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Nov 11, 2013 - Anno Verdiano    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: Don Carlos (II Parte)

Librettitudini Verdiane: Don Carlos (II Parte)

Nell’episodio precedente…

DON CARLO
Si, t’amo, e Dio ci guidò,
Vivrò per te, per te morrò!

ELISABETTA
Se Dio ci guidò,
Se a me t’avvicinò,
I fè perchè ci vuol felici appieno.

Un giovane amore… spezzato sul nascere!

ELISABETTA
Tutto sparve…

DON CARLO
Sorte ingrata!

ELISABETTA
Al dolor son condannata!

DON CARLO ED ELISABETTA
Spariva il sogno d’or!
Svaniva dal mio cor!

Una grande amicizia…

DON CARLO E RODRIGO
Dio, che nell’alma infondere
Amor volesti e speme
Desio nel cure accendere
Tu dei di libertà.

Una donna gelosa…

EBOLI
(Fra sè)
Amor avria per me?…
Perchè lo cela a me?

Il dovere di una regina…

ELISABETTA
Perchè, perchè accusar il cor
d’indifferenza?
Capir dovreste questo nobil silenzio.
Il dover,
come un raggio al guardo mio brillò.
Guidata da quel raggio io moverò.
La speme pongo in Dio, nell’innocenza!

La terribile solitudine del potere…

FILIPPO
Del capo mio, che grava la corona,
L’angoscia apprendi e il duol!

E l’ombra minacciosa del destino…

FILIPPO
Ti guarda dal Grande Inquisitor!

Potere, amore, lealtà, amicizia, fiducia, gelosia, dovere…

Er. Sì, d’accordo è possibile che mi sia lasciata prendere un nonnulla la mano. Ve l’avevo detto che questa è la mia opera prediletta?

Ma riprendiamo là dove ci eravamo fermati, ovvero con il sipario che si apre sul…

Terzo Atto

giuseppe verdi, friedrich schiller, don carloSiamo tornati a Madrid, nei giardini della Regina a Palazzo Reale. In origine qui era il posto del balletto. Il Don Carlos, l’abbiamo detto, era nato per l’Opéra di Parigi, e tutto quel che si rappresentava all’Opéra comprendeva un balletto. Siccome in un modo o nell’altro bisognava cacciarlo nella trama, Verdi aveva immaginato che, durante una festa a corte, si danzasse la storia de La Peregrina, un’ enorme e celeberrima perla che Filippo II aveva l’abitudine di regalare alle sue mogli. A un certo punto, la Regina si annoiava e, scambiando maschera e domino con la Eboli, si ritirava di nascosto per andare a pregare. Er… sì.

Nelle rappresentazioni moderne il balletto non si vede pressoché mai, nemmeno nelle più filologiche delle versioni in cinque atti – il che non è gran motivo di disperazione, se lo chiedete a me. Se andate all’opera, vedrete l’atto iniziare con Don Carlo che vaga estatico per i giardini semibui, seguendo le vaghe indicazioni di un billet doux che ha ricevuto nel pomeriggio e, quando vede una figura di donna tra gli arbusti, le corre incontro apostrofandola nelle più tenere e inequivocabili maniere. giuseppe verdi, friedrich schiller, don carlo

Ed è qui che ci vien da dolerci che, insieme alle danze, si poti sempre anche lo scambio di maschere e mantelli che dicevamo… Perché va bene che l’amore è cieco e che a mezzanotte c’è buio, ma come fa il nostro eroe a non accorgersi che l’affettuosa mittente del biglietto, così preoccupata di metterlo in guardia al Rodrigo, neo-favorito del Re, non è la Regina ma la Eboli? A parte tutto, non nota nemmeno che all’improvviso si è messa a cantare da mezzo… Solo quando lei si leva il velo nota l’abbaglio e comincia a rimangiarsi tutti i teneri nonnulla che le ha sussurrato. Eboli non è stupida, e non tarda a fare due più due:

Quelle parole ardenti
Ad altra credeste rivolger illuso…
Qual balen! Qual mister!
Voi la Regina amate…! Voi…!

Si metterebbe male se, molto a proposito, non si precipitasse in scena Rodrigo, che dapprima cerca di far passare la tesi dell’infermità mentale (di Carlo), poi minaccia di sgozzare la furibonda Eboli sul campo, e poi ci ripensa e la lascia andare, perché ha un’altra e migliore idea. In un debole sussulto di buon senso, Carlo è tentato di diffidare delle buone idee di Rodrigo – che oltretutto è diventato il favorito del Re, ma il nostro Marchese è maestro nel ricatto morale: sgrana gli occhi, prende un’aria ferita e, con voce spezzata, vuol sapere se Carlo dubiti di lui… Figurarsi. Carlo, commosso e contrito, nega furiosamente e consegna a Rodrigo tutte le “carte importanti” che ha addosso. Il tema del giuramento d’amicizia risuona, e questa volta i suoi ottoni trionfanti hanno un che di vagamente minaccioso. Mentre i nostri due giovanotti si abbracciano ed escono in direzioni opposte, noi dubitiamo. Oh, se dubitiamo…

giuseppe verdi, friedrich schiller, don carloMa spostiamoci nella piazza di Nuestra Señora de Atocha. Sì, c’è il sole, ma non facciamoci ingannare dall’apparenza di festa: si festeggia l’incoronazione di Filippo, ma la si festeggia con un bell’auto da fè. Siete inorriditi? No, non intendo per gli eretici alla brace, ma per l’incoronazione – visto che nel 1568, anno in cui si suppone che l’opera sia ambientata, Filippo era già sul trono da dodici anni… E per una volta non è nemmeno colpa del pur storicamente vago Schiller: a Verdi pareva che a questa storia mancasse qualche grande scena di popolo, e allora aveva più o meno imposto l’incoronazione-cum-rogo. Che viene perfetta perché Carlo possa farsi notare, trascinando davanti al suo inflessibile padre una manciata di terrorizzati deputati delle Fiandre.

Ops…

giuseppe verdi, friedrich schiller, don carloFilippo, inutile dirlo, non è contento. Nonostante la crescente simpatia del popolo e della Regina, respinge con sdegno le suppliche dei Fiamminghi, e con qualcosa di simile al sarcasmo la richiesta di Carlo di essere nominato governatore del Brabante e della Fiandra. E onestamente, siamo seri: al suo posto avreste affidato a costui da governare anche soltanto un pollaio? Tanto più che Carletto procede a dimostrare la sua affidabilità sguainando la spada e servendosene per minacciare il Re… Comprensibilmente poco impressionato, Filippo ordina che si disarmi lo sciagurato – ma che succede? Le guardie esitano, i Grandi di Spagna esitano… Filippo va per fare da sé, e Carlo fa per alzare il ferro su suo padre, quando qualcuno si mette di mezzo. Indovinate chi?

O ciel! Tu, Rodrigo…!

trasecola sgomento Carlo. E noi sobbalziamo insieme al coro: Ei! Posa! Ebbene sì. Lo spargimento di sangue reale è evitato, Carlo è arrestato, Filippo è grato e padrone della situazione. Nel giro di due battute crea duca uno scombussolato Rodrigo e, fatti rimuovere Carlo e i suoi Fiamminghi, ordina di riprendere là dove ci si era interrotti: accensione delle pire, tetro coro del Sant’Uffizio ed eretici flambés – confortati da una Voce dal Cielo.

La fiamma s’alza dal rogo. Cala lo tela.

Atto Quarto

Eppure, sapete che vi dico? Non è detto che Filippo sia poi così monoliticamente giuseppe verdi, friedrich schiller, don carlosicuro come ci era parso in piazza. Magari il dubbio ci era già venuto sentendolo duettare con Rodrigo, ma adesso lo scopriamo a vagare solo e insonne per i corridoi del palazzoIn una delle più meravigliose arie per basso di tutta la storia dell’opera lirica, Filippo ci apre il suo cuore. Lamenta la terribile solitudine del potere, il dubbio che non può fare a meno di nutrire per tutti coloro che lo circondano, la tristezza per l’incapacità della sua giovane moglie di amarlo… E qui potremmo aprire una parentesina per notare che, storicamente, Filippo, non era affatto un vegliardo canuto quando sposò Elisabetta, e aveva appena più di quarant’anni nel 1568. Ma il “crin bianco” era una tradizione consolidata, e non solo in Schiller: anche Alfieri, l’abate di Saint-Réal e tutti quanti ci dipingono il povero Filippo in età geriatrica, e tant’è. giuseppe verdi, friedrich schiller, don carlo

Ma torniamo a noi: a interrompere i magnifici rimuginamenti di Filippo arriva il Grande Inquisitore, terribile cieco nonagenario. Inizia qui un duetto veramente titanico. Con parole che, nell’originale francese*, sono quanto di più fedele a Schiller si trovi nel libretto, e con musica cupa e potente oltre ogni dire, questi due formidabili vecchi duellano incarnando potere temporale e potere religioso. Filippo non sa bene che fare di Carlo, e l’Inquisitore lo esorta allegramente a sbarazzarsene in modo drastico. Se Dio ha sacrificato suo figlio per il bene dell’umanità, perché non dovrebbe farlo il Re di Spagna? E Filippo acconsente, persino un po’ sollevato – ma non è finita. L’Inquisitore vuole un’altra testa, oltre a quella di Carlo: quel mezzo eretico e sovvertitore di equilibri, il signore di Posa, deve morire. E qui sì che Filippo insorge: se ha potuto condannare a morte con sufficiente equanimità il figlio di sangue, le cose cambiano quando si tratta del figlio del suo cuore – sentimenti, gli fa notare l’Inquisitore, del tutto inadatti a un sovrano. Di fronte alla minaccia di una frattura tra corona e Inquisizione, Filippo cede molto, molto a malincuore.

Dunque il trono
piegar dovrà sempre all’altare!

conclude amaramente, mentre l’Inquisitore si ritira.

giuseppe verdi, friedrich schiller, don carloMa ecco che irrompe Elisabetta, furiosa perché qualcuno ha osato rubarle un portagioie, e vuole giustizia dal Re. Ma si dà il caso che il portagioie ce l’abbia proprio Filippo, che lo apre e ci trova dentro una miniatura di Carlo – quella del I atto. Elisabetta si offende a morte per l’atto e per i sospetti ingiustificati, Filippo le dà dell’adultera, lei sviene, lui chiama aiuto e – come se non ci fosse nessun altro in tutto il palazzo – accorrono Rodrigo** e la Eboli. Segue quartetto in cui: a) Elisabetta si riprende; b) la Eboli annuncia di sentirsi in colpa; Filippo si pente di avere sospettato; Rodrigo decide che è il momento di agire. E gli altri capiamo dove sono, ma perché la Eboli si sente in colpa?

Non appena i due uomini si ritirano, la bella monocola si affretta a confessarlo a Elisabetta e a noi tutti: è stata lei a rubare il portagioie. E perché? Gelosia: amava Carlo e Carlo l’ha sprezzata. Elisabetta sarebbe anche pronta a perdonare, ma c’è un altro piccolo dettaglio: la Eboli è stata per anni l’amante del Re… 

Ecco, questo non si può perdonare. Elisabetta bandisce prontamente la Eboli – esilio o chiostro a sua scelta. Pentitissima e disperata per avere rovinato la reputazione della Regina, la principessa esce di scena con un’aria fiammeggiante e un’incoerente decisione di salvare Carlo. Voglio dire: come fa a sapere che il Re lo ha condannato a morte? La maggior parte dei registi risolve la questione facendole trovare il decreto di condanna sul tavolo di Filippo, mentre lamenta la vanità e l’orgoglio che le hanno fatto rovinare tutti quanti. 

Ma noi, intanto, andiamo a trovare Carlo nella sua prigione – in genere qualche tetro sotterraneo semibuio, dove lo troviamo seduto per terra in preda alla depressione più nera. E così lo trova anche Rodrigo, venuto a congedarsi da lui. Come a congedarsi? Eh sì, perché, con atto di dubbia saggezza, ha usato le carte che Carlo gli aveva dato nel III Atto per far ricadere su di sé tutti i sospetti: adesso è lui il fiero agitator delle Fiandre – e anche il supposto amante della Regina.***  giuseppe verdi, friedrich schiller, don carlo

Questo non scagiona affatto Elisabetta? Pazienza. E comunque nel portagioie della Regina c’era il ritratto di Carlo? Fa nulla. Ed è stato Carlo a portare i Fiamminghi all’auto da fè? Dettagli.

A suo credito, anche Carlo è sconcertato come lo siamo noi, e vuole andare dal Re a chiarire tutto… ma Rodrigo lo ferma. Flanders need you, gli intima…

No, ti serba alla Fiandra,
ti serba alla grand’opra.
Tu la dovrai compire. Un nuovo secol d’or
rinascer tu farai; regnare tu dovevi
ed io morir per te.

E non ci si lascia nemmeno il tempo di dubitare che Carletto sia in grado di compire alcunché – men che meno far rinascere secoli d’oro. Un colpo d’archibugio risuona, e…

Cielo! La morte! per chi mai?

esclama Carlo, atterrito.

Ecco, questo è il bit che cito sempre a sostegno della mia teoria-per-gioco sull’insufficienza cranica dei personaggi tenorili. Voglio dire: siete in due, lì dentro, e tu stai benone… per chi diamine vuoi che fosse?

E infatti…

Per me…

mormora utilmente Rodrigo, un istante prima di cadere tra le braccia di Carlo. E pur con un’archibugiata tra le costole, riesce a passare parola per un appuntamento con Elisabetta e a congedarsi con un’ultima e commovente aria, in cui supplica Carlo di non dimenticarsi di lui e di quel che ha fatto – e poi muore, e il pubblico è libero di commuoversi.

Ma il povero Carlo non è nemmeno libero di piangere in pace, perché arriva Filippo, a restituirgli la spada e liberarlo – perché ha creduto alle manovre di Rodrigo. E Carlo cosa fa? Per primissima cosa spiattella tutto a Filippo: altro che tradimento, altro che cospirazione, è morto per salvare me! Il che vanifica del tutto la morte del povero Rodrigo – e ok, era già condannato, ma lui non lo poteva sapere. Cosa dicevamo dei tenori? 

giuseppe verdi, friedrich schiller, don carloMa non distraiamoci, che il momento è pieno di pathos. Angoscia di Filippo, che in Schiller è lacerato tra l’incredulo dolore per il tradimento dell’uomo che considerava un figlio e il rimorso per averlo lasciato morire,**** e invece in Verdi si limita al rimorso – e qui arriviamo a quello che, a mio timido avviso, è l’aggiustamento più criminale tra i molti che segnano la storia di quest’opera. A questo punto, in origine, c’era una meravigliosa scena in cui Filippo e Carlo si addoloravano all’unisono, e il coro faceva corona (piuttosto seccato, a dire il vero). È un pezzo di una bellezza straordinaria – e fu tagliato prima della prima, perché l’opera era troppo lunga e i Parigini rischiavano di arrivare a casa troppo tardi.

Vi par possibile? Il balletto era sacro e intoccabile, ma la trenodia si poteva benissimo potare… No, in realtà c’erano altre ragioni – tipo il fatto che il pezzo era un po’ al di sopra delle possibilità del primo Carlo, il tenore Morère. E poi pare che il primo Rodrigo, Jean-Baptiste Faure, non fosse per nulla contento di restarsene sdraiato in scena mentre gli altri cantavano… Fatto sta che la trenodia fu tolta – e Verdi la riciclò anni più tardi per il Lacrymosa del Requiem. Però nowadays capita di sentirla qua e là in qualche produzione della versione in cinque atti – e secondo me il finale d’atto ne guadagna moltissimo.

Perché sì, siamo in finale d’atto, ormai: c’è spazio per una fulminea rivolta popolare, prontamente sedata dall’arrivo del Grande Inquisitore***** – ma non prima che la Eboli approfitti del trambusto per far fuggire Carlo – e poi il sipario cala. Le cose si mettono male per i nostri eroi, vero? Ma hanno tutto il tempo di peggiorare nel corso del…

Quinto Atto

Questo è breve. Elisabetta è a San Yuste. Aspetta Carlo e intanto fa conversazione con la tomba di Carlo V. Arriva Carlo, che si ferma a salutare sulla via della Fiandra. La morte di Rodrigo l’ha maturato: adesso ama Elisabetta solo di un purissimo e ideale amore, ma il suo cuore e il suo destino sono nelle Fiandre da liberare – cosa che Elisabetta ammira enormemente. Ma mentre si abbracciano per l’ultima volta, ecco arrivare Filippo, con l’Inquisitore e il Sant’Uffizio al seguito. E adesso va’ a spiegare a tutta questa gente che non è come sembra. Le guardie circondano Carlo, ma… che succede? Di chi è la voce che si sente echeggiare?

