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Del Metabolismo Delle Lingue

James Nicol definisce l’Inglese come “una lingua che si apposta nei vicoli bui, assalta le altre lingue e le scippa delle loro parole spicciole.”

E a sentire Lucio d’Arcangelo, in questo articolo apparso su Il Giornale del 4 gennaio, il bottino attraverso i secoli è stato consistente: l’Inglese ha fagocitato e assorbito a tutte le latitudini, con incessante e curiosa golosità – e una predisposizione strutturale a creare nuove parole col minimo dei mezzi e del disturbo. Sostantivo interessante? How nice! Gli premettiamo un to, ed ecco un verbo nuovo di zecca. Un concetto e due parole? Ma perché? Fondiamo le due in una, ed ecco un sostantivo tutto nuovo e luccicante che fa per una frase intera!

Una delle mie teorie predilette*, non da oggi, è che l’Inglese sia – dal punto di vista storico e sociale, se non strettamente linguistico – il vero erede del Latino: una lingua estremamente funzionale che si è estesa sulla forza di un impero e, in ogni parte di esso, si è adattata e mescolata, sviluppando – accanto alla sua versione “alta” – da un lato una sorta di lingua franca del commercio, dei contatti e delle comunicazioni, e dall’altro una infinita serie di pidgins, versioni imbastardite e multicolori, ciascuna quasi una lingua a sé. Proprio al modo in cui ogni provincia dell’Impero Romano aveva il suo genere di Latino…

Lucio Arcangelo cita con preoccupazione numeri da capogiro: se l’Inglese elisabettiano contava 150000 parole (e Shakespeare ne usava più o meno 20000), il Global English odierno tocca il milione. Fenomeno esplosivo e indice di decadenza?

Quello che secondo me Arcangelo trascura di considerare è che l’Inglese elisabettiano era già una lingua in avida, inesausta espansione, occupata ad ingozzarsi di parole straniere come capric(c)io (dall’Italiano o dallo Spagnolo: ninnolo costoso e inutile), rabato (dallo Spagnolo: gorgiera), smuggler (dall’Olandese: contrabbandiere), detail (dal Francese: dettaglio) e via così. E per di più, la pratica era in atto da secoli e secoli, con il Latino, con l’Italiano, con il Francese…

Le lingue sono strutture vive e, come tali, in continua evoluzione. Non si cristallizzano del tutto se non quando cessano di essere parlate – e quella non è una bella cosa. Finché vivono, seguono incontrollabilmente la loro strada, e quella dell’Inglese è la strada di una lingua molto, molto acquisitiva. Dite quello che volete: non riesco a considerare la ricchezza lessicale un difetto.

Chiudo segnalandovi WordSpy, il sito in cui Paul McFedries guida gli amanti delle parole alla scoperta delle parole nuove, registrando e illustrando affascinanti neologismi come cheap(p)uccino o flunami… curiosi, eh?

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* Una teoria prediletta, in Inglese diventa una pet theory: una teoria che si cura, predilige, alleva e vezzeggia come una bestiola da compagnia. Dite la verità: non è una lingua meravigliosa?

Ott 18, 2010 - anglomaniac, tradizioni    5 Comments

Dello Haggis – Piccolo Test per Menti Scientifiche

haggis.jpgMi si chiedono lumi sullo haggis menzionato qui. Hic sunt lumina.

Devo cominciare ammettendo di avere affrontato l’argomento nel modo sbagliato, perché lo haggis, prima di essere un piatto di dubbia digeribilità, è una bestiola. Una bestiola che si trova solo in Scozia. Una bestiola a quattro zampe, di cui due più corte e due più lunghe.

Però non come una lepre: anziché avere le zampe posteriori più lunghe di quelle anteriori, lo haggis ha le zampe destre più lunghe di quelle sinistre. O viceversa. Forse. Sinceramente non ho mai capito se ci siano haggis di due tipi – haggis destri e haggis sinistri – o se dipenda dal sesso, dal caso o da che altro. Ad ogni modo: questa singolare conformazione anatomica serve allo haggis per correre lungo i crinali delle colline. Tutti sapete che la Scozia è piena di colline e montagne, soprattutto le Highlands, e in effetti lo haggis non scende mai a valle. Un po’ per zampe e un po’ per timidezza, non fa altro che correre lungo i crinali.

Lo haggis è anche un eccellente strumento d’indagine socio-statistica (oppure un eccellente strumento di conversazione, fate un po’ voi).

