Come La Prendi?

Sono curioso di sapere come prendi il fatto che questa cosa prenda vita in modi non completamente controllabili, o forse del tutto incontrollabili. Sembra che tu la prenda bene,

scriveva A. in un commento a questo post in cui si parlava di Bibi & il Re degli Elefanti e si traevano conclusioni sul recente giro di repliche – e “questa cosa” era l’interpretazione registica dei miei plays.

E il commento mi ha dato da pensare. In effetti, come prendo il fatto che quel che si vede sul palcoscenico finisca quasi sempre con l’essere diverso da quel che avevo immaginato?

Come prendo il fatto che registi e attori afferrino le mie parole e le trascinino in direzioni inattese?

Come prendo questa cosa nuova che germoglia, tridimensionale e variopinta là dove prima c’erano soltanto parole sulla carta? 

Ah, well…

Credo di voler cominciare citando Shaw che, nella prefazione alle Tre Commedie per Puritani, raccontava di avere tirato infiniti accidenti ai pur bravi regista e primattore di una fortunata produzione londinese de Il Discepolo del Diavolo, colpevoli di avere stravolto le sue intenzioni al punto di indurre il pubblico a credere che Dick Dudgeon fosse innamorato di Judith.

Da bambina, quando leggevo Shaw e, a chi mi chiedeva cosa intendessi fare da grande, rispondevo “la commediografa”, la consideravo una specie di cautionary tale, e mi immaginavo a tirare accidenti a registi e attori colpevoli di fraintendimento deliberato e grave…

Ma, a distanza di un quarto di secolo e dopo diversi plays prodotti, devo dichiararmi fortunata: nessuno ha mai stravolto nulla di mio in scena. 

E nonostante questo, e nonostante abbia avuto la fortuna di lavorare sempre con registi bravissimi, se dicessi che è sempre facile, mentirei.

Perché non c’è nulla da fare: nello scrivere del teatro non si può fare a meno di metterlo in scena nel proprio teatro immaginario. Si elucubrano voci, movimenti, scene, luci, costumi e regia completa… E a lavoro finito, quando si consegna il tutto alla compagnia, quel che rimane è un’idea piuttosto precisa del tipo di vita che lo spettacolo dovrebbe assumere.

Solo che poi, nella maggior parte dei casi, non funziona così.

E voi non andate a vedere le prove, perché la regista preferisce non avere autori tra i piedi, e usa motivazioni diplomatiche tipo “non c’è, credimi, nulla di bello come la sorpresa la sera della prima.” Oppure “Voglio che tu veda lo spettacolo solo quando è completo.”

Solo che, ogni tanto, la regista stessa o l’uno o l’altro membro del cast si lasciano sfuggire un particolare…

Ed è diversissimo, ma diversissimo da qualsiasi cosa voi aveste immaginato – e siete così tentati di dirlo… ma in linea generale non lo fate.

A dire il vero, la prima volta non lo fate solo e soltanto perché non vi par vero di scrivere per questa gente, e non avete il coraggio di mettere becco… Però avete misgivings. Temete molto che non sarà come voi credete che dovrebbe essere.

Però poi…

Poi viene la sera della prima, e scoprite che la regista aveva ragione e voi avevate torto – e forse è un bene che non siate mai andati alle prove. Scoprite che il vostro mestiere è fornire la storia, le parole, e soprattutto le occasioni perché gli attori possano comportarsi in modo significativo. Il comportamento significativo, i colori e la magia in generale sono affare della compagnia.

Sono loro a portare in vita quel che avete scritto – e che diamine! Loro lo fanno da decenni, hanno le idee chiare su che cosa produrrà quali effetti sul pubblico. Sanno come cavare il meglio teatrale da quello che avete scritto. Sanno come tradurre in tre dimensioni il vostro linguaggio.

Lo sanno così bene che quello che hanno fatto finisce col prendere completamente il posto di quello che avevate immaginato.

Sul serio: mi ricordo a malapena il Bogus-ombra, serioso e un po’ solenne, che avevo immaginato scrivendo Bibi. E dapprincipio ero davvero perplessa nello scoprire che il mio impalpabile elefante sarebbe stato un attore in scena, con un costume di panno e la proboscide… E invece è perfetto, e il play ha tutto da guadagnare dal Bogus buffo e tenero e concreto, perché il mio era l’elefante immaginario visto da un’adulta – ma in scena è andato il compagno immaginario di una bambina. Infinitamente più teatrale ed efficace.

Magnifico, no? 

E molto istruttivo. E appagante – non avete idea di quanto.

E così, credo che alla fin fine la risposta sia questa, A.

La prendo con qualche trepidazione ogni volta, perché si tratta di lasciare ad altri il compito di soffiare nelle narici delle mie statuine d’argilla. E la prendo con infinito entusiasmo, perché – per quanto mi piaccia scrivere romanzi – credo che nulla batta l’aprirsi del sipario e il veder succedere quello che si è creato.