L’INQUISITORE
É la voce di Carlo!

CORO
É Carlo Quinto!

FILIPPO
(Spaventato)
Mio padre!

ELISABETTA
O ciel!

Il frate corifeo del second’atto ricompare – ma sotto il saio porta una corona imperiale. Tutti indietreggiano sconvolti, e il fantasma, in paio metafisico con la Voce dal Cielo, trascina via Don Carlo mentre, lentamente, cala la tela. 

E sì, è un finale dissennato, ma a Verdi piaceva tanto.

Nonostante il pio corruccio dell’Imperatrice Eugenia alla prima, e nonostante le perplessità di quei critici che tacciarono il compositore di wagnerismo, il Don Carlos fu un successo. In anni successivi cominciarono le modifiche, i tagli, gli aggiustamenti, le traduzioni e le ricuciture, e ancora oggi l’opera va in scena in una quantità di forme diverse, in due lingue e in un numero variabile di atti, cupa e scintillante, gonfia e raffinatissima, illogica e strappacuore – forse il più affascinante capolavoro della maturità verdiana. 

____________________________________

* La traduzione italiana, alas, è lardellata d’improbabilità come “L’infante è un gran ribelle, armossi contro il padre…” Sospirone.

** Abbiate pazienza, devo mettervi a parte di un minuto e meraviglioso particolare della regia parigina di Bondy: a questo punto, Filippo (José Van Dam) è inginocchiato sul pavimento accanto a Elisabetta (Karita Mattila) svenuta. La Eboli (Waltraud Mayer) soccorre la Regina, e Rodrigo (Thomas Hampson) offre la mano al Re per aiutarlo a rialzarsi. Filippo fa per accettare, ma poi si blocca, distoglie lo sguardo e si alza da solo – e noi capiamo che non riesce a stringere la mano dell’uomo che ha appena abbandonato all’Inquisizione. È una delle tante, acutissime minuzie di cui è ricco questo Don Carlos del Théâtre du Châtelet.

*** Secondo Bondy, molto schillerianamente, Carlo non crede più a Rodrigo – il che rende ancora più strappacuore tutta la scena.

**** Ma d’altra parte, in Schiller è Filippo a far archibugiare Rodrigo nelle segrete – cosa che l’Inquisitore poi gli rimprovererà come una mossa goffa e avventata. E non parliamo neppure del film muto del 1925, in cui Filippo spara di persona al povero Marchese…

***** Altra gemma bondiana a questo punto. Ne abbiamo già parlato qui.

 

Nov 4, 2013 - Anno Verdiano    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: Don Carlo(s) – Parte I

Librettitudini Verdiane: Don Carlo(s) – Parte I

giuseppe verdi, friedrich schiller, don carloQuest’opera esiste in quattro e in cinque atti, in Italiano e in Francese, con i balletti, senza balletti e in ogni possibile combinazione delle precedenti, è stata scritta, potata, riscritta, rivista, tradotta e ritradotta, accorciata, modificata – ed è, in tutta probabilità, la mia opera preferita.

E naturalmente il fatto che  sia la mia opera preferita (di sicuro il mio Verdi preferito) non ha nulla a che fare con la sua genesi, né con granché d’altro, ma spiega in parte perché il post in proposito sarà diviso su due settimane. L’altro motivo è che, per non farci mancare nulla, il libretto lo racconteremo nella versione in cinque atti, con un certo numero di annessi e connessi che non si sono (quasi) mai rappresentati o che non si rappresentano (quasi) più, con l’occasionale riferimento al dramma di Schiller da cui l’opera è tratta, e con qualche considerazione storica a parte. Capite bene che la faccenda potrebbe essere lunghetta.

Ma andiamo a incominciar, volete?

Atto I

Siamo in Francia, nella foresta di Fontainebleau, nel cuore dell’inverno. C’è un coro di boscaioli che si lamenta del freddo, delle tasse, della guerra…giuseppe verdi, friedrich schiller, don carlo

E poi c’è un altro coro di cacciatori che scorta la nostra primadonna, la principessa Elisabetta di Valois, figlia del re e, c’informano i boscaioli, tanto buona quanto bella. Elisabetta entra e distribuisce elemosine, e rincuora il popolo afflitto: la guerra con la Spagna sta per finire, e proprio ora il re sta discutendo con gli inviati di Madrid i termini di una pace che prevede nozze reali tra Elisabetta stessa e l’Infante di Spagna.

Entusiasmo generale, gratitudine, felicitazioni, auguri reciproci, e poi Elisabetta e il suo seguito passano oltre… ma chi sarà il giovanotto che è apparso appena in tempo per bearsi della vista di Elisabetta?

È, naturalmente, il tenore eponimo, che si ferma sulla scena deserta ad informarci dettagliatamente su come abbia lasciato la Spagna di straforo contro il volere del padre Re Filippo, e si sia precipitato qui in incognito per dare un’occhiatina preliminare alla sua nobile fidanzata e, avendola vista per tutto un minuto, se ne sia innamorato giuseppe verdi, friedrich schiller, don carloperdutissimamente.

E la seguirebbe volentieri – non fosse che si è attardato un po’ troppo per metterci a parte, e ha perso di vista e d’udito la caccia… Ma niente paura: anche Elisabetta, si direbbe, ha perso di vista e d’udito la caccia, e torna in scena accompagnata da un paggio, stanca e infreddolita, e piuttosto incerta su come tornare a casa. Figurarsi se Carlo non si offre di fare da scorta e da compagnia alla principessa mentre il paggio torna a palazzo a procurare un mezzo di trasporto. 

E così i nostri due rimangono soli – tenore e soprano. Non è l’ultima volta che capita in quest’opera, e tanto vale che lo sappiate: la combinazione non prelude mai a nulla di buono. Oh, all’inizio pare di sì. Elisabetta e il misterioso Spagnolo fanno conversazione, lui accende un focherello millantando esperienze militari*, spiega che la pace è sul punto di essere firmata. È solo naturale che Elisabetta gli chieda del suo futuro sposo, non credete? E guarda caso, il misterioso giovanotto non solo è appassionatamente certo che l’Infante sia già innamorato della sua promessa francese, ma ha anche una miniatura da farle vedere. Lei prende il medaglione, lo apre, e… chi ci trova?

Estasi, gaudio, amore reciproco, aerei nonnulla – fino al colpo di cannone che segna la conclusione dei negoziati: la pace è stretta, il matrimonio deciso. Si può essere più felici di così?

Entra il paggio di Elisabetta, guidando un corteo con le fiaccole di cui fa parte il Conte di Lerma, ambasciatore di Re Filippo, e tutti quanti salutano Elisabetta… regina di Spagna!

Ops…

Il matrimonio è concluso eccome, ma si direbbe che, all’ultimo momento, Enrico di Valois sia riuscito a strappare un prezzo migliore in cambio della pace: sua figlia regina anziché infanta.

Catastrofe indicibile. Mentre il coro inneggia, Elisabetta e Carlo si guardano annichiliti e inorriditi. Ma… piano, forse c’è ancora uno spiraglio… Lerma, a quel che pare, ha istruzioni di chiedere anche il consenso della sposa: vuole Elisabetta sposare Re Filippo?

Elisabetta esita solo per il tempo che serve alla compagine femminile del coro per ricordarle che solo lei può porre fine alla guerra che infiniti lutti addusse ai Francesi.

“Sì,”** mormora la povera ragazza con un fil di voce.

Tutti festeggiano la pace raggiunta e la nuova sovrana – tranne i due poveri innamorati – ma che si può fare contro il destino crudele? Il corteo scorta Elisabetta offstage in un tripudio di torce e inni, e Carlo, rimasto solo in scena, può soltanto gemere e dolersi sulla sparizione del suo bel sogno, mentra cala la tela.

Atto Secondo

Siamo in Spagna, adesso – e ci resteremo. Per la precisione, siamo nel chiostro del convento di San Giusto, dove un cupo coro di frati, guidato da un ancor più cupo frate/corifeo, canta cupissime considerazioni sulla mortalità e pochezza umane – particolarmente del defunto Carlo V, che proprio qui è venuto a ritirarsi tra l’abdicazione e la morte.

Ora, dovete sapere, nella versione in quattro atti l’opera comincia qui, con Carlo che ci riassume in un’aria-bignami tutto quel che dobbiamo sapere dell’atto di Fontainebleau. Ma noi di atti ne abbiamo cinque, per cui Carlo non ha bisogno di riassumerci nulla. Arriva a San Giusto nel vano intento di trovar pace e dimenticare Elisabetta presso la tomba del suo grande nonno… peccato che il frate/corifeo torni alla carica con le cupissime (pur se pertinenti) considerazioni, e nella sua voce Carlo creda di riconoscere quella del defunto imperatore… giuseppe verdi, friedrich schiller, don carlo

Orror! Terror! Sul capo gli si rizza il crine, e starebbe per abbandonarsi al panico se, molto a proposito, non entrasse in scena Rodrigo, Marchese di Posa, tornato dopo lunga assenza. E Rodrigo è il grande amico di Carlo, un baritono, un Cavaliere di Malta e una specie di illuminista travestito da Grande di Spagna. Pur essendo un idealista di tre cotte, il nostro giovanotto ha una testa più salda di quella di Carlo… o forse dopotutto no, considerando che vuole che Carlo salvi le Fiandre. Perché le Fiandre, vedete, soffrono da matti sotto il gioco spagnolo, e Carlo, che è dopo tutto l’erede al trono, dovrebbe fare della loro salvezza la missione della sua vita.

“Ma io sono innamorato,” pigola Carlo.

Rodrigo accantona la questione.

“Ma io sono innamorato infelicemente!”

Rodrigo comincia a spazientirsi.

“Ma io sono innamorato infelicemente di Elisabetta!”

Ecco, questo cambia un pochino le cose: non è bello essere innamorati della propria matrigna, specie quando il babbo è il Re di Spagna, e un Re di Spagna geloso e tirannico come Filippo… ma Rodrigo ha in mente una soluzione. Indovinate quale? Ma le Fiandre, perbacco! Dandosi anima e corpo alla causa delle Fiandre, non avrà più tempo per sospirare e languire – che oltretutto sono attività inadatte a un futuro re.

Carlo si lascia trascinare con commovente facilità, e i due giovanotti si scambiano il tipo di eroico giuramento d’amicizia che all’opera tende a non promettere troppo bene. E in effetti, Carlo pare subito pronto a crollare, non appena le trombe annunciano l’ingresso di Filippo ed Elisabetta*** – ma Rodrigo è un rapido pensatore e lo trascina via prima che possa dare spettacolo di se stesso.

giuseppe verdi, friedrich schiller, don carloMa spostiamoci un istante qui fuori, nel giardino del convento dove, in una delle pochissime scene soleggiate di quest’opera, le dame della regina si annoiano a morte in attesa dei sovrani. A vivacizzare l’atmosfera pensano il paggio francese di Elisabetta e l’ardente (pur se monocola) Principessa di Eboli, che cantano una ballata saracena di sultani infedeli e mogli astute…

Li interrompe l’arrivo della regina, sempre malinconica da non dirsi, e poi del Marchese di Posa – venuto ostensibilmente a portare a Elisabetta una lettera della madre dalla Francia, e di fatto a consegnarle un bigliettino di Carlo che chiede un incontro.

Ma come? Non si proponeva di fargli dimenticare Elisabetta per le Fiandre? Magari Carlo ha posto questo incontro come condizione, o magari non c’è una buona ragione: preparatevi all’idea che quel che Rodrigo fa non è sempre terribilmente sensato. Ad ogni modo, Elisabetta legge mentre Rodrigo distrae la curiosissima Eboli con un po’ di gossip parigino e poi, invitato a chiedere una grazia alla regina, il nobile messaggero accetta e non per sé: il povero Carlo è così infelice, vorrebbe partire per le Fiandre, ma il Re non vuol sentirne parlare… Non vorrebbe Elisabetta intercedere? Elisabetta è lacerata tra amore e dovere, mentre la Eboli si domanda se Carlo non sia così infelice perché è innamorato proprio di lei – che sarebbe ben felice di ricambiarlo.

Alla fine Elisabetta cede: il figlio è pronta a riveder. Tutti si ritirano – seppur con qualche perplessità nel lasciare sola la regina in violazione del protocollo di corte – ed entra Carlo.

E Carlo non ci sta ad essere chiamato figlio, né è poi così interessato a partire come Rodrigo aveva suggerito. A lui interessava solo di rivedere la sua ex fidanzata, a dichiararle il suo amore ancora una volta, a rimproverarla perché vuole essere leale con il re, a farsi dire che lei lo ama ancora, a svenire ai suoi piedi, a delirare un pochino, a saltare adosso a una commossa Elisabetta… giuseppe verdi, friedrich schiller, don carlo

È proprio solo per merito di lei se la faccenda non trascende. Messo con qualche rudezza di fronte alla realtà dei fatti, Carlo inorridisce e fugge – appena in tempo per non essere colto in fallo dal Re che arriva con i suoi. Ma a Elisabetta, colta da sola, non va altrettanto bene. Per lo sconcerto generale, un furibondo Filippo bandisce dalla Spagna la dama d’onore francese che non avrebbe dovuto staccarsi dal fianco della Regina, e poi congeda la corte – tranne Rodrigo, con cui è curioso di scambiare qualche parola. 

Come mai, si chiede, questo viaggiatore e soldato di buona famiglia ha lasciato il servizio in Fiandra per tornarsene in Spagna? Con candore potenzialmente suicida, Rodrigo risponde che lui è, per l’appunto, un soldato e non un macellaio, e quel che si sta facendo nelle Fiandre è bassa macelleria. Filippo non è abituato a sentirsi parlare così, e s’indignerebbe molto volentieri, ma c’è qualcosa, nella passione e nella fierezza con cui Rodrigo perora la causa dei Fiamminghi, qualcosa che gli tocca il cuore. Ah, come vorrebbe che fosse questo suo figlio, invece dello squadrellato inaffidabile e inefficace che gli è toccato in sorte… in un inconsueto impulso di fiducia e simpatia, nomina Rodrigo suo consigliere, e lo incarica di sorvegliare la Regina e l’Infante, sui cui nutre seri dubbi. E ad essere sinceri, il modo in cui Rodrigo a questo punto gongola tra sé sull’insperata chance, non ce lo rende simpaticissimo. Mentre, al contrario, quasi ci commuoviamo quando Filippo, a titolo di congedo, raccomanda al suo nuovo giovane amico di guardarsi dall’Inquisizione.

E cala la tela sull’atto secondo, e noi per ora ci fermiamo.

Che ne sarà dei nostri eroi? Riuscirà Carlo a ricongiungersi con l’amata Elisabetta o si farà spedire nelle Fiandre? E che farà Rodrigo, preso tra l’amicizia per Carlos, la causa delle Fiandre e la fiducia del vecchio Re solitario? E Filippo? Ha finalmente trovato un amico leale? E potrà fidarsi del suo instabile figlio e della malinconica moglie? E come reagirà la bella Eboli scoprendo che Carlo è innamorato – ma non di lei? E soprattutto, sarà poi vero che nessuno si aspetta l’Inquisizione spagnola?

Per scoprirlo, non perdete il prossimo appassionante episodio delle Librettitudini Verdiane: Don Carlo(s), Parte II.

 

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* Allora, questa è una di quelle cose su cui si può discutere finché si vuole, ma se lo chiedete a me, nulla mi convincerà mai che Carletto abbia mai fatto vita al campo. Aspettate di conoscerlo meglio. Ne riparliamo fra un paio d’atti, e mi saprete dire. Oh, ed è inutile cercare soccorso nell’originale schilleriano, perché tutto quest’atto è un’aggiunta dei librettisti francesi Mery&Du Locle.

** Narrasi che alla prima parigina del 1867 il soprano Marie Sass, in un momento di distrazione, rispondesse “No”, per la comprensibile furia di Verdi e, immagino, lo sconcerto del pubblico…

*** Sì: per dimenticare Elisabetta si era precipitato nel posto in cui sapeva che suo padre avrebbe condotto la sua sposa. Tenori.

Ott 28, 2013 - Anno Verdiano    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: La Forza Del Destino

Librettitudini Verdiane: La Forza Del Destino

giuseppe verdi, la forza del destino, francesco maria piave, antonio ghislanzoniÈ il 1861 quando capita che il Teatro Imperiale di Sanpietroburgo (il futuro Marjinski) chieda a Verdi un’opera. L’incarico è prestigioso, e Verdi accetta di buon grado – ma quale opera? Il teatro propone il Ruy Blas di Hugo, subito scartato per ragioni di censura, e allora, Spagna per Spagna, Verdi propone Don Alvàro, o La Fuerza del Sino, drammone iperromantico e affollato dello spagnolo duca di Rivas. E i Russi accettano, così Verdi si rivolge al vecchio amico Piave (povero Piave!) per un adattamento.