Provate a raccontare questa storia a un gruppo di sconosciuti, per esempio in uno scompartimento ferroviario o durante una coda alla posta. A un certo punto, qualcuno vi porrà questa domanda: ma se ha le zampe destre più corte di quelle sinistre, come fa a tornare indietro?

Dico con assoluta certezza che qualcuno ve lo chiederà, per l’empirica ragione che non mi è mai capitato di raccontare dello haggis senza che la domanda saltasse fuori, e potete star certi che chi la pone ha una formazione scientifica. Badate bene: non importa se il pubblico ci crede o no. Potete raccontarla come una leggenda, oppure potete suonare serissimi e aspettare che qualcuno si metta a ridere e contesti la vostra zoologia scozzese, ma è del tutto secondario: prima o poi, mentre voi vi diffondete sulle abitudini notturne dello haggis, sulla sua natura riservata, sulla sua velocità che può raggiungere le 5 miglia orarie*, sulla sua prolificità, sui metodi per cacciarlo e sulle ricette per cucinarlo, qualcuno – un ingegnere, un chimico, un biologo, un tecnico di laboratorio… – vorrà sapere come se la cava la creatura nelle conversioni a U.

Gente di diversa formazione vorrà sapere come nasce una storia simile, si delizierà nello scoprire che Robert Burns ha scritto un’ode allo haggis, chiederà quanto è grande – ma qualcuno s’impunterà sul cambio di direzione, e fidatevi: sarà qualcuno di tecnico-scientifico.

Allora, voi potete rispondere che lo haggis non torna indietro: nel corso della sua vita migra sempre nella stessa direzione, seguendo i crinali. Oppure potete rispondere che deve soltanto scollinare e tornare da dove è venuto lungo l’altro versante. Oppure ancora, potete rispondere che il metodo tradizionale di caccia allo haggis consiste proprio nel nascondersi nell’erica, lasciarlo avvicinare, gridargli “boo!” con la giusta intonazione e afferrarlo quando inciampa nelle sue stesse zampe mentre cerca di girarsi.

Il metodo alternativo (e vieppiù diffuso) prevede un’esca di whisky e un bastone. Una volta brillo, lo haggis rotola a valle, beatamente inconsapevole e pronto per la bastonata fatale. “Ciò può suonare doloroso,” dice questo favoloso articolista, “ma a questo punto lo haggis non sente nulla.”

Inoltre, aggiungo io, a questo punto voi avrete un gruppo di soggiogati ascoltatori (tra i quali avrete già individuato le menti scientifiche, o almeno le più curiose tra di esse), e un affascinante argomento di conversazione, capace di durare indefinitamente fino alla destinazione del treno o all’esaurimento della coda. Senza contare il fatto che difficilmente verrete dimenticati.

Provate e fatemi sapere.

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* Naturalmente stiamo parlando di miglia scozzesi, e quindi tutto è relativo. Non perché il miglio scozzese equivalga tecnicamente a una distanza diversa dal miglio inglese, ma perché quando chiedete a uno Scozzese quanto manca per XYZ, e vi sentite rispondere “sei miglia”, potete tranquillamente calcolarne almeno otto. Specialmente se siete nelle Highlands.

Mag 10, 2010 - anglomaniac, libri, libri e libri    Commenti disabilitati su Libri In Regalo

Libri In Regalo

Mi è capitato qualcosa che mi ha riportata alla lontana infanzia.

A titolo di regalo di compleanno tardivo, sono stata rapita e condotta in libreria, con l’ingiunzione di scegliere “dei libri”. Da anni acquisto la maggior parte dei miei libri su Internet (adesso, poi, li scarico direttamente sul Kindle), e quindi già la cosa in sé è stata molto sul genere tè-al-tiglio-e-madeleine. Ho girellato tra gli scaffali con quel senso di anticipazione e di scoperta che un tempo apparteneva alle sere di Santa Lucia – assoluta delizia!

E alla fine ho scelto Il Grande Gioco, di Peter Hopkirk, una magnifica storia della guerra di spionaggio tra Inglesi e Russi in Asia Centrale – praticamente lo sfondo di tante storie di Kipling! – e L’Uomo Dagli Occhi Glauchi, di Patrizia Debicke Van der Noot, romanzo storico incentrato su un meraviglioso ritratto tizianesco e sul servizio di spionaggio di Robert Cecil. 

