Apr 3, 2013 - pessima gente, scrittura    4 Comments

Sulla Letizia Del Lieto Fine

Mi si fa notare che tendo a parlare – e scrivere – di lieto fine con lo stesso enfatico disgusto con cui parlerei e scriverei di scarafaggi, e adesso sento la necessità di spiegare un pochino.

Pare che non abbia mai avuto fiducia nel Vissero Per Sempre Felici E Contenti. Pare che, a quattro anni, dopo una lettura di Cenerentola con il finale canonico, continuassi a chiedere: ma proprio per sempre? Proprio proprio? E non succede più niente? Forse avevo qualche dubbio sulla capacità di Cenerentola, col suo passato da colf, di adattarsi alla vita di corte…

Ma di fatto, non posso fare a meno di chiedermi: e dopo? Siamo certi che a gennaio Scrooge non torni avaro e bisbetico? O che Lizzie Bennet e Mr.Darcy non si scoprano dopo tutto incompatibili? O che Sigognac non si vergogni un po’ di Isabella che per sedici anni è stata un’attrice girovaga? O che Lauretta e Rinuccio prima o poi non si lasceranno coinvolgere dall’ostilità fra le famiglie?

Insomma, di solito un lieto fine arriva o per conciliazione di estremi o per ricostruzione di un intero distrutto dalle circostanze. Tra la prima e l’ultima pagina ci sono stati guerre, rivoluzioni, drammi familiari, adulteri, crimini, separazioni e disastri misti assortiti, o almeno dovrebbero esserci stati. Il lieto fine è, nella migliore delle ipotesi, un equilibrio precario, e mi rifiuto di credere che sia definitivo.

Guardate Il Barbiere di Siviglia: il sipario si chiude con il Conte Almaviva che impalma Rosina, liberandola dal tutore tiranno. Eugè, giusto? Be’, non proprio, visto che all’epoca delle Nozze di Figaro il Conte è già un farfallone amoroso abituale. Si direbbe che il fine non sia stato poi così lieto. O, ancora meglio, si direbbe che il lieto fine sia una circostanza effimera e non una certezza incisa nella pietra.

Oppure Dobbin: per tutta la considerevole durata di Vanity Fair, William Dobbin ama in silenzio Amelia, la aiuta con discrezione e delicatezza in un’infinità di circostanze, la salva dal disastro finanziario senza farglielo sapere, sopporta devotamente ogni stupidità e mancanza di considerazione e via dicendo. Admirable fellow. Alla fine, Amelia si scopre innamorata di lui e lo sposa. Felici e contenti? Non proprio: dopo averla amata tanto a lungo, Dobbin scopre Amelia un po’ al di sotto di tanta devozione. Oh, continua ad essere ammirevole, resta un marito affettuoso e protettivo e tutto quanto, ma il lieto fine non l’ha reso felice*.

Morale? Il lieto fine ci manda a dormire più contenti per una sera, ma siamo franchi: come antidepressivo funziona solo fino alla prima piccola, semplice, ovvia domanda: e poi? E a parte questo, non è come se i finali tristi non fossero soddisfacenti. “Ti è piaciuto?” chiesero a mia madre, all’uscita dal cinema dove aveva visto Il Dottor Zivago, e lei: “Oh sì! Ho pianto tanto!”

Mi si dice che dico così in un affanno di autogiustificazione, perché i miei romanzi finiscono tutti maluccio anzichenò. Non saprei. Il mio primo protagonista, secoli fa, l’ho gettato sotto un taxi mentre partiva per arruolarsi nella Guerra di Spagna. Allora la mia amica F., una dei miei lettori sperimentali preferiti, m’informò sentitamente che ero un’omicida, e che non mi avrebbe mai, mai, mai perdonata. E infatti, quasi vent’anni dopo, ogni tanto me lo rinfaccia ancora. Non posso dire di essermi riformata, da allora, ma credo di avere delle attenuanti. Potrei dire, a parte il povero Ned, che è difficile scrivere romanzi storici incentrati su guerre, sollevazioni e assedi senza un conto vittime… Ma in realtà il punto è l’ineludibile piccola domanda: e poi? Che ne sarà dei miei personaggi dopo la fatidica paroletta di quattro lettere? In un certo senso – e se volete dire che è morboso, fate pure – uccidere i propri personaggi è l’unico modo di assicurarsi definitivamente del loro destino: una volta che sono morti, non può succedere loro più nulla, giusto?