Successone pietroburghese, entusiasmo di Zar e Zarina, ordine imperiale e reale di San Stanislao per Verdi… Vogliamo pensare che per una volta sia andata dritta al primo colpo? Niente problemi di censura, libretto visto e piaciuto?

Ma no, naturalmente: figuratevi che alla Scala, anni dopo, la Forza del Destino ci arrivò rimaneggiata da Ghislanzoni, accorciata, con un morto e mezzo in meno e un atto rifatto… Povero Piave, indeed.

Adesso la Forza, con una fama lievemente iettatoria a traino, si esegue sempre nella versione di Ghislanzoni, e dunque è questa che procedo a raccontarvi.

Atto Primo

Siamo a Siviglia alla metà del Settecento, nella stanza della bella Leonora di Vargas, marchesina di Calatrava, cui l’affettuoso babbo marchese è andato a dare la buonanotte. E i padri operistici non impareranno mai a levare il sopracciglio quando le loro sopranili figliole si torcono le mani senza causa apparente… il Marchese non fa in tempo a girare l’angolo che la servetta Curra riapre il balcone e comincia a preparare il genere di bagaglio sommario che una nobile fanciulla si porta dietro per andarsi a sposare di nascosto… Ed è così che scopriamo come il tenore Don Alvaro sia in arrivo per rapire la sua bella.

Leonora, a dire il vero, ha qualche remora, e quando arriva, l’impetuoso Alvaro ha il suo daffare a convincerla a calarsi dal verone. Perché, vedete, il guaio si è che Alvaro è, nelle parole di non so chi fra i due librettisti, un indo di regale stirpe, di anima ardentissima, indomita e sempre nobilmente generosa. Ops… non solo un coloniale, ma un indigeno delle colonie – di stirpe regale finché si vuole, ma socialmente inacettabile per i nobilissimi e spagnolissimi Vargas di Calatrava. E allora fuggir bisogna, ma Leonora è un soprano di varietà singolarmente irresoluta, ed esita, e periclita, e tentenna, e chiede di rimandare la fuga all’indomani… 

E tu contento, gli è ver, ne sei?
Sì, perché m’ami, nè opporti dei;

E come no? Contento come una Pasqua, Alvaro propone di sciogliere il fidanzamento sur le camp, il che pare decidere la bella tentennatrice – ma è tardi. La porta si spalanca e il nobile babbo rientra brandendo la spada di famiglia e ordinando ai servi di incaprettare il vile seduttore. E allora Leonora supplica con scarso effetto, e Alvaro chiede di morire in duello, e il Marchese rifiuta, e Alvaro in vena di gesti drammatici estrae la sua pistola e la getta a terra, e parte un colpo – e indovinate chi becca?

A titolo di esempio del perché quest’opera sia considerata sfortunatella, il Marchese la prende nelle costole e muore – non prima di avere maledetto la figlia disonorata e disonoratrice della famiglia. Orrore e confusione, e Alvaro si trascina via Leonora per il balcone – e via verso l’ignoto, mentre si chiude il sipario.

Atto Secondogiuseppe verdi, la forza del destino, francesco maria piave, antonio ghislanzoni

È passato un anno e mezzo, e ci siamo spostati a Hornachuelos, in quel di Cordoba, in una pittoresca osteria, dove arriva, in vesti di studente, Don Carlo** di Vargas, fratello di Leonora a caccia di sorelle degeneri e incas seduttori. Ora, giusto perchè lo sappiate, Don Carlo è un baritono e a me è simpatico. Il librettista ce lo descrive come giovane ardente di 22 anni. Animato sempre dalla sete di vendicare l’offeso onore della sua casa; che risolutamente e tenacemente affronta ogni difficoltà, sprezza ogni pericolo pur di giungere al suo scopo. How very Spanish, isn’t it? E comunque, ammetetelo: ha le sue ragioni. Comunque, con tutta l’Andalusia a disposizione, proprio qui deve arrivare Leonora – sola e vestita da uomo – e scomparire rapidamente dopo avere riconosciuto il fratello? Ma quest’opera è così, e comunque siamo subito distratti dall’apparire della zingarella Preziosilla, che canta, danza, legge la mano e si direbbe che lavori in subappalto per i sergenti reclutatori, visto lo zelo con cui invita gli uomini ad arruolarsi e andarsene a caccia di gloria in Italia…

Preziosilla prende in subita antipatia Don Carlo, che non le sembra affatto uno studente… Di certo, quando tutti vanno a guardar passare il coro di pellegrini diretti al giubileo, e Leonora esce come il cucù di un orologio, per pregare in pubblico che il cielo la salvi dal fratello vendicatore, la nostra zingarella fa due più due – e tanto più quando poi il falso studente mostra un po’ troppo interesse per il misterioso ospite che cena in camera, e sul quale nessuno sembra disposto a dirgli nulla. Carlo ha i suoi sospetti, ma anche il coro comincia ad averne su di lui, così che il giovanotto deve cavarsi d’impaccio raccontando di come abbia abbandonato momentaneamente i suoi studi di legge per assistere il suo buon amico, il cavaliere di Vargas, nella caccia al delinquente che gli ha ucciso il padre e la sorella e che adesso pare stia fuggendo nel Nuovo Mondo… Non che Preziosilla gli creda, ma gli altri sono impressionati e convinti.

Cambio di scena.

Voi ci credete che Alvaro se ne stia fuggendo da solo nelle Americhe, lasciando indietro Leonora? Lei ci crede eccome, tanto che, al riaprirsi del sipario, la troviamo che bussa alla porta di un convento mentre fa l’inventario delle sue molte infelicità: il babbo morto, il fratello che vuole il suo sangue, il moroso che l’ha piantata in asso… dopo un breve intermezzo semicomico con il portinaio Fra Melitone, cui non par bello aprire a uno sconosciuto nel cuore della notte, arriva l’angelico Padre Guardiano, cui Leonora rivela i suoi guai e chiede rifugio. Il Padre Guardiano le propone la più sensata soluzione di un convento femminile – ma Leonora no, vuole restare dov’è, e minaccia, se verrà respinta, di andarsene per le balze, gridando aìta finché qualche animale selvatico non metterà fine alle sue sofferenze. Commosso dal suo dolore, e forse spiazzato dalla minaccia di ritrovarsi una squilibrata che balza per le balze ululando aìta, il Padre Guardiano le assegna un saio e uno speco*** in cui soggiornare romita, orante e semidigiona per purgarsi l’anima. Siccome è quasi l’alba e gli altri frati arrivano per cantare le lodi, Leonora fa in tempo a ricevere la comunione, e poi se ne va al suo speco con vista monti, mentre il coro invoca su di lei la celebre benedizione della Vergine degli Angeli – e sipario. 

Atto Terzo

Seguendo a nostra volta l’invito di Preziosilla, andiamo in guerra. Siamo in quel di Velletri, ai margini del campo spagnolo, dove scopriamo che Don Alvaro non è affatto nelle Americhe – anzi. Lo ritroviamo prode capitano dell’esercito spagnolo, sotto falso nome, occupato a passeggiare nottetempo e a maledire la sua sorte. Sangue reale, orfano, infelice, Leonora, omicidio colposo – e tutta la faccenda che conosciamo già – a parte il fatto che il nostro tenore, per qualche motivo, crede che Leonora sia morta. Né è troppo occupato a maledire la sorte per salvare un giovane ufficiale inesperto che, appena arrivato al campo, è entrato nella bisca sbagliata e per poco non ci lascia le penne. E indovinate, in questa fiera della coincidenza, di chi si tratta? Ma di Don Carlo, naturalmente.

Però ricordate che i due non si sono mai visti in faccia, e sono entrambi arruolati sotto falso nome… E la beffa è che si piacciono subito a vicenda, e prima di subito si giurano eterna&fraterna amicizia.

Cosicché, quando nella battaglia successiva Alvaro/Federico resta ferito gravemente e crede di morire, è proprio all’afflitto e sollecito Carlo/Felice che chiede di distruggere le sue carte senza leggerle. Carlo/Felice giura, ma ha qualche dubbio. È capitato che, in un momento di trasporto malguidato, prometesse all’amico l’ordine di Calatrava, e la proposta fosse accolta con orrore… Sta a vedere, sta a vedere! A questo punto, mentre Alvaro/Federico è sotto i ferri del cerusico, i sospetti di Carlo/Felice lievitano. Però lui è un prode nobiluomo spagnolo, e non può infrangere la parola data, per quanto ne sia tentato… Peccato che, nell’affidargli le consegne, il nostro Indo si sia dimenticato di includere nel patto la miniatura che si tiene in valigia. Su questa Piccoli Casuisti Crescono non ha giurato nulla, e dunque la apre e ci trova… Leonora! Tombola. Trovato il vile seduttore – solo che non muoia sotto i ferri… ma no: il chirurgo arriva con buone notizie, e il cavaliere di Vargas si rallegra. Il seduttore è vivo, e può ucciderlo lui.

Fast forward del tempo che ci vuole a guarire da una ferita. È di nuovo notte, e Alvaro, di nuovo in piedi, ha ripreso l’abitudine di passeggiare attorno al campo maledicendo la sorte. Ma stanotte la sorte maledetta la incontra nella persona di quello che ancora crede il suo amico, e che invece si rivela per Don Carlo di Vargas, e se non è troppo disturbo lo ucciderebbe volentieri. Alvaro tergiversa, perchè gli par brutto infilzare il suo ex-amico, e anche l’uomo cui ha ucciso il padre… Nonché sedotto e abbandonato la sorella, gli ricorda Carlo. E Alvaro protesta di no, che Leonora lo ricambiava, ma è morta, miserella – dopo che lui, ferito gravemente la notte della fuga, l’ha persa per strada… Ma niente affatto, lo informa Carlo, e a questo punto Alvaro sarebbe pronto a dimenticare il passato, cercare Leonora e sposarla – perché lui, dopotutto, è di sangue reale…**** Al che Carlo fa notare che poco importa che sangue abbia, resta il piccolo dettaglio dell’assassinio del Marchese, per vendicare il quale ha ogni intenzione di uccidere lui e Leonora senza distinzione di trattamento. Ed è la minaccia a Leonora a decidere Alvaro: i due sguainano le spade e si battono per un po’, ma arriva la ronda e li separa e trascina fuori scena.

Segue un lungo quadro di colore locale, con Preziosilla, i camp-followers, le reclute, i soldati spagnoli, i soldati italiani, le vivandiere e persino Fra Melitone – perché in fatto di coincidenze, l’abbiamo detto, qui non ci facciamo mancare nulla. E poi sipario.

Atto Quarto

È passato oltre un lustro,***** e Fra Melitone è tornato in convento a Hornachuelos, dove distribuisce la minestra ai poveri, con tanta bruschezza e così scarsa carità, che i mendicanti rimpiangono quell’angelo e santo del Padre Raffaele che si occupava di loro prima.

giuseppe verdi, la forza del destino, francesco maria piave, antonio ghislanzoniMa Raffaele, c’informa Melitone, è non poco squadrellato, e troppo preso da digiuni, cilici e penitenze per occuparsi di qualcosa di così prosaico come la minestra dei poveri. Vi viene il dubbio di chi possa essere? Alla fine, i mendicanti se ne vanno più o meno soddisfatti, e si bussa alla porta. È un misterioso e arrogante cavaliere, che viene a cercare proprio Padre Raffaele. E scommetto che nessuno si sorprende nello scoprire, quando i due s’incontrano, che il frate è Alvaro e il cavaliere Carlo. Ecco che ci siamo. Alvaro/Raffaele in un primo momento rifiuta di battersi – per l’abito che porta, per la pace che cerca, per l’umiltà che ha accettato… chiede perdono, e s’inginocchia, e supplica. Ma lo sapete come sono questi nobiluomini spagnoli una volta che si sono intestarditi in una vendetta: Carlo insulta, vilipende e schiaffeggia, finché Alvaro getta alle ortiche i suoi scrupoli, e i due corrono offstage a battersi.

E dove correranno mai? Nei pressi dello speco di Leonora, ovviamente, che prega e digiuna da una decina d’anni (dipende da quanto è più di un lustro), ma ancora non è riuscita a togliersi di testa Alvaro, e vorrebbe tanto morire… Appena lei è tornata a richiudersi nel suo speco, entra in scena Alvaro, che ha ferito a morte Carlo, e cerca disperatamente un confessore per il secondo Vargas che ha fatto fuori nel giro di dieci anni. E bussa allo speco dell’eremita, e l’eremita non ne vuole sapere, e quando apre la porta… oh numi! Leonora! Alvaro! Non dirmi che abbiamo vissuto dentro e fuori dallo stesso convento per cinque anni e non lo sapevamo! Sì! Giusto cielo, siamo riuniti! Er… non proprio: sai com’è, ho appena spacciato tuo fratello… giuseppe verdi, la forza del destino, francesco maria piave, antonio ghislanzoni

Leonora, disperata, corre offstage per abbracciare un’ultima volta il fratello morente, e Alvaro si torce le mani. Magari un parente assassinato una ragazza può anche perdonarlo, ma due? E però il problema sta per farsi irrilevante. Odesi uno strillo, e Leonora rientra sorretta dal Padre Guardiano – e ferita a morte. Carlo, che non era nulla se non coerente, prima di morire ha accoltellato la sorella degenere.

Orrore, orror! Alvaro impreca, ma Leonora e il Padre Guardiano lo esortano all’umiltà e al pentimento. Lui non ne vorrebbe sapere, ma che può fare a questo punto? Dopo avere smaniato per quattro atti, Alvaro si pente e si umilia, così Leonora muore contenta promettendogli il perdono di Dio.

Morta!

costata Alvaro, al che il Padre Guardiano corregge: no,

Salita a Dio!

E sipario. Nella versione Piave, il finale era più truce: Carlo feriva la sorella e moriva in scena e Alvaro, persa del tutto la trebisonda, balzava per le balze imprecando e poi si buttava giù. I Russi non avevano mostrato compunzioni in proposito, ma parve che più a occidente il pubblico si sgomentasse, e così il finale fu sanitizzato. Che non lo fosse di più è merito di Verdi che si impuntò sulla morte di entrambi i fratelli Vargas.

Un’ultima nota di colore. Ricordate il Ruy Blas rifiutato dai censori russi? Qualche anno più tardi lo musicò Filippo Marchetti, che ebbe la sfortuna di debuttare alla Scala alla fine della stagione 1869, dopo il travolgente successo dell’approdo scaligero della Forza del Destino. Del Ruy Blas nessuno si accorse troppo, e l’opera rimase in scena per due serate soltanto per essere ripresa soltanto nel 1873. Allora ebbe un successone e ventuno repliche – più dell’Aida. Se lo chiedete a me, avevano avuto ragione nel Sessantanove, ma così vanno gli alti e bassi dell’opera.

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** E con questo facciamo due Don Carli verdiani. Presto saranno tre.

*** Eccola qui, la grotta in dotazione!

**** Casomai noi o qualcuno in scena si avesse la tentazione di dimenticarsene. Non vi ricorda Alan Breck Stewart, who bears a king’s name? A parte il fatto, si capisce, che Alan è incommensurabilmente più simpatico.

***** E che mai vorrà dire “oltre un lustro”? Cinque anni sono cinque anni, sei anni sono sei anni, sette anni sono sette anni… mah.

Ott 21, 2013 - Anno Verdiano    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: Un Ballo In Maschera

Librettitudini Verdiane: Un Ballo In Maschera

giuseppe verdi, antonio somma, un ballo in maschera, una vendetta in domino, gustavo IIIQuesta faccenda era partita come Gustavo III, sulla base di un omonimo e francese libretto di Scribe, poi italianizzato da Antonio Somma. Solo che, capite, c’erano faccende (peraltro piuttosto storiche) di corna, stregoneria e regicidio – in ordine di gravità crescente, I believe – tutte cose che rovinavano la digestione ai censori di Napoli, per il cui San Carlo l’opera era stata scritta. E sì, diciamolo: era un libretto imprudente. Tant’è che i censori imposero un trasloco in Pomerania of all places, e Somma obbedì producendo Una vendetta in domino, e i censori, non contenti, pretesero di mutilare la vicenda tanto che Verdi s’inalberò, e la censura proibì la rappresentazione, e il San Carlo, con cui proprio Verdi non riusciva ad andare d’accordo, fece causa al compositore per violazione di contratto, e Verdi querelò per danni, e il San Carlo ritrattò, e Verdi promise un’altra opera più avanti, e se ne fuggì a Roma, per tentare la fortuna con la censura papalina. Andò marginalmente meglio: anche a Roma pareva brutto far morire un sovrano in scena – per non parlare di una strega nella civile Europa alla metà del Settecento, ma per il resto non avevano soverchie remore… Alla fin fine Verdi e Somma se la cavarono degradando il Re di Svezia a Governatore del Massachussets e spostando il tutto al cupo e superstizioso Seicento coloniale – e così adesso sapete a chi e a che cosa dovete il nonsense esotico che adesso vi racconto.