E’ stato un incantevole regalo di compleanno. O di non-compleanno, se vogliamo virare sul carroliano – e io vorrei, perché il tutto è stato davvero un po’ nonsense.

Per di più, sabato è arrivato per posta The Infernal World of Branwell Bronte, di Daphne Du Maurier, e quindi adesso ho una piccola pila di tre libri che voglio tanto leggere, ma al momento non ho davvero tempo: se ne stanno lì, uno sopra l’altro come sirene rilegate, mi guardano ogni volta che passo nelle vicinanze, ammiccano, mi chiamano… Leggici, leggici, leggici! Lascia perdere il Riccio, dimenticati quel che devi recensire, prenditi una vacanzuola dalla storia bizantina. Leggi noi, noi, noi…

Per ora resisto, legata alla sedia maestra e con striscioline di to-do-lists appallottolate nelle orecchie. Fino a quando? Non si sa. 

Zaffiro e Acciaio

SnS_assigned.jpgEcco un’altra di quelle cose che nessun altro ricorda di avere visto, eppure giuro che nei primissimi Anni Ottanta la RAI ha trasmesso almeno qualche puntata di una serie televisiva inglese chiamata, per l’appunto, Zaffiro e Acciaio.

Dico “qualche puntata” perché io ne vidi solo tre: quando si accorse che la faccenda mi dava gl’incubi, la mia saggia nonna applicò una forma di censura famigliare, ma siccome stiamo parlando di un’epoca in cui era raro che i palinsesti si modificassero in corsa, è possibile che sia andato in onda qualche episodio di più. Dopo di questo ho impiegato quasi trent’anni a scoprire che non solo la serie esisteva davvero, Sapphire and Steel nella versione originale, ma vanta ancora un discreto numero di affezionati e ha avuto anche un seguito (radiofonico, mi pare).

Ciò detto, quanto a genere, Z&A è di difficile definizione: probabilmente qualche tipo di fantasy, se consideriamo i due misteriosi agenti temporali a caccia di sfilacciature nella trama del tempo, ma un fantasy molto singolare. Rivedendolo a tanti anni di distanza, non mi meraviglio che avesse levato il sonno alla Clarina di anni sei, e già questo è degno di nota. In genere, tendiamo a sorridere di quello che ci spaventava da bambini, ma Z&A era e resta davvero un po’ inquietante. Più che un po’. E non pensate a effetti/effettacci speciali, mostri o truculenze, perché non c’è nulla del genere.

In realtà, non c’è granché di nessun tipo, production-wise: set essenziali (e pure un po’ tristi), una manciata di attori, musica ridotta all’osso, effetti speciali ai limiti dell’artigianale. Eppure l’insieme ha una tensione, un senso di mistero e un’atmosfera che mettono davvero i brividi. A che cosa si deve il miracolo?

– In primo luogo, una scrittura stratosferica*. Il concetto di Peter J. Hammondè affascinante: il tempo come entità semi-senziente e non precisamente benevola, una sorta di corridoio onnipervasivo, a sua volta abitato da inquietanti esseri che non vedono l’ora di uscirne. Quando un anacronismo sfilaccia la trama del tunnel, il tempo straripa e le cose si mettono oscuramente male, richiedendo l’intervento dei Nostri Eroi. La genialità della faccenda consiste nel non spiegare troppo a fondo il meccanismo: da dove vengono Zaffiro e Acciaio? Chi li comanda? Che cosa succederebbe se lo strappo temporale non venisse ricucito? Un sacco di domande di questo genere vengono poste e mai del tutto risolte**, tutto procede per metafore e allusioni, il lieto fine non è mai particolarmente lieto, e la minaccia rimane sempre inafferrabile, sempre evitata all’ultimo istante, sempre inquietante. Il principio in base al quale la paura è mancata conoscenza, rivoltato come un guanto e usato a fini drammatici con favolosa abilità.