Oddìo, forse non proprio, considerando la storia che sto scrivendo, in cui i guai del protagonista non fanno che raddoppiare in numero e grado nel momento in cui muore, ma in via generale e fantasmi a parte… Non tanto i cornicioni che cadono, quanto Pascoli, you know, e gli aquiloni, e l’unico, unicissimo merito che sia disposta a riconoscere al detestabile L’Eleganza del Riccio

Be’, d’accordo – non è detto e mi rendo conto che suona un po’ allarmante. Però diciamo che, mercato permettendo, e se non ci sono ulteriori volumi in programma, personalmente appartengo alla scuola di pensiero** secondo cui muore giovane chi è caro al suo autore.

E voi? Li assassinate, i vostri personaggi? E perdonate gli autori che assassinano i loro?

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* A titolo di paradosso, si può sostenere che Dobbin sarebbe morto più felice se l’avesse presa nelle costole a Waterloo, prima che – eccetera eccetera.

** In compagnia, a quanto pare, di Victor Hugo… 

Sulla Letizia Del Lieto Fineultima modifica: 2013-04-03T07:10:00+02:00da laclarina
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4 Commenti

  • Il lieto fine, specie quando annoda ben-bene tutti i fili della narrazione e ne fa un bel fiocco, è detestabile.
    E d’altra parte mi domando se il “downer ending” non sia a sua volta un’affettazione odiosa, un atteggiamento cinico e blasé col quale l’autore cerca una complicità da pochi soldi col lettore, strizzandogli l’occhio sul finale crudele e dicendogli “Noi due siamo a tal punto incalliti e antiromantici osservatori delle umane vicende, che lo sappiamo, vero, che le cose non vanno mai bene, e poi alla fine comunque…”
    Un atteggiamento disonesto, in altre parole.
    Uno sberleffo all’eroe – o all’eroina – che dopo innumerevoli vicende tragiche, dopo aver dato il proprio meglio e fatto tutto l’umanamente possibile, non viene premiato (e noi con lui) dal trionfo, ma schiacciato come un insetto al fine di far sentire i lettori superiori e “adulti”.
    Non che questo sia vero per tutte le storie con un finale triste, naturalmente – ma d’altra parte, possiamo dire lo stesso delle storie a lieto fine: non tutte sono caramellose e implausibili affabulazioni consolatorie.
    È un bel problema.
    La soluzione più ragionevole, ovviamente, è avere un finale che – come tutto il resto della narrazione – sia coerente con le tematiche generali della storia.
    Poi, personalmente, preferisco i finali aperti – ma se i miei protagonisti hanno avuto la buona grazia di sopportare tutto ciò attraverso cui li ho fatti passare, mi pare solo corretto nei loro confronti concedere loro un momento di trionfo.
    Anche breve, anche limitato.
    Nel mio universo, anche se solo per un attimo, le cose vanno bene.
    E vale la pena di continuare a correre proprio per quell’attimo in cui le cose vanno bene.

  • Sì be’, il finale dovrebbe essere adatto alla storia – e su questo non ci piove.
    That said, che posso dire? Può darsi che sia cinica e blasée, ma raramente, quando scrivo, il lieto fine mi sembra adatto alla storia. Ogni volta che sono tentata di far finire bene una storia, l’alternativa triste mi sembra più significativa, più soddisfacente, più coerente, più… “giusta”.
    E no, nessuno sberleffo nei confronti dell’eroe: mi spiace sempre tanto per la gente che uccido…
    Che detto così suona davvero un po’… er.
    Ma hai capito quello che intendo dire.

  • Il tuo post mi ha dato parecchio di cui pensare, al punto che infliggo le mie elucubrazioni ai miei lettori anglofoni, in nottata (il post va online attorno all’una stanotte).
    Sei citata e linkata come istigatrice.
    Ora, è chiaro che ciascuno di noi trova significative cose diverse – io personalmente trovo significativi i finali aperti, che dicono chiaro e tondo che la chiudiamo qui per comodità, non perché la storia sia finita.
    Alcuni miei lettori hanno usato termini molto poco lusinghieri riguardo a questo mio vezzo.
    Poi dipende sempre da ciò che vuoi raccontare.
    Io di solito voglio raccontare che, non importa cosa capiti, purché sia interessante.
    E che i momenti di felicità ci sono – e non c’è nulla di male a goderseli.

  • I’m of two minds per quel che riguarda i finali aperti. Lasciano spazio, ma non sempre ci trovo il senso di compimento che mi aspetto da una storia – come gli accordi conclusivi di un pezzo musicale.
    Poi è vero: tutto dipende da quello che si vuole raccontare. E in genere voglio raccontare che non si ottiene mai quel che si vuole – non come lo si vuole – ma non per questo è il caso di smettere di provarci.
    E se resisto (stasera sono stanca come se avessi fatto tutto io…) dopo l’una faccio un salto su Karavansara per essere messa a parte delle tue elucubrazioni.