Atto Primogiuseppe verdi, antonio somma, un ballo in maschera, una vendetta in domino, gustavo III

Siamo a Boston, come si diceva, ed è la fine del secolo decimosettimo. È anche mattina, e nel palazzo del governatore deputati, uffiziali, popolani e gentiluomini attendono il lever di Riccardo, Conte di Warwick. E mentre parte del coro canta le lodi di Riccardo, gli scontenti Tom e Samuel hanno l’aria di pensare diversamente. Con buona pace delle censure di due stati, qui si medita conticidio.

Ma eccolo, l’amato e detestato Riccardo, pieno di zelo nei confronti del suo popolo e di joie de vivre. Tra un decreto e una grazia, si occupa anche degli inviti per il ballo mascherato insieme al suo paggio Oscar – ma un nome* tra le belle invitate lo colpisce: Amelia! Nel bel mezzo della folla, Riccardo si astrae un istante per pindareggiare un istante sulla donna che ama…

Tutti se ne accorgono, ma i candidi bostoniani lo credono assorto a pensare al loro bene.

Yes, well.

Forse sentendosi osservato, Riccardo congeda tutti per pensare in pace ad Amelia. Ma la pace dura poco, perché subito arriva, al modo di chi non ha bisogno di essere annunciato, Renato. Ora, vedete, Renato è un gentiluomo coloniale di seconda generazione, amico fraterno del Conte e… marito di Amelia.

Ops.

A peggiorare le cose…

D’accordo, fermiamoci un attimo e mettiamo le cose in chiaro. Ormai il mio debole per i baritoni è cosa risaputa – e Renato non è solo un baritono, ma uno dei miei baritoni verdiani preferiti. E per di più non posso fare a meno di parteggiare fiercely per il personaggio oggetto del genere di slealtà che tocca al povero Renato. Per cui siete avvisati: qualunque cosa Renato finisca per fare, sarò spudoratamente dalla sua.

E torniamo a noi. A peggiorare le cose, dicevo, Renato si preoccupa delle paturnie del suo amico e signore – ed è convinto di conoscerne la ragione. Capirete che Riccardo sobbalza un nonnulla, ma Renato è candido: sa di una congiura ai danni di Riccardo, sa chi siano i congiurati, sa come troncare sul nascere– Reso imprudente dal sollievo, Riccardo lo zittisce quasi bruscamente: non gli cale, non ne vuole sapere nulla e non si abbasserà a fare il tiranno. Che provino a ucciderlo, se ci riescono.

E sì: qualora ve lo stiate chiedendo, Riccardo è un tenore.

Renato è preoccupato – non a torto. E lo è ancora di più quando, all’arrivo di un giudice che chiede una condanna per una strega, Riccardo decide di fare un salto a vedere di persona – in incognito e senza scorta. Oh, d’accordo, con mezza corte (parimenti in incognito) al seguito, ma non sembra anche a voi la situazione ideale per un attentato?

Inutilmente Renato predica la prudenza: Riccardo è troppo preso dal suo nuovo gioco, Tom&Samuel gongolano, e tutti si danno appuntamento all’antro di Ulrica** – anche Renato, intenzionato a badare a Riccardo se Riccardo non vuole o non sa badare a se stesso.

giuseppe verdi, antonio somma, un ballo in maschera, una vendetta in domino, gustavo IIIAndiamoci anche noi, all’antro di Ulrica, che legge il futuro in pretesa combutta con il diavolo e ha un gran seguito popolare. Riccardo, in abiti da pescatore, arriva in tempo per sentirla predire ricchezza e fortuna a un baldo marinaio – e, un po’ perché l’uomo gli ispira simpatia e un po’ perché è divertito dal senso del teatro della maga, provvede istantaneamente una borsa e un brevetto da ufficiale. Figurarsi il marinaio quando si ritrova tutto quanto in tasca, e figurarsi la folla nel veder avverare la predizione. Ma mentre tutti si rallegrano, arriva in gran segreto un uomo – che Riccardo riconosce come un servitore di Amelia. Quando la maga congeda tutti con qualche bruschezza, Riccardo si nasconde, e così assiste insieme a noi all’arrivo di Amelia. Amelia, la moglie di Renato, è arrivata a chiedere alla maga un filtro per dimenticare un amore colpevole… Ulrica dà istruzioni un tantino sinistre, e Riccardo si bea di essere riamato.

Sciagurato, don’t you think?

Ma ecco che torna il coro – per metà composto adesso di cortigiani travestiti, compresi Samuel e Tom. Amelia si dilegua, e Ulrica riprende le consultazioni. Prossimo…

E prossimo si fa avanti Riccardo per farsi leggere la mano. Ulrica riconosce in lui un grand’uomo abituato al mestiere delle armi e… destinato ad essere assassinato.

Tom e Samuel cominciano a sudare freddo.

Ad essere assassinato per mano di un amico.

Tom e Samuel per poco non si strozzano.

Riccardo ci ride su.

Ulrica ammonisce che c’è poco da ridere: destinato ad essere assassinato dal primo che gli stringerà la mano.

Nell’idea di smentire il vaticinio, Riccardo cerca qualcuno che gli stringa la mano – ma nessuno sembra disposto a farlo… finché entra Renato, che non ha sentito nulla e non ha obiezioni a stringere la mano al suo amico.

Ops…

L’amico, badate bene, che si appresta a tradire. Ma a Riccardo pare di avere sbugiardato Ulrica – cui, ad ogni modo, concede la grazia. E lei ringrazia ma torna ad ammonire: tra i suoi c’è un traditore… E vero è che la sua credibilità è un tantino franata a valle, ma Riccardo si guarda bene dal crederle, e anzi, all’arrivo del marinaio alla testa del popolo festante, si crogiola nell’entusiasmo generale, incurante tanto delle preoccupazioni di Renato quanto degli sguardi truci di Tom&Samuel.

E sipario.

Atto Secondo

Mezzanotte. Orrido campo alla periferia di Boston – nientemeno che il luogo delle esecuzioni capitali. E che ci fa qui Amelia, da sola e a quest’ora? Ebbene, è proprio qui che Ulrica l’ha mandata a procurarsi le verdurine per il filtro disamorante: l’erba che cresce ai piedi della forca. E Amelia è venuta, perché così le detta il dovere, ma ci si strugge. E mentre si strugge arriva Riccardo che, se ricordate, aveva sentito tutto. E magari è anche vero che è venuto per proteggerla nel luogo solitario e nell’ora notturna, ma già che c’è le chiede di dirgli almeno una volta che l’ama, e lei dice no, poi dice ni, poi dice t’amo, e sapete come vanno queste cose… ma chi è che arriva? O, per dirla con Riccardo,

Chi giunge in questo
Albergo della morte?

E chi volete che giunga? Ma Renato, naturalmente. Renato che non riconosce sua moglie fittamente velata, ma è venuto a salvare Riccardo dai cospiratori che sono sulle sue tracce. È o non è un leale, buon e coraggioso ragazzo? E vi pare che meriti quello che questi due sciagurati gli stanno facendo? Guardatelo, mentre fa cambio di mantelli, pronto a farsi uccidere al posto del suo amico se occorre… Riccardo esita un nonnulla ad andarsene, più che altro per via di Amelia, che però gli ordina di andare e salvarsi. E che cosa gli pare bello fare? Affida la signora velata a Renato, con la più stretta ingiunzione di scortarla in città senza cercare di capire chi sia. Se lo fa giurare – come se sospettasse Renato di potergli disobbedire – e Renato, abituato alle scappatelle amorose del suo amico e ansioso di vederlo fuggire, giura. Finalmente Riccardo sguscia via, e Renato si appresta a riportare la signora velata in città, quando irrompono Tom&Samuel, con un coretto di cospiratori armati e ammantellati. giuseppe verdi, antonio somma, un ballo in maschera, una vendetta in domino, gustavo III

E si seccano un tantino di trovare soltanto Renato invece del Conte, ma decidono di rifarsi con la bella signora velata – cominciando col capire chi sia. Renato, solo contro un coro intero ma coraggioso, sguaina la spada e si appresta a… well, a farsi fare a striscioline, in realtà. Ed è allora che Amelia si mette di mezzo strappandosi il velo.

Sensazione!

Tom&Samuel e compagnia si abbandonano a un musicalissimo convulso di risa – credendo, si sottintende, che questi due, sposati e provvisti di casa confortevole, se ne vadano a fare kinky sex nei prati desolati di notte – ma Renato… ah, povero ragazzo. Mentre tutti attorno sghignazzano e cachinnano (con l’eccezione di Amelia che si torce le mani – ma per se stessa e non per il marito), può solo contemplare tragicamente i cocci del suo mondo, perché non c’è altra possibile spiegazione alle circostanze: l’adorata moglie e l’amatissimo amico (per cui era disposto a farsi uccidere) l’hanno tradito. Talk of broken hearts! E i risultati si vedono subito, quando Renato dà appuntamento a Samuel&Tom per l’indomani. Una sfida a duello? si domandano non incomprensibilmente i due – che, tra l’altro, hanno l’impressione di essersi appena autodenunciati come aspiranti conticidi… Ma no, Renato ha ben altro in mente, come vedremo ben presto.

Atto Terzo

L’indomani, nello studio di Renato – dominato, badate bene, da un ritratto a figura intera di Riccardo. Ci credete se vi dico che Amelia ha il coraggio di negare? E se è vero che tecnicamente può sostenere di non avere macchiato l’onore del marito, poi si lascia un po’ prendere la mano e le pare bello protestare così:

Sallo Iddio, che nel mio petto
Mai non arse indegno affetto.

Al che, per quanto mi riguarda, e considerando che l’abbiamo sentita tutti ululare il suo amore per Riccardo, perde ogni diritto a qualsiasi considerazione e simpatia. Cosicché, chiamatemi dura di cuore, ma davvero non riesco a commuovermi quando supplica Renato di non ucciderla, o almeno di lasciarle rivedere il figlio un’ultima volta…

Semmai mi commuovo quando Renato glielo concede e, rimasto solo, si rivela ancora innamorato di lei e riluttante a ucciderla – e molto più disposto a biasimare Riccardo – ma si sa che io sono di parte.

giuseppe verdi, antonio somma, un ballo in maschera, una vendetta in domino, gustavo IIIAd ogni modo, arrivano Tom&Samuel, più che un po’ preoccupati. Tutto s’aspettano, fuorché di sentirsi offrire la collaborazione di Renato per far fuori Riccardo. E a dire il vero, e non del tutto incomprensibilmente, non è che credano del tutto a questa inversione a U. Ci vuole che Renato dia loro in ostaggio il figlio perché si convincano. E adesso il problema è che tutti e tre vogliono vibrare di persona la coltellata fatale… Mezzo istante prima che la faccenda degeneri in una baruffa indecorosa, decidono di tirare a sorte – e per la I Legge dell’Opportunità Teatrale, chi ti arriva se non Amelia, ad annunciare Oscar*** con un messaggio del Conte? Renato costringe la moglie ad estrarre un nome da un urna – cosa che Amelia fa con i peggiori e più funesti presagi. E naturalmente estrae il nome di suo marito. E poi arriva il paggio Oscar, cinguettando di inviti dal ballo in maschera. E allora Amelia esita, e Renato invece accetta. E Amelia fa due più due, e si domanda come salvare Riccardo senza tradire Renato. E intanto i tre cospiratori, in base alla I Legge della Stupidità Operistica, si accordano per vestirsi tutti e tre dello stesso colore… ottimo per riconoscersi tra tutte le maschere, ma potenzialmente quando uno dei tre avrà agito e sarà il caso di sparire con discrezione, don’t you think? Ma d’altra parte, è una cosa che i congiurati all’opera fanno spesso – come abbiamo visto l’altra settimana nei Vespri.

Ma fa nulla. Badate solo di non vestirvi in domino azzurro e sciarpa vermiglia, perché ci andiamo anche noi, al ballo – e non vorremmo essere scambiati per cospiratori. Per il momento troviamo solo il padrone di casa, che sta firmando ordini per risolvere i suoi guai  rimandando Renato in Inghilterra con Amelia. Esita, sì, e gli brucia da matti, ma che altro può fare di vagamente onorevole per liberarsi dalle tentazioni? È occupato a dirsi che, se non altro, al ballo rivedrà Amelia un’ultima volta – quando Oscar gli porta un messaggio anonimo in cui si annuncia l’attentato senza svelare i nomi degli attentatori. Ma volete mai che Riccardo sia prudente per una volta? Non vuole che qualcuno debba crederlo timoroso, e poi c’è da rivedere Amelia… tutti al ballo! giuseppe verdi, antonio somma, un ballo in maschera, una vendetta in domino, gustavo III

Il ballo comincia, e sappiate che tutto spira magnificenza e ilarità.

O forse non proprio tutta questa ilarità, dopo tutto: Tom&Samuel sono nervosetti anzichenò, e Renato – sia che sappia delle iniziative di Amelia, sia che, da quel bravo ragazzo che è, cominci a nutrire qualche dubbio – si dice convinto che il Conte non verrà. Però poi compare Oscar, a dirgli che invece il Conte c’è, e a rivelargli, dopo qualche insistenza, com’è mascherato.

Ma lo troviamo prima noi – e anche Amelia che, visto il fallimento del messaggio anonimo, ci riprova di persona, nascosta dietro una maschera. Naturalmente Riccardo la riconosce prima di subito, e le rivela la decisione di rimandarla in Inghilterra, e si fa ripetere un’altra volta che lai lo ama – e proprio così, impegnati a scambiarsi teneri addii li soprende Renato. Potete biasimarlo se estrae il pugnale e agisce?

giuseppe verdi, antonio somma, un ballo in maschera, una vendetta in domino, gustavo IIIIo non molto – ma gli allegri bostoniani mascherati sì. Non sono più affatto allegri mentre cercano di linciarlo, fermati soltanto dall’ordine di Riccardo che, ferito a morte, impiega l’ultimo respiro per graziare Renato, garantirgli che tra lui e Amelia era tutto platonico e dargli l’ordine che lo rispedisce in Inghilterra.

Renato si torce le mani in rimorso.

Tom&Samuel non credono alla loro fortuna.

Oscar si dispera.

Amelia comincia a dubitare di avere qualche responsabilità in tutto questo.

Riccardo muore invocando la diletta America.

Tutti inorridiscono.

Il sipario cala.

E dite quel che volete: assassino o no, a me continua a dispiacere più che altro per Renato.

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* E, date le circostanze, non si vede troppo perché debba stupirsi di trovarlo dov’è…

** Sì, un’indovina nera di nome Ulrica. Inutile dire che il nome nordico è, come vari altri, un relitto svedese/pomeraniano.

*** E tutte le volte mi chiedo: non ce l’hanno un servitore di qualche tipo che apra la porta e conduca gli ospiti invece della padrona di casa?

Ott 14, 2013 - Anno Verdiano    2 Comments

Librettitudini Verdiane: Simon Boccanegra

giuseppe verdi, simon boccanegra, francesco maria piave, arrigo boitoTra il 1855 e il 1856 Verdi mette all’opera Piave (povero Piave!) su un altro dramma di Antonio Garcìa Gutierrez, lo stesso del Trovatore.

E Piave (povero Piave!) produce, ma Verdi non è soddisfatto e fa aggiustare il libretto sottobanco da Montanelli – e poi, decenni più tardi, da Boito.

Per cui, se vogliamo vedere, non è che questo Simone nasca proprio sotto i migliori auspici… Storia molto cupa, a parte tutto. Vogliamo vedere?

Prologo

Siamo a Genova di notte, e il filatore d’oro Paolo Albiati intriga. Non sarà l’unica volta che glielo vediamo fare: ce l’ha coi patrizi, e intende veder Doge il prode corsaro Simone Boccanegra, commoner e flagello dei pirati barbareschi.

E se Simone ha dei dubbi, Paolo impiega cinque versi della lunghezza media di tre parole ciascuno per convincerlo che, una volta Doge, nessuno potrà più negargli la mano dell’amata Maria de’ Fieschi, che i suoi tengono chiusa in casa per aver dato troppa confidenza al baldo popolano…

Ci vuol poco a convincere il coro che: a) Simone è l’uomo che ci vuole; b) i Fieschi sono torturatori di fanciulle; c) i Fieschi sono in combutta col demonio – e il coro convinto si disperde per andare a gridare il nome di Boccanegra nelle strade e nei carrugi.