 

Come La Prendi?ultima modifica: 2013-07-03T08:05:00+02:00da laclarina
Reposta per primo quest’articolo

7 Commenti

  • La frase “Da bambina, quando leggevo Shaw…” mi ha fatto morire dal ridere 🙂
    Io, da bambino, leggevo Topolino…

    Però stavo facendo un paragone con la musica. Mettiamo che io sia un compositore: se scrivo la “storia”, cioè lo spartito, mi aspetterei che gli esecutori… eseguissero. D’accordo, c’è spazio per l’interpretazione, ma non puoi trasformare un “Lento con mestizia” in “Allegro molto e con brio”.

    Non capisco se le grandi diversità che noti siano effettivamente interpretazioni dei commedianti, oppure abusi del testo.

  • Era da un po’ di tempo che non passavo da queste parti e ho fatto benissimo a tornare. Ho letto questo post tutto d’un fiato: interessante ed istruttivo.

    Per me sarebbe un sogno vedere in scena ciò che scrivo. Magari.

  • @Simone: anch’io leggevo Topolino, e con molto gusto – ma anche Shaw, a partire dagli undici o dodici anni, perché da grande volevo fare… ecc.

    E credo che tra le parole ci sia molto più spazio che tra una nota e l’altra. Col che non voglio dire che non ci siano registi che maltrattano i testi e li forzano in direzioni bislacche o fuorvianti – vedi la deriva sentimentale di Dick Dudgeon, che stravolgeva completamente il senso del play. Dico che sono molto fortunata.

    E no: non c’è abuso di sorta in quel che vedo fare. C’è più senso teatrale di quanto ne abbia io, e c’è una dimensione aggiuntiva, c’è un altro strato di complessità, ci sono le mie parole lette attraverso altri occhi… c’è un’alchimia che è propria del teatro, perché scrivere può essere un’occupazione solitaria, ma il teatro non lo è. Fa parte del gioco. Ed è meraviglioso.

    @Jane: ciao, cara. Sì, concordo: è un sogno. Lo è ogni volta che succede. E lavorare con le compagnie – scrivere per le loro esigenze specifiche e discutere quel che si fa con attori e registi, è stimolante e istruttivo come poche cose al mondo.

  • Nelle recite con i ragazzini partivo da un testo non mio e lo adattavo per il taglio che volevamo dare (recita pura, canto, etc.), sceglievamo costumi e scene insieme ai giovani attori e così via. In sintesi svolgevo indegnamente il ruolo del regista, e ovviamente delle altre figura teatrali di contorno.
    Leggendo il tuo post ho provato, forse per la prima volta, a mettermi nei panni dell’autore che vede “da fuori” la messa in scena di una sua creazione: credo che sarei, sicuramente ingiustamente, molto prevenuto e “possessivo” nei confronti di ciò che ho scritto.
    Sono contento che nel tuo caso la tua fiducia nella compagnia sia stata premiata, valorizzando ancora di più la tua creatura.

  • Grazie, Yahn. Sì, credo che il punto di vista dell’autore – a meno di *lavorare* con l’autore, sia il meno ovvio da considerare. E non credo che essere possessivi nei confronti del proprio lavoro sia del tutto ingiusto… In teatro, come in tutte le forme di scrittura, è difficile accettare il fatto che, una volta Là Fuori, le parole sono aperte all’interpretazione dei lettori/registi/attori…

  • Credo avessimo già chiacchierato di questo – a partire dalla mia invidia per la rappresentazione, per il vedere le nostre idee muoversi e prendere una forma.
    Nella narrativa, questo accade nella testa dei lettori, e difficilmente ci possiamo vedere dentro.
    nel teatro invece è tutto lì.
    Però – e questo post sottolinea la differenza – c’è un intermediario.
    Una serie di intermediari, in effetti!
    In entrambi i casi – narrativa e teatro – l’autore ha una certa percentuale di controllo, più o meno modulabile: scrivendo, posso concedere di più o di meno al lettore.
    Immagino che col teatro sia lo stesso – ma puoi scegliere quanto concedere di margine al regista, quanto agli attori, e quanto al pubblico. E attori e regista possono a loro volta fare delle concessioni – o “stringere”.
    È complicato – ma credo sia parte della soddisfazione.

  • Oh sì, è assolutamente parte della soddisfazione. E ti dirò di più: all’inizio si tende a cercare di restringere il margine di manovra – come se si potesse! Poi s’impara che lasciare ai registi la libertà di scavare, rigirare, inclinare a 45° gradi e tingere di violetto è salutare per il testo. Soprattutto se si spera che sopravviva all’occasione, al giro di repliche, alla stagione, al secolo (eh!) per cui lo si scrive…

    E adesso che ci penso, questa faccenda merita quasi un altro post. 🙂