti un buco semplicemente faccio un bel salto mettendo tra parentesi quadre come fai tu per tornarci poi.
    E’ incredibile quanto si diventa efficienti quando si ha un progetto che si vuol portare a termine e poco tempo per farlo.
    Anche se la parola chiave è proprio “scadenza” per questo mi invento scadenze fittizie.
    Scrivo per concorsi o semplicemente per qualcuno a cui prometto una data in cui leggere il racconto in questione. E’ l’unica via, sennò il mio perfezionismo è una tomba per le mie buone idee.
    La cosa importante è non riciclare i racconti per i vari concorsi sennò l’arte del rimando prende il sopravvento!

  • Lo strumento col quale si decide di scrivere è importante, nel senso che deve essere quello che ci garantisce la massima spontaneità e scioltezza in fase di scrittura.
    In questo senso, ai fini della scrittura, non esiste uno strumento inerentemente migliore o peggiore – dipende da chi scrive.
    Possono esistere strumenti migliori per formattare e distribuire il testo una volta elaborato – ma quella è tutta un’altra faccenda.

  • @Simone: e dire che per generazioni i matematici hanno scritto con lo stilo sulle tavolette di cera… 😉

    @Cily: uh, le scadenze – vere e immaginarie. Quasi quasi meritano un altro post. Ma anche un paio di bambini sembrano un interessante accessorio – almeno in fase di prima stesura… 🙂

    @Davide: amen.

  • Beh, ma le tavolette di cera erano praticamente la stesura definitiva. Certo, qualcuno scolpiva nella pietra, ma era assai difficile correggere un errore di… scultura.

  • E io che credevo che le tavolette di cera fossero degli ur-notes…