A scena vuota, arriva Fiesco père, ad annunciarci che la povera Maria è passata a miglior vita – e figurarsi quando arriva Simone, gongolando del fatto che sta per diventare Doge. Ed ecco, fossi un Genovese forse mi perprlimerebbe un nonnulla il modo in cui a costui il dogato interessa soltanto per maritare la povera Maria – ma immagino che faccia nulla.

Badiamo piuttosto al duetto-scontro tra Simone e Fiesco. Simone supplica perdono; Fiesco nega; Simone supplica; Fiesco nega; Simone supplica; Fiesco propone uno scambio: dammi la figlioletta illegittima che la povera Maria ti ha dato, e io ti perdono. Perché sì – c’è anche una figlioletta illegittima, ma Simone non è in grado di darla ad alcunchì, perchè rubella sorte lei rapì. Ovvero, se l’è persa.

Al che Fiesco se ne va ribadendo i suoi propositi di odio eterno, e trascurando di avvisare il mancato genero della sorte della povera Maria. Simone entra nel palazzo buio, costata da sé ed esce sconvolto, proprio mentre Paolo e il coro arrivano ad acclamarlo Doge. Sipario.

Atto Primogiuseppe verdi, simon boccanegra, francesco maria piave, arrigo boito

Fast Forward venticinque anni. Nel giardino con vista mare dei nobili Grimaldi – fuori Genova – la bella Amelia se la canta da sola, giusto per informarci che è un’orfana* adottata bene, e che il suo corteggiatore patrizio non le dispiace per nulla.

E guarda caso, eccolo qui: Gabriele Adorno che, per lo sconforto di Amelia, cospira con il suo padre adottivo, Andrea Grimaldi, contro il tiranno Boccanegra.

E siccome, guarda caso, anche lui è qui – o quanto meno chiede un colloquio per negoziare le nozze di Amelia con Paolo Albiati (promosso da filatore d’oro a cortigiano), la nostra ragazza spedisce Gabriele ad organizzare un fulmineo matrimonio con la collaborazione di Andrea.

Amelia esce e, molto a proposito, entra il vecchio Andrea Grimaldi. Avete già indovinato chi è? Nel prologo lo conoscevamo come Fiesco e, alle frettolose spiegazioni di Gabriele, risponde con il piccolo dettaglio che Amelia non è una Grimaldi genuina, ma un’orfanella adottata eccetera eccetera. Gabriele accusa il colpo per meno di un istante – ma poi l’amore è più forte del pedigree, e il vecchio Fiesco Grimaldi benedice le nozze ed entrambi escono, sgombrando il campo per il Doge Simone.

Torna Amelia per una buona chiacchierata. E il supposto tiranno comincia bene, perdonando i fratelli di Amelia – ribelli ed esuli. Al che, la nostra fanciulla procede a raccontargli che è innamorata ma che un malvagio cortigiano la concupisce, e che non è una Grimaldi, ma un’orfanella adottata eccetera eccetera… Avete già indovinato di chi si tratta? Baritono e soprano sono un po’ più lenti di noi. Sarà che lo fanno in versi, ma insomma confrontano miniature, e richiamano nomi, posti, e ricordi, e alla fine sono molto più sorpresi di quanto lo siamo noi nello scoprire che Amelia Grimaldi è in realtà Maria Boccanegra.

Celestiale felicità per entrambi, e ad Amelia – da orfanella a first daughter in un passo solo – non sembra passare per il capino che adesso avrà qualche difficoltà in più a convolare con il suo Gabriele.

Chi non è contento è Paolo, cui il Doge poteva essere disposto a dare in sposa la figlia dei Grimaldi – ma non certo la sua. E che può fare un povero villain in un caso simile? Ma è ovvio, signori: architettare un rapimento.

giuseppe verdi, simon boccanegra, francesco maria piave, arrigo boitoMa non ora. O quanto meno non in scena – perché noi ci trasferiamo a Palazzo degli Abati, nella Sala del Consiglio, dove** Simone si dichiara toccato dalla lettera con cui nessun altri che Petrarca lo supplica di non gettare Genova nell’ennesima guerra fratricida con Venezia. Sennonché non sono in molti a considerare che ci sia alcunché di fratricida nel suonarle ai Veneziani…

Non so come andrebbe a finire se non arrivassero i rumori di una sommossa. È quella di Andrea Grimaldi e Gabriele: patrizi contro popolani, popolani contro patrizi e tutti contro il Doge. I consiglieri cominciano a darsi addosso e a cedere al panico più scomposto, ma Simone è fatto d’altra pasta. Fa aprire le porte e manda un araldo ad informare i facinorosi che li aspetta e non ha paura.

E noi saremmo tentati di domandarci com’è che Paolo ha quest’aria così colpevole – ma non c’è tempo. Si sente la folla acclamare in distanza, e poi la si vede irrompere al grido di “viva il Doge”, e trascinando con intenzioni non del tutto benevole Gabriele e Grimaldi.

E Gabriele ci informa tutti di avere avviato la sommossa solo perché un uomo del partito popolare ha rapito Amelia. Su ordine del Doge, lui ritiene – ma noi sappiamo che non è vero. Simone, non del tutto incomprensibilmente, non prende bene l’accusa. Una volta di più, chissà che succederebbe se non fosse per un altro colpo di scena.

Proprio mentre Gabriele va per pugnalare Simone, Amelia irrompe, si mette in mezzo, supplica Gabriele di desistere e Simone di perdonare. Simone, Doge di pastafrolla, cede prima di subito – ma vuol sapre com’è stata rapita la ragazza.

E chi di noi, richiesta di spiegazioni, non comincerebbe così?

Nell’ora soave che all’estasi invita
Soletta men givo sul lido del mar.

Ad ogni modo, rapita, fuggita, tornata – e sa chi è stato. Simone capisce perfettamente, e dopo avere amministrato una ramanzina a patrizi&plebei capaci solo di sospettarsi a vicenda, e dopo avere stretto una tregua di fatto con Gabriele, costringe Paolo a maledirsi da sé, cosa che sconvolge nel profondo l’anima medievale del malvagio. E sipario.

Atto Secondo

Di nuovo, Paolo non è contento. Guardatelo mentre a notte fonda, nelle stanze del Doge, gli versa il veleno nell’acqua e, giusto per non lasciar nulla al caso, si fa condurre i prigionieri Fiesco/Grimaldi e Adorno per proporre loro di assassinare Simone. Fiesco rifiuta con sdegno ed è rispedito in cella – ma Gabriele è un tenore, povero ragazzo, ed è facile da manipolare. Quando Paolo gli dice che Amelia è col Doge – e lo dice con le peggiori implicazioni possibili – il candido giovanotto si scopre un’improvvisa propensione al dogicidio.

Ed è lì che cerca di convincersi da sé quando arriva Amelia. Cioè, Maria – ma lui non lo sa ancora. E Amelia/Maria non solo non ha affatto l’aria prigioniera ed afflitta, ma ammette senza remore che il Doge l’ama e lei lo ricambia, ma si rifiuta di spiegarsi meglio. Perché? Per nessun buon motivo apparente, se non perché così, quando Simone arriva e lei nasconde Gabriele sul balcone, lui può decidere definitivamente di passare alle truci vie di fatto.

Padre e figlia parlano, lei confessa il nome del suo innamorato, Simone inorridisce, Maria supplica, Simone la manda via mentre ci pensa… Ah quanti problemi ha un Doge. E tanti problemi mettono sete, you know.

M’ardono le fauci,

c’informa memorabilmente Simone, e… giuseppe verdi, simon boccanegra, francesco maria piave, arrigo boito

No, no, non farlo! Non bere! si sente gridare dal loggione – ma non c’è nulla da fare: le ferree leggi della narrativa lo impongono, e Simone beve acqua e veleno. E gli pare amarognola, ma nemmeno per un istante dubita che non siano i dispiaceri a fargli il palato cattivo.

E poi, confortato dall’abominevole gusto della figliola in fatto di uomini, si addormenta.

E di tra le tende compare armato Gabriele che, in obbedienza alla Legge della Sordità Operistica, non ha udito nulla e, pur sentendo qualche inesplicabile remora, è pronto al tirannicidio. Ma… indovinate un po’? Amelia/Maria si mette in mezzo. Again. E Gabriele s’indigna, again. E Simone si sveglia e fa la voce grossa, e Gabriele spavaldeggia, e Maria supplica e non parla. Ma stavolta ci pensa Simone, e l’effetto è istantaneo: Gabriele si ravvede, capisce che è stato usato, chiede perdono… e Simone sta per cedere quando…

Sì, questo libretto funziona così. Ogni volta che sta per succedere qualcosa, arriva un ‘interruzione – e non sempre si tratta di un’interruzione di natura unica. Stavolta, per esempio, è il ritorno dei facinorosi guelfi che vengono per assassinare il Doge, again. Ma, come succede in questi casi, il ravveduto Gabriele si schiera con Simone, per la gioia di Amelia/Maria – cui, come al solito, sembra sfuggire qualche piccolo particolare, tipo il fatto che i Guelfi armati sono ancora alla porta al calare del… sipario!

Atto Terzo

Ma tutto sommato si vede che Amelia/Maria non aveva tutti i torti: Guelfi sconfitti, Genova illuminata a festa, clemenza dogale, Fiesco liberato, Paolo condannato a morte…

Ma mentre lo portano via, non si trattiene dal vantarsi con Fiesco di avere rapito Amelia e avvelenato Simone. E sapete una cosa? A Fiesco dispiace quasi. Lo odia, sì – ma morire di veleno e di tradimento… Tanto più che è proprio una brava persona: ha persino ordinato di spegnere le luminarie e moderare i festeggiamenti per riguardo ai morti.

Un festeggiamento che non si modera, a giudicare dai gorgheggi del coro, è il matrimonio tra il guelfo Adorno e la figlia del Doge – ma questo è uno di quei matrimoni che suggellano le paci.

E quando arriva il Doge – che non si sente affatto bene – Fiesco lo avvisa in termini tra il truce e il profetico, e solo allora Simone (che, lo abbiamo visto, pur essendo un baritono è un po’ lento a fare due più due) lo riconosce per Fiesco. Ma d’altra parte, questi due fanno il paio, perché quando Simone gli annuncia di avere la nipote da restituirgli, è Fiesco a cadere dalle nuvole. E guarda un po’, dopo venticinque anni Simone è ancora in cerca di perdono, e la Mariolina perduta è ritrovata***… Anche Fieso si scioglie, pentito e stanco e pieno di rimorso. Troppo tardi per tutto, spiega – e finalmente rivela l’arcano in termini comprensibili.

All’arrivo di Maria con Gabriele e il coro, Simone supplica Fiesco di non dire ancora nulla. C’è ancora tempo per un’altra agnizione ancora, mentre Fiesco/Grimaldi e Maria/Amelia si scoprono nonno e nipote, e tutti sarebbero molto felici se non fosse che Simone vacilla e impallidisce, e comincia a distribuire lugubri consigli e benedizioni…

Orrore e sconforto generali. Persino Fiesco è commosso. Simone fa ancora in tempo a indicare il suo successore in Gabriele, e poi muore tra le lacrime generali. Tocca a Fiesco di proclamare il nuovo Doge a una non proprio entusiasta Genova – e poi cala il sipario.

Cupo, pessimistico, pieno di clichés e di situazioni ripetute… Non un granché, vero?

Non fu un successo. Il debutto di Venezia nel marzo del ’57 fu proprio un fiasco. Ci sarebbero voluti vent’anni, Arrigo Boito e una seria revisione musicale perché il giudizio del pubblico cambiasse – ma non poi di troppo. E ancora oggi, questo povero Simone rimane, tra le opere della maturità verdiana, quella in penombra.

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* E noi ci domanderemmo chi sia quest’orfana misteriosa, se non sapessimo che all’opera non esistono coincidenze…

** Scena interamente rifatta da Boito.

*** Sì, lo so, era ritrovata anche prima – solo che nessuno lo sapeva.

Ott 7, 2013 - Anno Verdiano    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: I Vespri Siciliani (Parte II)

Librettitudini Verdiane: I Vespri Siciliani (Parte II)

giuseppe verdi, vespri siciliani, eugène scribeRieccoci qui – appena in tempo per il levarsi del sipario sul…

Terzo Atto

E cominciamo con Monforte che, nel suo palazzo, si tormenta sulla crudeltà di una defunta amante recalcitrante, che per tre lustri gli ha nascosto di avere avuto da lui un figlio – salvo farglielo sapere (per iscritto) prima di morire.

Che dobbiamo dedurne? Che Arrigo ha quindici anni*? Che Monforte sapeva di avere un figlio illegittimo, ma poi se n’è scordato? O che quando il frugoletto aveva, diciamo, tra i tre e i dieci anni, la madre l’ha dato per morto? Vi dirò, son quei misteri che ciascuno si risolve a piacimento, mentre Monforte c’informa che adesso sì che la sua vita ha un senso, e che riconquisterà il figlio alienato, eccetera eccetera.

Anyway, Arrigo viene condotto in scena, perplesso e più petulante che battagliero**, e Monforte gli fa gl’indovinelli. Ma Arrigo non si è chiesto perché Monforte sia così indulgente nei suoi confronti? Non gli dice nulla l’alma? Che cosa crede che possa far lacrimare un cuore di pietra come Monforte?

E Arrigo rabbrividisce aside, ma non ci arriva. Bisogna che Monforte gli mostri la lettera della defunta madre, scatenando quest’epica reazione:

Gioia! e fia vero? sogno o son desto?
(Leggendo il foglio.)
Cifre materne!… qui sul mio cor!

O ciel! che scopro?… arcan funesto
(gettando un grido)
Mi si rivela… fremo d’orror!

E perché freme d’orror? Perché il detestato comandante angioino è sangue del suo sangue? Acqua. Perché ha giurato di uccidere quello che non sapeva essere suo padre? Acqua. Perché si ritrova assai meno siciliano di quanto credesse? Ma nemmeno per idea! Il principale, il solo problema per Arrigo è che Elena potrà soltanto odiare il figlio di Monforte.

Cosicché, quando poi respinge con sdegno le profferte d’affetto di Monforte, noi non è che prendiamo poi troppo sul serio la sua fierezza, o le lacrime sulle molte sofferenze della madre. Semmai troviamo che Monforte dia prova di una notevole tolleranza (o appiccicosità – la cosa è aperta a interpretazioni) di fronte agli insulti e alle tirate di Arrigo, che comunque poi se ne fugge sconvolto e inorridito – e tanto più perché, per un istante, ha avuto la tentazione di far pace con il babbo ritrovato.giuseppe verdi, eugène scribe, vespri siciliani

Oh well, spostiamoci in un’altra ala del palazzo, dove è in corso la famosa festa da ballo – quella cui Arrigo era stato “invitato”. Oh, guardate: è arrivato anche Monforte. Infelice e corrucciato quanto volete, ma non per questo si sottrae al balletto delle Stagioni, questo indispensabile accessorio da Grande Opéra. E d’altra parte, Monforte è francese, giusto? Oh, never mind. Mentre Arrigo vaga senza meta per la scena, gli si avvicinano due misteriosi festaioli mascherati. Festaioli un po’ lugubri, a dire il vero… E a dire il vero, chi altri userebbe mantelli neri e parole d’ordine e nastri di riconoscimento a una festa da ballo, se non dei cospiratori***? E difatti si tratta di Elena e Procida, venuti di persona a liberare Arrigo e, già che ci sono, uccidere Monforte. E volete una sorpresa? Arrigo ha delle remore. Così è timido e tremebondo e criptico con i suoi amici, e poi sussurra a Monforte di tagliare l’angolo fin che può… E allora Monforte esulta di questa parvenza d’affetto filiale, e chiede i nomi dei congiurati, e Arrigo rifiuta, e allora Monforte rifiuta di andarsene, e mentre bisticciano Elena e Procida si fanno avanti, pugnali alla mano e seguaci alle spalle.

Ma, come ognun sa, uomo avvisato è mezzo salvato, e Monforte fa il resto chiamandosi attorno i suoi armigeri, e quando Elena si fa avanti per vendicare di persona il fratello…**** ecco che Arrigo si mette di mezzo e fa scudo al padre.*****

Sensazione.

Tanto più che l’illeso Monforte ordina ai suoi di arrestare tutti quelli che portano il nastro di riconoscimento che Arrigo gli ha indicato, e ringrazia il leale nemico che gli ha svelato il tradimento.

Doppia sensazione.

Colpo orrendo, inaspettato!
Ei sì perfido, sì ingrato!
Gli sia pena il suo rossor!
Onta al vile, al traditor!

lamentano Elena, Procida e i Siciliani tutti. Arrigo si torce le mani, i Francesi gongolano, i neo-prigionieri la buttano sul patriottico, Arrigo supplica perdono, Elena e compagnia lo respingono con orrore e, quando tutti vengono portati via, il nostro giovanotto oppresso, annichilito, vacilla e cade nelle braccia di Monforte. Ed essendosi manifestato lo svenimento standard, possiamo calare il sipario e passare oltre.