– A seguire, una regia sorvegliatissima e claustrofobica, che esclude tutti i fronzoli a beneficio dell’efficacia. Nemmeno le pettinature Anni Ottanta e i vestitoni azzurri di Zaffiro riescono a diluire il senso di minaccia creato con una lampadina nuda che oscilla, una filastrocca ripetuta e quattro battute di musica minimalista. O con una macchia di luce bianca che sale lentamente una scala mentre le voci dei Nostri ignari filtrano dalla porta della cucina. Brr…

S&S.jpg– E infine, attori in parte. Joanna Lumley (praticamente sconosciuta in Italia) centra la giusta commistione di aura sovrannaturale, empatia femminile e distacco alieno, mentre David McCallum*** (il Dr. Mallard di NCIS, solo molto più giovane) è brusco, efficiente e parimenti privo di tatto, scrupoli o pazienza****. E in più qualcuno di quei caratteristi, da buoni a ottimi, di cui i paesi anglosassoni sembrano possedere scorte inesauribili.

Morale: produzione all’osso + concetto solido + buona scrittura + attori competenti e convinti = qualcosa che lo spettatore, dopo averne viste un paio di mezz’ore, ricorda con la pelle d’oca a trent’anni di distanza.

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* Sapevate che avrei detto così…

** Normalmente direi che non si bara con le aspettative del lettore/spettatore, ma qui l’occultamento di motivi e ragioni è connaturato al concetto della storia, né più né meno che l’idea del Tempo/corridoio.

*** Pare che Joanna Lumley si lamentasse di non capire la metà di quello che doveva dire, mentre McCallum e Hammond avevano l’abitudine di chiudersi da qualche parte e apportare modifiche dell’ultimo minuto, giusto per rendere il dialogo ancora più esoterico.

**** Altra idea narrativamente solida: non c’è bisogno di rendere i protagonisti simpatici a tutti i costi, specie se, per la coerenza della storia, è meglio che non lo siano.

Accenti

A proposito – almeno in parte – del discorso di ieri, volevo segnalare questo favoloso sito dell’Università di Edimburgo (che, sia detto per inciso, si può pronunciare Edinbra, Edinbara o anche, se si vuole andare sul colloquiale, Embro-Embra).

Le varie pagine sono un po’ lente a caricarsi, ma vale la pena di ascoltare le incredibili varietà di pronuncia. Già solo la parola right, nella homepage, è un’esperienza istruttiva. Purtroppo la sezione dedicata all’Inglese shakespeariano (di cui in realtà sappiamo solo quello che si può dedurre dalle rime usate all’epoca in poesia) sembra essere ancora in fieri. Per chi è proprio curioso, qui c’è una piccola intervista in cui un attore dimostra la differenza tra Inglese standard e una ricostruzione (speculativa) della pronuncia elisabettiana.

Qui invece si possono sentire delle clip più estese, con la cadenza e l’accento in evidenza. Provate a confrontare RP (Received Pronounciation, quella che s’impara a Oxbridge, very upper-class), e Cockney (un Cockney sta a Londra come un Trasteverino sta a Roma). Ma, qualora doveste prenderci gusto, ci sono anche Scozia, Galles, varie parti degli Stati Uniti, India, Africa…

E infine qui trovate lo stesso paragrafo in Inglese letto in un’incredibile collezione di accenti stranieri. Per dire, ci sono 24 tipi diversi di accento italiano.

 

Dic 26, 2009 - anglomaniac, musica, Natale    Commenti disabilitati su Christmas Carols

Christmas Carols

Musica natalizia dal superlativo King’s College Choir di Cambridge.

Ding-Dong Merrily on High

 

E poi On Christmas Night

 

E infine, God Rest You Merry Gentlemen

 

Nov 9, 2009 - anglomaniac, libri, libri e libri, Vita da Editor    Commenti disabilitati su Piccoli Recensori Crescono

Piccoli Recensori Crescono

hnrmay09cover.jpgLasciatemi fare un annuncio: da oggi faccio ufficialmente parte del team della Historical Novels Review, rivista di recensioni e mercato editoriale della Historical Novel Society.

HNS è un’associazione internazionale (d’accordo, principalmente angloamericana) di scrittori, editori e lettori di romanzi storici, e HNR è una delle sue riviste. Qualche tempo fa ne avevo parlato qui. Hanno recensori su entrambe le sponde dell’Atlantico ma, per quanto ne so, la sottoscritta è l’unica non madrelingua. Da oggi faccio parte della squadra, alle dipendenze della redazione inglese. Naturalmente mi aspetta della gavetta, per cominciare (recensire i libri che nessun altro vuole, a quanto pare), ma ne  vado molto orgogliosa…

Il sogno, naturalmente, è che prima o poi qualcuno dei miei nuovi colleghi recensisca un mio romanzo. Campa cavallo, lo so, ma ehi! can’t blame a girl for dreaming!

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