Atto Quarto

giuseppe verdi, eugène scribe, vespri sicilianiCome ci si poteva aspettare, Arrigo è macerato dai sensi di colpa e va a visitare i suoi ex-amici in prigione. Elena arriva, e non è contenta. Arrigo tenta di spiegarle, cosa che richiede qualche sforzo, perché lei non ascolta. Quando finalmente Arrigo riesce a far passare il concetto, i nostri due danno in amorose escandescenze, si perdonano a vicenda, si giurano eterno amore – e odio a Monforte, che adesso Arrigo ha ripagato della vita che gli ha datto – e poi si congedano con affettuosa commozione. Ma aspettate, ecco arrivare Procida che, avendo buoni agganci, è riuscito a sapere che una nave aragonese arriva in soccorso – e loro non ci possono fare niente… Mentre si mangia le mani, Procida vede Arrigo. Che ci fa qui? Si pente, cinguetta Elena – e quando Procida la invita a svegliarsi un po’, la sua bruschezza sembra avvalorata dall’arrivo di Monforte con i suoi, pronti a passare a fil di spada i ribelli. E Arrigo supplica la grazia, e Procida la rifiuta sdegnosamente – e ancora non sa che Arrigo è figlio…

Da lor tanto oltraggio a te spettava,
Arrigo!… a te mio sangue!…

declama Monforte, con perfetto tempismo. Ecco, adesso Procida lo sa. E dà in ismanie, e Elena dà in ismanie un poco più gentili, e Arrigo dà in ismanie – e Monforte dà l’ordine di procedere. Quando Arrigo chiede di morire con Elena se non può ottenerle la grazia, Monforte coglie il destro per un po’ di sano ricatto. Vuole Arrigo che Elena, Procida e il coro siano risparmiati? Nulla di più facile: padre lo chiami, e salvi son.

Elena gli ordina di non farlo, se vuole che qualcuno creda almeno un po’ al suo pentimento. Arrigo esita e si mangia le unghie. Procida mugugna. Monforte alza la posta facendo entrare il carnefice… e indovinate un po’? Arrigo cede. Non l’avreste mai sospettato, vero?

O gioia! e fia pur vero?

giubila Monforte. E perbacco, sì: niente come una scure sospesa sul collo della fidanzata per risvegliare l’amor filiale… Ma Monforte è contento lo stesso. Tanto che non solo grazia tutti quelli che ha promesso di graziare, ma decreta seduta stante il matrimonio tra Arrigo ed Elena – che nutre qualche fugace remora a diventare la nuora del tiranno, ma Procida la incita a procedere e avere fiducia nella vendetta. Possiamo sposarci domani, babbo? chiede l’istantaneamente conquistato Arrigo.****** Ma oggi stesso! replica Monforte, in un impeto di benevolenza, mentre al carnefice si sostituiscono i coppieri e tutti, Angioini e Siciliani, brindano al futuro. Ed è uno di quei momenti in cui tutti cantano insieme, per cui forse Monforte e i suoi sono scusabili se non afferrano le truci minacce nel brindisi degli isolani? Ma questa è l’opera, o Lettori – e comunque sta calando il sipario.

Atto Quintogiuseppe verdi, eugène scribe, vespri siciliani

Ci spostiamo nei giardini del palazzo, dove il coro gorgheggia il suo entusiasmo per le nozze pacificatrici, ed Elena riceve omaggi di fiorellini dalle fanciulle – e da come si effonde sull’amor suo, non possiamo fare a meno di chiedercelo: possibile che abbia frainteso i livorosi sussurri di Procida all’atto quarto? E si direbbe di sì. Persino con Arrigo è tenera e gioiosa come se nessuna rivolta incombesse… Tant’è vero che, quando Arrigo si allontana e Procida arriva ad annunciarle angioinicidio diffuso e massacro indifferenziato al segnale del suo “sì” nuziale, lei spalanca gli occhioni e domanda a nessuno in particolare qual mai fato incomba su di lor.

Procida, uomo di scarsa pazienza, procede ad informare la nostra graziosa storditella che è tutto molto semplice: o lei tace e lascia che le cose seguano il loro sanguinoso corso, o è una traditrice di patria, amici e invendicato cenere fraterno.

Ops.

Questa volta, Elena afferra la natura del dilemma. Deve lasciar trucidare Arrigo? Deve tradire i suoi amici? O ciel, chi la consiglia? È, se ci badate, lo stesso dilemma di Arrigo all’atto terzo. Ma Elena è una donna. Quando Arrigo torna (così entusiasta del regal vessillo di Francia che non sembra nemmeno lui), si accorge che qualcosa non va e pur con il lugubre Procida che le borbotta accanto, la nostra ragazza ha un’illuminazione che salva capra e cavoli. Certo, Arrigo ci resta male nel sentirsi dire che dopo attenta considerazione Elena ha deciso di non poterlo sposare – ma almeno è vivo. Vivo e furibondo, visto che, di conserva con Procida, si getta con entusiasmo in quello sport tenorile – l’immeritata maledizione del soprano. La povera Elena, che fin qui tecnicamente non ha tradito nessuno, non ha l’aria di chi può tenere duro indefinitamente.

giuseppe verdi, eugène scribe, vespri sicilianiArrigo, da buon adolescente, corre a farsi consolare dal babbo e Monforte, sempre sbrigativo, non trova di meglio che affrettare le nozze. Poco importa che Elena resista – e qui si dimostra che non bisognerebbe mai forzare una donna a sposarsi contro la sua volontà. Considerazioni morali a parte, è chiaro che non porta bene: nel momento in cui il bronzo squilla annunciando l’avvenuta unione, Procida ed i Siciliani si scagliano su Monforte e sui Francesi, e cala la tela – ma non prima che Elena sia debitamente svenuta.

Fine. E se volete, qualche dubbio resta – per esempio, che ne è di Arrigo? Ora, dovete sapere che nel dramma di Casimir Delavigne a cui (benché se ne parli pochino) il libretto è ispirato, Lorédan, omologo di Arrigo, si uccide… sì, è vero, si uccide per il rimorso di avere ucciso Monfort… che comunque non è suo padre, ma il suo amico e fratello d’armi, nonché cavalleresco rivale per le attenzioni di una principessa sveva. E d’altra parte il padre di Lorédan è l’inflessibile Procida… giuseppe verdi, eugène scribe, vespri siciliani

Sì, d’accordo, non ci somiglia poi troppo. Però resta il fatto che il primo amoroso fa una pessima fine – cosa che si rispecchia in più d’una regia moderna, in cui Arrigo fa la stessa fine di Monforte. E in genere la fa in qualche tipo di uniforme risorgimentale, perché è pratica comune spostare il tutto all’Ottocento, provvedere gli Angioini di uniformi e bianchi mantelli asburgici e fare di Procida ed Elena due ardenti carbonari.

All’epoca, tuttavia, figurarsi! L’opera debuttò in Francia, ed ebbe successo, e tutto andò abbastanza bene. Quando arrivò in Italia, fu necessario provvedere libretti alternativi: una Giovanna di Guzman, una Batilde di Turenna… insomma, tutto sommato bastava spostare l’ambientazione dovunque fuorché in Italia, e in un secolo passato a piacere… non sono certissima che i censori ottocenteschi considerassero bene i tagli che imponevano e i placet che concedevano.

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* Yes well, nel primo atto è stato chiamato da Monforte “giovinetto” o qualcosa del genere – ma io ho quest’immagine di Chris Merrit che canta il ruolo attorno al 1990, e allora…

** E sì, dopo tutto forse ha davvero quindici anni.

*** Rivedremo tutto l’armamentario – nastri, maschere, parole d’ordine e compagnia cospirante. Lo rivedremo presto – e allora avremo un vago senso di déjà vu.

**** Questi puntini di sospensione altro scopo non hanno se non quello di preparare un colpo di scena particolarmente tosto.

***** E qui, nell’originario Duca d’Alba, l’Arrigo fiammingo a nome Marcello si mette parimenti di mezzo per salvare il terribile babbo eponimo, ma Amelia d’Egmont, l’omologa fiamminga di Elena, è un soprano ancor più tosto e dal polso più saldo, e l’incauto Marcello ci lascia le penne.

****** E a questo punto non ci sono più dubbi, credo: ha davvero quindici anni.

Set 30, 2013 - Anno Verdiano    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: I Vespri Siciliani (Parte Prima)

Librettitudini Verdiane: I Vespri Siciliani (Parte Prima)

E già dal titolo capiamo che questa faccenda non fu scritta per l’Italia – almeno in origine. Una storia di Siciliani che insorgono contro gli oppressori stranieri e gliele suonano? Ma figuriamoci.

anno verdiano, les vêpres siciliennes, eugène scribeSemmai, la cosa strana è che l’opera nacque francese per l’Opéra di Parigi, e gli oppressori in questione sono… be’, Francesi. Bizzarro, vero? E in realtà Verdi stesso aveva i suoi dubbi, perché gli pareva che tutti ne uscissero male – i Francesi tonfati e gli Italiani cospiratori col coltello tra i denti – e chiese al librettista Eugène Scribe di eliminare quanto meno tutto quel che offendeva l’Italia…

Ma in realtà a Scribe non è che interessasse molto. Figuratevi che – e questo Verdi non lo sapeva né l’avrebbe saputo fino a molti anni più tardi – era persino un libretto riciclato. C’era questo Le Duc d’Albe, vicendona ispano-fiamminga che, se fosse stata un film Anni Sessanta, si sarebbe chiamata La Figlia di Egmont. Era una classica faccenda di amore, agnizioni, vendetta e morte (preterintenzionale), scritta per Donizetti, che però la cominciò e piantò lì. Ma perché mai buttar via un libretto già pronto? Quando una quindicina di anni più tardi Verdi si presentò a chiedere qualcosa di grandioso, appassionato e originale, Scribe riciclò Albe in Monfort, e le Fiandre spagnole nella Sicilia del tardo Duecento.

Vogliamo vedere? Vediamo.

Atto Primo.

Si comincia in piazza a Palermo, con gli Angioini che gongolano nonostante la anno verdiano, les vêpres siciliennes, eugène scribenostalgia di casa, inneggiano al loro amato comandante Guido di Monforte e alla bellezza delle pur riottose Siciliane… Ma chi è la bella dama in nero che attraversa la scena velata e triste? È la duchessa Elena, in lutto per il fratello, quel duca Federico d’Austria che Monforte ha fatto decollare come traditore.

Ed Elena, soprano della varietà più tosta, cova vendetta. L’arrogante Francese ubriaco che, tanto per fare il gradasso, le impone di cantare, non sa che cosa lo aspetta. Elena canta. Canta di mare, dapprincipio, e di tempesta, e della forza di chi sfida destino e catastrofe…

E può darsi che ai Francesi alticci sfugga il sottotesto, ma i Siciliani sono un’altra faccenda. Pugnali alla mano, la folla è sul punto di sollevarsi in quello che ha tutta l’aria di dover essere un bagno di sangue quando compare un uomo. Solo e senza guardie, si affretta a spiegare Scribe.

Sensazione.

anno verdiano, les vêpres siciliennes, eugène scribeA uno sguardo del nuovo arrivato, la folla si disperde, e persino Elena rimane un po’ scossa: il disperditore di folle è Monforte – Guido di Monforte, e quando arriva lui non ce n’è più per nessuno.

A meno, ovviamente, di essere tenori. Perché chi ti caracolla in scena proprio adesso – e senza accorgersi di Monforte? Ma il nostro Primo Amoroso: Arrigo, giovane siciliano. Voglio dire: tutto un bellicosissimo e furibondo coro si è liquefatto sotto lo sguardo di Monforte – e Arrigo manco si accorge che è lì?

Peggio: Arrigo, che dovrebbe essere prigioniero e invece non lo è, si vanta con Elena di come i giudici lo abbiano lasciato andare – per pura e semplice giustizia, combinata alla debolezza dei Francesi, e di Monforte in particolare…

Monforte si è avvicinato e sente tutto, e invano Elena tenta di zittire il giovanotto…

E perché? – così il recasse
Innanzi a me fortuna
E a mia vendetta!

strepita Arrigo, senza sapere che fortuna l’ha preso assai sul serio. Elena parrebbe giustificata nell’aspettarsi che vada a finir male, ma si vede che oggi Monforte è d’umor clemente. Non solo prende con sense of humour la tenorile spavalderia di Arrigo ma, dopo avere congedato (un nonnulla bruscamente) Elena, lo tiene lì a far conversazione.anno verdiano, les vêpres siciliennes, eugène scribe

E così scopriamo che Arrigo non ha cognome, essendo figlio di padre ignoto*, non ha più madre, ed era devoto scudiero o giù di lì del defunto fratello di Elena. Per cui, se adesso Monforte lo vuol decapitare come ha fatto con il suo signore e capitano, si accomodi pure. E nemmeno adesso Monforte esce dai gangheri. Anzi: il ragazzo gli piace, ne ammira la temerarietà e gli offre un posto nelle sue schiere. Cosa che naturalmente Arrigo rifiuta con patriottico sdegno – e a Monforte piace anche questo, così lo lascia andare con consiglio omaggio: si guardi bene dal fare la corte ad Elena. Perché? vuol sapere il perplesso Arrigo. Eh, son cose che non vanno a finire bene…

E figurarsi Arrigo, innamorato cotto e allergico alle proibizioni: Monforte lo proibisce? E allora lui si precipita verso il palazzo di Elena – e Monforte lo guarda andare con commozione, ma senza sdegno.

Qui gatta ci cova – e sipario ci cala.

Atto Secondo

anno verdiano, les vêpres siciliennes, eugène scribeCi siamo spostati sulla spiaggia in una ridente vallata fuori Palermo, dove approda di nascosto il nobile Giovanni da Procida, esule, basso, cospiratore e zelota della causa. Anche lui e il suo coro son pieni di propositi di vendetta – ma il fatto è, come apprendiamo quando Elena ed Arrigo arrivano a titolo di comitato di benvenuto, che degli aiuti che sperava di raccogliere ne ha visti pochini. Pietro d’Aragona potrebbe appoggiare una rivolta, una volta che fosse scoppiata… Già, mugugna Arrigo, peccato che la Sicilia intera dubiti e tentenni.

Ma Procida è un consumato rimestatore di torbidi: perché non indurre i Francesi a farne una grossa? Lasciamo che all’ormai prossima festa dei fidanzati insultino qualche ragazza da marito – e allora la popolazione insorgerà, e a noi servirà qualcuno che colga il destro per accoltellare Monforte… uno a caso, per dire… Arrigo! Ed essendo anche un consumato manipolatore del prossimo, Procida se ne esce di scena, lasciando Arrigo ed Elena da soli a tubare.

E i due tubano – pur con qualche paturnia di ordine sociale da parte di Arrigo, perché insomma, lui è un umile soldato figlio di NN che solo e deserto e misero su questa terra sta, e lei è una duchessa… E indovinate che cosa gli dice Elena?

Il mio fratel deh! vendica,
E tu sarai per me
Più nobile d’un re!

E di nuovo, figurarsi Arrigo.

Peccato che proprio sul più bello arrivi una pattuglia francese con un invito al ballo per Arrigo. Essì, da parte di Monforte – un invito al ballo of all things. E per di più, Monforte sapeva dove mandarlo a cercare, proprio mentre era in missione segretissima… Ma non c’è tempo per le domande: quando Arrigo rifiuta, i Francesi risolvono prontamente l’impasse arrestandolo e portandolo via, per la costernazione di Elena. E se, povera ragazza, sperava in Procida per liberare il suo moroso, sperava male, perché Procida non è nulla se non pragmatico: contavamo su di lui; non è più disponibile? Faremo senza.

Anche perché il popolo festoso è già in arrivo, insieme a un certo numero di Francesi. Si dà inizio alle danze, e Procida, in versione agent provocateur, incita i Francesi a darsi da fare con le belle fanciulle. I Francesi, probabilmente i cattivi più cretini della storia del melodramma**, se lo fanno ripetere solo un paio di volte prima di gettarsi sulle Sicilianine e portarsele via – tranne Elena, che vedono protetta, spada alla mano, dal loro “buon amico” Procida.anno verdiano, les vêpres siciliennes, eugène scribe

E ci credereste? I Siciliani oltraggiati ancora mugugnano e tentennano… Almeno finché Procida ed Elena non fanno loro notare che la Duchessa non è stata toccata perché c’era qualcuno di deciso a proteggerla. E in realtà noi sappiamo che non è proprio così – ma che volete mai? Il popolo va diretto, e in effetti si sta scaldando…

Odesi gaia musica dal fondo – e guardate un po’ che cosa passa in lontananza: una nave impavesata a festa, su cui fanno baldoria gli ufficiali francesi e le dame locali collaborazioniste, tutti diretti al palazzo del governatore per il ballo.

Ecco dove andiamo a fare strage&vendetta, incita Procida.

Er… e le ragazze rapite? Non capiterà qualcosa di brutto mentre gli uomini vanno a fare strage&vendetta altrove? Verrebbe da chiederselo, ma si vede che non è importante.

Troppo ormai – favellò – il dolor – nel lor sen! –
L’onta ria – che patir – vendicar – or convien –
Agli acciar – corron già; – poté omai – nel lor cor –
D’un lion – più fatal – ribollir – il furor.

E qui l’atto finiam e il sipario caliam.

E qui, signore e signori, ci fermiamo per un intervallo – chè l’opera è lunga, e ci sta bene un calicetto di vin bianco alla buvette. Ci rivediamo lunedì prossimo, al suono del terzo campanello.

________________________________________

* Sentite odor d’agnizione? Non avete tutti i torti.

** Si stenta quasi a credere che l’autore del libretto sia un Francese, n’est-ce pas?

Set 23, 2013 - Anno Verdiano    1 Comment

Librettitudini Verdiane: Traviata

giuseppe verdi, la traviata, alexandre dumas fils, francesco maria piaveEd eccoci qua. Quando il guareschiano Don Camillo s’infiltra nella spedizione sovietica di Peppone, che opera rappresentano i Russi a beneficio degli ospiti italiani? E quando Richard Gere introduce all’opera la Pretty Woman, che cosa la porta a vedere? E a dire il vero ho sempre pensato che questa seconda fosse una scelta un po’, you know… Non dico che il paralellismo narrativo non abbia il suo perché – ma forse, se fossi un uomo e volessi portare all’opera una graziosa prostituta in via di redenzione, non sceglierei proprio la storia di una graziosa prostituta che cerca di redimersi e ci lascia le penne…

Perché di questo si tratta – e per l’epoca era materia scandalosetta anzichenò. Ma Verdi, si sa, era ansioso di soggetti nuovi, grandi, belli, variati, arditi… e non era la prima volta che andava a cercarseli a teatro – in Francia. Durante uno dei suoi frequenti soggiorni parigini, aveva visto il discusso adattamento teatrale de La Dame aux Camélias, l’ancor più discusso romanzo di Alexandre Dumas fils – e gli era piaciuto da matti.

Tanto da metterci subito al lavoro Piave (povero Piave!), il quale consegnò rapidamente quel che Verdi voleva, da mettersi in scena alla Fenice.

E magari la storia la sappiamo tutti, ma vediamo un po’ che cosa ne aveva fatto il poeta-gatto.

Atto Primo

Allegra soirée a casa di Violetta – e fa presto a venirci il dubbio che non sia l’ambiente più comme-il-faut che si possa immaginare. Si cena, si beve, si parla di piacere, si presentano nuovi e vecchi amici, e scopriamo che il giovane provenzale Alfredo è innamorato perso della bella e disinvolta padrona di casa, che però non se lo fila nemmeno per sbaglio. giuseppe verdi, la traviata, alexandre dumas fils, francesco maria piave

Invitato a proporre un brindisi, il ragazzo si produce nella cosa verdiana più bissata di tutti i tempi – e francamente, se avete assistito anche solo a un gala lirico o due, e a qualche edizione del concerto di Capodanno della Fenice, odds are che ne abbiate fin sopra i capelli di sentirvi invitare a libar nei lieti calici…

Ma tant’è. Sbrigata rapidissimamente la cena, i nostri fanno per passare nel salone da ballo – ma… che accade? Violetta impallidisce, barcolla, deve sedersi, mormora che non è nulla, invita tutti ad avviarsi, che lei li segue subito… Tutti escono tranne Alfredo, che è rimasto per amministrarle un’affettuosa predicuzza su come gli stravizi conducano a una tomba precoce… Il dialogo che segue lo riassumiamo così:

giuseppe verdi, la traviata, alexandre dumas fils, francesco maria piaveLei – Tanto peggio. A chi importa?
Lui – A me! A me che v’amo tanto – da un anno intero e in silenzio!
Lei – Sciocchino. Siamo amici, volete?
Lui – Se non si può far di meglio…
Lei – Ecco, bravo. Andate a casa e tornate domani.
Lui – Domani? Oh, estasi!

E se ne va. E  d’altra parte se ne vanno tutti, perché non ce ne siamo accorti, ma s’è fatta mattina.

E Violetta, rimasta da sola, è tentata di confessarsi che dopo tutto il ragazzo non le è indifferente… possibile che sia questo l’Amore, quella cosa che sognava da bambina – e poi ha mancato mentre era troppo occupata a fare la cortigiana? Ma queste sono follie. Povera donna sola, abbandonata in quel popoloso deserto che chiamano Parigi, che spera or più? Che far dee lei? Gioire! Di voluttà nei vortici perire! Sempre libera dee lei folleggiar di gioia in gioia, eccetera, eccetera, e sipario.

Atto Secondo

E si vede che Violetta non diceva sul serio, perché a quanto pare i nostri colombi hanno abbandonato il popoloso deserto e vivono in rustica semplicità* da tre mesi. In rustica semplicità e nel peccato – ma questo son dettagli… o forse no? Fatto sta ed è che a frantumare l’idillio campagnuolo di Alfredo provvede la fida Annina, cameriera di Violetta, rivelando che la signora ha appena venduto carrozza e cavalli – e lo stesso è ben lungi dal pareggiare i conti.

Alfredo inorridisce nello scoprire che anche due cuori e una capanna comportano delle spese – e parte di gran carriera nell’intento di sistemare le cose.

giuseppe verdi, la traviata, alexandre dumas fils, francesco maria piaveMa mentre lui non c’è, arriva suo padre a far visita alla maliarda che gli ha corrotto il figlio – o almeno così pensa, perché i modi di Violetta non sembrano proprio quelli di una donna perduta… Né è da donna perduta il modo in cui lei sostiene di non voler accettare un franco delle ricchezze di Alfredo, e di essersi lasciata alle spalle il suo peccaminoso passato.

M. Germont è colpito, ma ancora lievemente dubbioso: se Alfredo non contribuisce al ménage, e se lei ha smesso di … er, you know, come diamine fanno a finanziarsi una rustica semplicità così lussuosa?

Violetta spiega al padre angosciato di volersi spogliare non solo di cavalli e carrozza, ma di tutti i suoi beni per amore di Alfredo. Amore, rendenzione, divin perdono, blà, blà…

Monsieur G. – Oh, che brava fanciulla siete in realtà.
Violetta – Oh, come mi fa piacere sentirvelo dire…
Monsieur G. – Sì, e ciò mi consola assai, considerando il sacrificio che vengo a chiedervi.

Capirete che questo raggela un nonnulla l’atmosfera. Perché il fatto è, vedete, che Alfredo non è figlio unico. Dio die’ a M. Germont una figlia pura siccome un angelo e gliela fece anche fidanzare bene. Solo che adesso il fidanzato non è contento di ritrovarsi per futura cognata una demi-mondaine

Violetta – Capisco. IL colpo è duro, ma l’amore mi rende nobile: chiederò ad Alfredo una pausa di riflessione, e fingeremo tutti che io non esista fino a dopo il matrimonio della sorellina. Contento?
Monsieur G. – Er… no.
Violetta – Cielo, che più cercate? Offersi assai… 

Questo Monsieur G. lo ammette, però aveva più in mente una separazione definitiva… Violetta insorge e passa al ricatto morale in rima baciata: sola al mondo, malata, senz’altro che questo amore… come potrebbe rinunciarvi?

Monsieur G. non sembra spaventosamente ricattabile, quando risponde che pish, giovane e bella com’è… E qui segue una partita a scacchi di reciproco ricatto emotivo che è, lo ammetto, un capolavoro:

Violetta – Manco per idea!
Monsieur G. – Oh, fate un po’ voi, ma lo sapete che l’uomo è mobile, qual piuma al vento muta d’accento e di pensier… **
Violetta – Oh…
Monsieur G. – Immaginatevi vecchia, peccatrice, con Alfredo disamorato accanto, peccatrice, amareggiata… e ho già detto peccatrice?
Violetta – E dunque non esiste redenzione?
Monsieur G. – Be’, potreste sempre essere l’angelo consolatore della mia famiglia… È Dio in persona che mi manda ad offrirvene l’opportunità.
Violetta (si aggrappa alle tende) – Dite a M.lle Germont che per la sua felicità una povera ragazza è morta di crepacuore.
Monsieur G. – Come siete nobile, mia cara… piango con voi. E adesso sparite dalla vita di Alfredo.
Violetta (sempre aggrappata alla tenda) – Per riuscirci, devo farmi odiare da lui.
Monsieur G. – Brava, cara. Posso fare qualcosa per voi?
Violetta (c.s) – Quando sarò morta, ditegli quel che ho fatto.
Monsieur G. – Ma no! Voi vivrete felice e lontana, e avrete il vostro premio nella felicità dei miei figli, e non ci sarà bisogno di dir nulla a nessuno.

E come si possa considerare commovente tutto questo mercanteggiamento emotivo, proprio non arrivo a capirlo – ma d’altra parte, si sa che sono cinica.

Ma intanto torna Alfredo, pensieroso perché ha ricevuto dal padre una lettera tutt’altro che incoraggiante. Violetta sorride, trattiene le lacrime, lo esorta ad ammansire il genitore e ad amarla quanto lei lo ama – ed esce.

E Alfredo prende tutto per buono – e quando arrivano in rapida successione il domestico ad annunciare che giuseppe verdi, la traviata, alexandre dumas fils, francesco maria piaveMadame è partita in fretta e furia e poi il padre, è ancora convinto che tutto vada bene. Ci vuole la lettera che Violetta gli ha lasciato a farlo scendere dal pero – ma non come si era previsto. Il babbo ha un bel chiedergli chi dal cor gli cancellò di Provenza il mar e il suol, e qual destino lo furò*** al natio fulgente sol… Il ragazzo ha in mente soltanto di raggiungere la supposta fedifraga alla festa di Flora**** – e vendicarsi!

E sì, lo so, di solito sono le figlie che invano supplicano il padre di non vendicarsi del seduttore, e invece qui abbiamo un padre che supplica invano il figlio di non vendicarsi della seduttrice… ma il risultato è lo stesso: zilch.

E infatti chez Flora, dove si discutono gli ultimi pettegolezzi e ci si maschera alla spagnuola da zingarelle venute di lontano che leggono la mano e da mattadori di Madride, Alfredo ci arriva di umor pericoloso. Quando Violetta ci arriva a sua volta*****, accompagnata da un antipaticissimo barone, il ragazzo fa commenti cripticamente sgradevoli, batte il barone a carte, scambia con lui una velata sfida a duello… Quando tutti escono per cenare dietro le quinte, Violetta fa ritorno e c’informa di avere convocato Alfredo. Verrà? Non verrà? Certo che viene – o come potremmo concludere l’atto?

Violetta supplica, Alfredo fa del sarcasmo, Violetta sussurra di avere giurato di troncare, Alfredo chiede a chi, Violetta mente e dichiara di amare il barone… Non l’avesse mai fatto!

giuseppe verdi, la traviata, alexandre dumas fils, francesco maria piaveAlfredo convoca il coro tutto, racconta di essere stato mantenuto da Violetta perché era cieco, vile, misero – ma adesso la ripaga, perbacco! E getta addosso alla poveretta “una borsa” – che nella maggior parte delle produzioni diventa una mazzetta di banconote.

Putiferio. Violetta sviene, il coro s’indigna, entra Germont padre che rimbrotta il figlio, Alfredo è preso dal rimorso, il barone reitera la sfida a duello, Violetta rinviene e, ricattatoria anche nel deliquio, informa Alfredo che, quando lei sarà morta, lui capirà quanto è stato amato.

Dio dai rimorsi ti salvi allora;
Io spenta ancora – pur t’amerò,

canta – il che, oltre ad essere ricattatorio, non è proprio quel che ci vuole per convincerlo ad andarsene a casa e salvare l’onore della famiglia… non pare anche a voi? Ma il sipario si chiude, e non ci si lascia il tempo di dubitare.

Atto Terzo

È passato un po’ di tempo, e troviamo Violetta male in arnese, tisica, impoverita, dedita alla religione e alla beneficenza, assistita dalla fida Annina e dal buon dottore che al primo atto frequentava le sue feste. Ha per talismano una lettera di Germont père, in cui la s’informa che il duello è andato  benone, col barone ferito non troppo gravemente e Alfredo illeso e fuggito all’estero – e informato dei fatti. Tornerà da voi, riguardatevi, eccetera.

Ma il fatto è che a Violetta, c’informa il dottore, la tisi non lascia che poche ore… E lei un po’ si vuole illudere, un po’ si rende conto di essere al capolinea, un po’ rimpiange l’amore perduto, un po’ supplica il Cielo d’accoglierla benevolo…

giuseppe verdi, la traviata, alexandre dumas fils, francesco maria piaveEd è proprio a questo punto che, mentre fuori impazza il carnevale, arriva Alfredo – contrito, commosso e più innamorato che mai. E fanno piani per lasciare Parigi o cara, e Violetta vuol vestirsi, vuol andare al tempio (matrimonio lampo?) – solo che non può e, a dire il vero, a differenza della maggior parte delle eroine d’opera non è per niente contenta di morir sì giovane, e proprio adesso che ha recuperato Alfredo…

Giusto per rendere la faccenda ancora un pochino più strappalacrime, arrivano anche il dottore e Germont père (che per il rimorso si dà del malcauto vegliardo) e la fida Annina…

Violetta munge la scena quanto si può: regala una sua miniatura ad Alfredo, perché la passi alla sua futura e ipotetica virtuosa mogliettina spiegando che è l’immagine di un defunto amore che ormai tra gli angeli prega per entrambi…

E mentre tutti si commuovono e lacrimano…

È strano,

mormora. E gli altri quattro, in un coretto un po’ à la Braccobaldo, sobbalzano: Che?

Il fatto è, vedete, che cessarono gli spasmi del dolore, e in lei rinasce e s’agita insolito vigore. Ah, lei ritorna a vivere – oh gioia–

Ma noi, gente smaliziata e opera-goers, riconosciamo la spes tisica****** quando la vediamo – così che quando Violetta si abbatte sul canapé non abbiamo nemmeno bisogno che il dottore le tasti il polso e annunci che è spenta. E infatti, per lo più i registi quell’è spenta lo cassano.

O mio dolor,

gemono tutti – e il sipario cala.

Ecco qui. Scandalosissimo, vero? E in effetti la censura ci si fece una giornata campale. Dopo il passaggio della Brigata Sforbiciatori, asfaltata la critica alla borghesia contemporanea con lo spostare la storia tra Sei e Settecento,******* sfrondata la scarsa virtù della Violetta – resa pura e innocente! – saccarinato il titolo in Amore e Morte, della storia originale rimaneva ben poco. Figuratevi Verdi.

Alla fine, nella più permissiva Venezia, la cosa andò in scena come Verdi e Piave l’avevano voluta – e fu un fiasco. D’altra parte, quando a Roma andò in scena nella versione riveduta e corretta, fece fiasco del pari. Segno che, se la censura non volva scandali, al pubblico non piacevano troppo i salotti e le casette di campagna e i casi amorosi delle cortigiane contemporanee… dove diamine erano le spade, le guerre, i tradimenti, l’esotismo pittoresco?

Ma Verdi difese sempre la sua Traviata – si direbbe che non avesse tutti i torti. Magari era avanti sui tempi, magari scriveva per la posterità, e la posterità gli ha dato ragione, perché dopo un secolo e mezzo abbondante la Traviata è amatissima, eseguitissima, conosciutissima, bissatissima e citatissima – anche fuori dai territori abituali della musica lirica.

Una bella rivincita, non c’è che dire.

 

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* Che poi, ve la raccomando, la rustica semplicità! Il décor dell’atto secondo sembra sempre uscito da Country Living, e mi par di ricordare che nella Traviata televisiva live, un paio d’anni fa, l’atto fosse significativamente ambientato attorno al Petit Trianon, nel villaggio make-believe di Maria Antonietta.

** Opera sbagliata, I know – ma il senso è quello.

*** Queste sono le cose con cui Piave mi abbacina: il metricamente identico “rubò” era troppo terra-terra?

**** Già, perché voi non sapete che Violetta aveva giusto ricevuto e accantonato con disprezzo un invito di Flora – che poi invece ha accettato come parte del suo machiavellico piano, lasciando la lettera in bella vista sul tavolo. 

***** Forse vi ho già raccontato della produzione parigina in cui Monserrat Caballé sbagliò ingresso ed entrò in scena dal caminetto?

****** Sarà poi vero? Ogni tanto si legge di sì, poi si legge che è un mito romantico, poi di nuovo si rivaluta l’idea. Va’ a sapere – e tuttavia… C’è un medico in sala? Se c’è, ci piacerebbero lumi nei commenti, grazie.

******* Il che, a ben pensarci, spiega le assurde figurine Liebig…

Set 16, 2013 - Anno Verdiano    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: Il Trovatore (Parte II)

Librettitudini Verdiane: Il Trovatore (Parte II)

E rieccoci qui, con la seconda parte del Trovatore.

Ricorderete che l’eponimo stornellatore ha rapito Leonora e se l’è portata a Castellor – con grave scorno del Conte di Luna che, all’aprirsi del sipario sull’Atto Terzo, prepara l’assalto insieme ai suoi soldati pieni di entusiasmo.

giuseppe verdi, il trovatore, salvadore cammarano, emanuele bardareMa intanto che aspettiamo l’orario delle battaglie, guarda chi ti arriva catturata: una vecchia zingara. E chi sarà mai? Che domande: è Azucena che, trascinata davanti al Conte, cerca d’impietosirlo con la storia del figlio ingrato e vagabondo che è venuta a cercare a piedi fin dai monti della Biscaglia. Biscaglia? Il Conte drizza subito le antenne, e chiede alla vecchia se ricordi la storia di un contino ammaliato e rapito… Azucena nega, ma si confonde – e il fido Ferrando fa due più due…

Afferrata e legata, e sapendo perfettamente in che mani è caduta, Azucena non trova di meglio che invocare a gran voce l’aiuto di Manrico… figurarsi il Conte, che all’improvviso si trova tra le mani la sua vendetta e il mezzo di rifarsi sul Trovatore – tutto in un’unica comoda confezione, pronta per essere arrostita con o senza contorno di patatine.

E noi restiamo con il dubbio se Azucena sia stupida a livelli terminali, o una perfida manipolatrice con tendenze suicide… Voi che dite?

Come la prenderà Manrico? Sinceriamocene raggiungendolo a Castellor, dove lo troviamo intento a scambiare tenere – seppure un nonnulla lugubri – effusioni con Leonora, in attesa di un matrimonio lampo. Ma mentre già schiude loro il tempio gioie di casto amor, irrompe il fido Ruiz* con la notizia che dalle mura si vede Azucena sulla pira già accesa.giuseppe verdi, il trovatore, salvadore cammarano, emanuele bardare

E Manrico? Manrico, nel momento che sceglierei a ispirazione se dovessi erigere un monumento al Tenore Quintessenziale, si assesta il mantello sulla spalla, getta indietro la testa e, a tempo di valzerino, c’informa che di quella pira l’orrendo foco tutte le fibre gli arse, avvampò. E già che c’è, ingiunge a distanza agli empi di spegnerla (la pira), o che lui tra poco col loro sangue la spegnerà…

E siccome quelli non la spengono, il nostro impulsivo giovanotto parte, nonostante le rimostranze di Leonora – cui, scopriamo, non aveva ancora trovato il tempo di raccontare della sua mamma zingara. E Leonora tenta di supplicare ancora un po’ – ma avete mai visto il Trovatore dar retta ad alcunchì? O, a ben pensarci, alcunchì dar retta a Leonora?

Non reggo a colpi tanto funesti…
Oh, quanto meglio sarìa morir!

Mormora la poveretta – non sappiamo se per il matrimonio andato a carte e quarantotto, o per l’eterodosso pedigree del fidanzato – e il sipario cala.

Atto Quarto – Il Supplizio

E già non è come se il titolo promettesse bene, vero? Oh well. Siamo tornati all’Aliaferia, e non solo è notte, ma notte oscurissima. Siamo davanti alla torre-prigione dove, c’informa Leonora, Manrico è stato rinchiuso dopo la batosta. E lei è lì per conforto e, se può, per salvarlo – con l’aiuto, si direbbe, dell’anello che porta al dito. E quando all’opera qualcuno si mette a far conversazione col proprio anello,** sappiamo tutti come va a finire, vero?

Leonora se ne sta lì, ascolta l’ufficio dei morti, ascolta il Trovatore che se la canta, ascolta il Conte di Luna che arriva a dar disposizioni (in cortile!) per la morte di Manrico&Azucena e a lamentarsi. Perché, vedete, come tanti vilains operistici, il Conte di suo sarebbe anche un bravo ragazzo: è l’ossessione non corrisposta per Leonora a renderlo feroce… E dove sarà Leonora, tra l’altro? Lui l’ha cercata tanto, dopo la battaglia, ma tutte le ricerche sono state ondarne

giuseppe verdi, il trovatore, salvadore cammarano, emanuele bardareEd eccola, Leonora, che si fa avanti per supplicare la grazia. Ora, vedete, di Baritoni Rivali In Amore ce ne sono due tipi. C’è il genere che di fronte alle suppliche del soprano si commuove e cede, e c’è quello che più lei supplica, più s’ingelosisce. Leonora impiega un po’ a costatare che il Conte appartiene alla varietà tetragona, e solo allora mette in atto il suo piano: si promette in cambio della grazia e, appena l’incredulo Conte si distrae un istante, beve (anzi, sugge) il non precisamente salutare contenuto dell’anello.

A dire il vero, al Conte – come usa dirsi dalle mie parti con rustica ma colorita espressione – balla un occhio. Chiede un giuramento e Leonora, spudorata casuista della domenica, giura salvo poi compiacersi tra sé di come lui l’avrà – ma morta…

E, in quello che credo debba essere un caso unico nella storia dell’opera ottocentesca, il Conte la sente! Well, non capisce – ma la sente. Se (com’è capitato a me a suo tempo) arrivate al Trovatore dopo esservi abituati all’idea che nessuno senta quel che viene cantato “a parte” a quaranta centimetri di distanza, quel “Fra te che parli?” è cosa da sobbalzo.

Sarà che il Conte è – non a torto – diffidente, e rammenta a Leonora il giuramento…

È sacra la mia fe’,

dice lei, nell’avviarsi all’ultimo colloquio pattuito con il Trovatore – e noi non ci facciamo un’opinione elevatissima del suo senso dell’onore.

Ma precediamola nella torre, anzi nell’orrido carcere dove Azucena delira e Manrico di dispera, ed entrambi aspettano la fine.

Entra Leonora e segue una di quelle scene che ogni tanto all’opera capitano.

Lei: Sei libero!

Lui: Libero? Libero… libero! E come hai ottenuto la grazia?

Lei: Ne parliamo un altro momento…

Lui: Ah! Sciagurata, ti sei venduta! T’odio, t’aborro, ti maledico! giuseppe verdi, il trovatore, salvadore cammarano, emanuele bardare

E a questo punto le cose possono variare da opera a opera. Leonora, l’abbiamo visto, non è il tipo che pugnala il baritono con un coltellino da dessert – e anzi, comincia a stare proprio poco bene, perché il veleno a timer era programmato per fare effetto proprio al momento della prevedibile maledizione. A Manrico sorge il dubbio di avere interpretato male la situazione. Ah, rimorso atroce…

Ma adesso non aspettatevi una di quelle lunghe, lunghe scene di congedo, perché il finale Verdi lo voleva breve, breve, breve.

Pronti? Attenti… via!

giuseppe verdi, il trovatore, salvadore cammarano, emanuele bardareEntra il Conte, Leonora muore e poi, nel giro di dodici brevissimi versi, Manrico viene portato via***, il Conte costringe Azucena a guardare la decapitazione dalla finestra, Azucena rivela che l’ormai defunto Manrico era il fratello rapito, il Conte inorridisce, Azucena si dichiara vendicata, cala il sipario.

Fine.

Non vi avevo detto che era tutto molto frenetico? Manco a dirlo, successone travolgente – a riprova del fatto che all’opera non, non, non si va per amor di logica. E però… Sapete una cosa? Ho detto che non mi piace – e non mi piace, ma credo che, se dovessi iniziare a Verdi qualcuno di digiuno e/o tetragono, comincerei proprio da qui, con le notti oscurissime, le serenate, gli zingari, le vendette e il veleno negli anelli. 

E spero che apprezziate le meravigliose figurine Liebig che illustrano in parte questo post (e adesso anche il precedente).

__________________________________________

* Come spesso accade in queste circostanze, c’è un Fido Qualcuno per schieramento. Qui Ruiz, là Ferrando.

** Che detto così, fa molto Gollum, mi rendo conto… E comunque, non avete idea della ciclopica bigiotteria che si usa nel tentativo di rendere la scena leggibile anche per i loggionisti.

*** In un cortile molto vicino, bisogna dedurre…

Set 9, 2013 - Anno Verdiano    2 Comments

Librettitudini Verdiane: Il Trovatore (Parte I)

Perdonate, ci risiamo: inconvenienti, impicci e fato avverso hanno decretato che le Librettitudini odierne escano in versione dimezzata e senza illustrazioni.

Ci rifaremo, piacendo alla divinità dei blog, lunedì prossimo. Intanto…

giuseppe verdi, salvadore cammarano, antonio garcia gutierrez, il trovatore, emanuele bardareNon c’è nulla da fare: il Trovatore, che Cammarano cominciò a trarre da un drammone spagnolo appena un mese dopo il debutto veneziano del Rigoletto, comunica un certo qual senso di frenesia.

Sarà anche quest’inizio di gran carriera (benché Verdi ancora non avesse deciso a quale teatro destinare la nuova opera), e poi la morte di Cammarano a libretto quasi completato, e la necessità di far salire in corsa il giovane Emanuele Bardare per gli ultimi ritocchi – ma è anche l’opera in sé.

Scena su scena, melodia su melodia e, francamente, assurdità su assurdità si rincorrono senza posa e senza riguardo veruno per la logica, in un tripudio di torri merlate, valli scoscese, città sotto assedio, agnizioni, vendette, malefici, amori contrastati, battaglie, roghi, veleni, sacrifici, gelosie, e chi più ne ha più ne metta. E quanto precipitoso e quanto illogico sia l’insieme, lo vediamo subito.

Atto Primo – Il Duello

È notte a Saragozza – e tanto vale che vi ci abituiate, perché sarà quasi sempre notte. Al palazzo dell’Aliaferia, per ingannare il tempo mentre il Conte di Luna monta gelosa guardia sotto il verone della nobile Leonora – metti mai che si faccia vivo il Trovatore, l’altro e più fortunato spasimante – il fido Ferrando tiene sveglio un coro maschile raccontando la vera storia di Garzia, germano al nostro conte. E anche noi apprendiamo che da bambino il Conte aveva un fratellino, affatturato e rapito da un’abbietta zingara, fosca vegliarda, poi bruciata al rogo. E la figlia di costei, per vendetta, aveva gettato sulla pira anche il contino rapito. Allora il conte padre era morto di dolore, ma non prima d’ingiungere al figlioletto superstite di continuare a cercare il fratellino.

“Ma non era stato arrostito, o Clarina?”

Così pareva, ma ignoto del cor presentimento suggeriva al padre che forse, forse…

“E allora, perché è morto di dolore?”

E sennò, come faceva il nostro baritono a crescere malaggiustato, con una ricerca/vendetta più grande di lui e mica troppo equilibrato? E comunque, miei cari, se cercate logica narrativa in quest’opera, state freschi.

E non parlo tanto del fatto che la zingara defunta abbia infestato il castello in forma di gufo negli ultimi quindici anni, quanto di come la nobile e bellissima Leonora si sia fatalmente innamorata dell’eroe eponimo dopo averlo a) visto vincere un torneo in armatura nera e scudo senza stemma à la Ivanhoe, e b) averlo sentito cantare da lontano tra gli alberi. E sì, lo so, siamo all’opera ed è così che all’opera la gente s’innamora fino a morirne, but still, si può capire anche il Conte di Luna.

E il Conte arriva un attimo troppo tardi per udire il contenuto del paragrafo precedente in forma di confidenze tra fanciulle, ma giusto in tempo per esserci quando il Trovatore, nascosto tra gli alberelli, comincia a stornellare definendosi deserto sulla terra, col rio destino in guerra

Figurarsi quando, in risposta alle quartine, la stordita di Leonora scende e, in uno di quegli scambi di persona che solo all’opera, si getta tra le braccia del Conte. Essì, il buio, i fari blu, l’agitazione – ma non sono considerazioni che smuovano il Trovatore, che entra in scena al grido di “Infida!”

Triangolo amoroso! Il Conte è furibondo, Leonora supplica, Manrico si rivela anche nemico del Conte nella guerra civile in corso… Sprezzantemente invitato a chiamare le guardie e fare del suo peggio, il Conte sguaina invece la spada, e non è come se Manrico si tirasse indietro. Leonora supplica ancora un po’, ma nessuno le dà troppa retta. I due rivali escono brandendo le spade per battersi offstage, e indovinate che fa Leonora per suggellare il finale d’atto? Ma sviene, of course, mentre cala il sipario.

Atto Secondo – La Gitana

E siamo in un diruto abituro sulla falda di un monte in Biscaglia – siete contenti? Per una volta, è l’alba, e gli zingari occupano il tempo chiedendosi l’un l’altro chi del gitano i giorni abbella… E sapete chi abbella i giorni del gitano? Ma perbacco, è la zingarella! 

E poi, in mezzo a tutta questa joie de vivre, piomba l’allarmante zingara Azucena, con una truce canzone di vecchie zingare mandate al rogo, conti tirannici e vendette da compiere… Non incomprensibilmente, e con l’aria di avere già sentito questa storia più di una volta, il coro si dilegua, lasciando Azucena sola con Manrico che, apprendiamo, è ancora vivo, figlio di Azucena, convalescente di molte ferite, e desideroso di sapere una buona volta chi sia la vecchia arrostita. Azucena ci informa tutti che la vittima nerovestita, discinta e scalza della canzone era sua madre – e nonna di Manrico – e che lei, per vendetta, aveva gettato sulla stessa pira il figlio del conte… suo figlio… il figlio del conte.

“Tuo figlio?” si sbalordisce Manrico. “Ma allora, io chi sono?”

E Azucena, tutta trambasciata, risponde di essersi confusa e svia il discorso e torna ai suoi eterni propositi di vendetta. E noi ci diciamo che non è il genere di dettaglio su cui ci si confonde: non sa di chi era il figlio che ha bruciato? E comunque, se il contino è finito sulle fiamme, non era vendetta sufficiente? Perché, dopo quindici anni, ritiene ancora di doversi vendicare?

Ma questo ce lo domandiamo noi, perché Manrico prende tutto per buono… ma che vogliamo mai? Ha altro per il capo, è tenore, è convalescente… E mica per il duello, sapete? Oh, no: le ferite se le è procurate in battaglia, dopo avere battuto in duello e graziato il Conte.

“E perché mai?” chiede Azucena – più che altro per dar voce alla stessa legittima curiosità da parte nostra. E non lo sa nemmeno lui, ma un istante prima di vibrare il colpo fatale, Manrico ha udito una voce dal cielo intimargli di non ferir.

“Che strano,” mormora la zingara. “Ma la prossima volta…”

E mentre Manrico promette che sì, oh sì, la prossima volta– entra il fido Ruiz, ad annunciare che Leonora, credendolo morto, sta per prendere il velo in quel di Castellor. E Manrico si precipita, nonostante i patemi della mamma, cui pare che il ragazzo non stia ancora abbastanza bene per scapicollarsi a rapir novizie.

E noi, che non abbiamo bisogno di galoppare ventre a terra per lunghi sentieri sconnessi e pietrosi, precediamolo al ritiro in quel di Castellor, dove Leonora intende farsi monaca. E ci giungiamo di notte, tanto per cambiare, e ci troviamo il Conte, deciso a sua volta alle misure drastiche, perché nemmeno il cielo deve aver Leonora, se non la può avere lui…

E mentre Leonora esorta il perplesso Seguito Muliebre a tergere i rai, il Conte esce con un balzo di tra gli alberi rimando giammai! e pronto a strappare a Dio stesso la fanciulla che vuole sua. E Leonora è piena di obiezioni ad essere sottratta al chiostro – obiezioni che si volatilizzano nell’istante in cui dagli alberi esce anche Manrico, che tutti credevano morto.

La gioia, lo sgomento, la furia, il sollievo e lo sconcerto distribuiti per il palco ve li immaginate. Il Conte questa volta dà veramente di matto: possibile che quest’accidenti di Trovatore debba sempre essere tra i piedi? Ma il fatto è che l’accidenti non è venuto solo: si è portato tanti coristi armati da poter sopraffare all’istante il Conte e i suoi quattro gatti.

E sipario…

E per oggi, perdonate, ci femiamo qui. Che ne sarà dei due amanti fuggitivi? Che vuole veramente la zingara? Chi è davvero Manrico? E che farà il Conte? Per saperlo, non perdete la seconda puntata de Il Trovatore, tra sette giorni.

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