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Gen 5, 2018 - elizabethana, teatro    Commenti disabilitati su La Dodicesima Notte

La Dodicesima Notte

Contando dalla sera del giorno di Natale (e non dalla notte di Natale stessa, ciò che ho sempre trovato lievemente bizzarro) la Dodicesima Notte è la vigilia dell’Epifania.

shakespeare, la dodicesima notte, epifaniaNell’Inghilterra Tudor-elisabettian-giacobina, quella che era stata una festività cattolica si era trasformata in un’occasione piuttosto carnevalesca, che comportava danze, vino e burle, l’elezione di un Lord Of Misrule e una licenza non scritta per domestici, apprendisti e dipendenti in genere a beffare i propri padroni – o addirittura travestirsi come loro.

La faccenda era vastamente diffusa e popolare, e giungeva fino a corte. Apparentemente a Shakespeare fu commissionata una commedia da rappresentare come intrattenimento per la festa reale la sera dell’Epifania del 1601 o 1602.

Come spesso accade, di questa prima e titolata rappresentazione non si sa nulla di preciso. shakespeare, la dodicesima notte, epifaniaLa prima data che abbiamo è quella del 20 febbraio 1602, quando la XIIN venne rappresentata al Temple, la scuola di Diritto di Londra. La domanda diventa dunque: quanto tempo passava prima che i futuri giurisperiti potessero divertirsi con un intrattenimento dopo che questo aveva debuttato a corte? Sei settimane? Un anno abbondante? Non si sa – non più, o forse non ancora.

Ad ogni modo, la commedia era perfettamente adatta all’occasione: una vicenda di identità e generi scambiate, gemelli identici, corteggiamenti incrociati, agnizioni, travestimenti e, soprattutto, burle. Quella che dovrebbe essere la vicenda principale, i casi dei gemelli Sebastian e Viola/Cesario, naufraghi in Illiria (of all places!) è sovrastata dalla trama comica, una cospirazione tra servi e padroni ai danni del detestabile intendente Malvolio. Tutto finisce bene – ma in carattere assai dodicenottesco, con il duca e la contessa che sposano un naufrago ciascuno, e un baronetto che sposa una dama di compagnia, con scarsa soddisfazione dell’intendente beffato.

Una favola buffa e rassicurante, in cui, dopo tutto, si vedeva che sovvertimento dell’ordine sociale, beffe e confusioni di genere avevano il loro spazio – nel cerchio incantato e invalicabile di  una notte di festa e di un palcoscenico.

shakespeare,la dodicesima notte,epifaniaQui – per la vostra calza – trovate la pagina shakespeariana del Progetto Manuzio. Scendete un po’ per trovare La Dodicesima Notte scaricabile in PDF, TXT o RTF. Buona Epifania!

Nov 24, 2017 - bizzarrie letterarie, elizabethana    Commenti disabilitati su Riveduto E Corretto

Riveduto E Corretto

RestorationTheatre06E dicevamo che, in Compleat Female Stage Beauty, quel che il re vuole non è una storia diversa – ma proprio l’Otello, finale sanguinoso e tutto, con sorprese. Il che è carino e serve bene per quello che Hatcher vuole dire, ma non rispecchia del tutto la mentalità Restoration in fatto di teatro, e di teatro elisabettiano in particolare. Perché in realtà…

Insomma, mettetevi nei panni degli Inglesi post-Restaurazione. Immaginate i teatri che riaprono nel 1660, dopo diciotto anni di guerre civili prima e cupaggine cromwelliana poi. Immaginate di essere assetati di divertimento, di musica, di gaiezza in generale.

E immaginate di ritovarvi per le mani le opere di Shakespeare. Età dell’oro elisabettiana fin che si vuole, ma che diamine: sono passati sessanta, settant’anni, e il gusto è cambiato. Shakespeare, che già cominciava a passare di moda negli ultimi anni della sua vita, a questo punto appare proprio come il relitto di un’era più cruda, più ingenua, più ferrigna…

E allora che si fa? SI rinuncia del tutto e passa oltre? Niente affatto, perché le storie sono notevoli, la poesia a tratti meravigliosa – se solo il tutto fosse un po’ meno antidiluviano in gusto e stile!  Ma a questo c’è rimedio, giusto? In fondo che ci vuole? Basta riscrivere.

Nahum TateE lasciate dunque che vi presenti Nahum Tate, irlandese e futuro Poet Laureate d’Inghilterra. Nel 1681, giovane e già celebre, scopre il Re Lear, e rimane semifolgorato – e la parte operativa è proprio quel “semi”.

Perché, vedete, Tate si accorge subito di essere inciampato in un mucchietto di gemme. Certo sono grezze, queste gemme, e buttate lì a qualche modo – ma così splendenti nel loro disordine che Tate sente l’impellente necessità di rimetterci mano e rimediare ai molti difetti della tragedia. E così ne riscrive una buona quantità, e cassa cosette del tutto secondarie come la parte del Buffone, ma soprattutto riscrive il finale.

Re Lear, lo sapete, è la storia di questo re vegliardo che caccia di casa l’unica figlia che lo ami veramente, ed è prontamente detronizzato dalle altre due figlie malvagie. Seguono guerra civile, accecamenti in scena, lotte fratricide, follia vera e presunta, tradimenti e controtradimenti, crisi di coscienza – e alla fine muoiono tutti. Ebbene, non ci crederete, ma a tutto ciò Nahum Tate riesce ad appiccicare un lieto fine in cui i malvagi seguitano a morire, ma Lear recupera il suo trono e richiama a corte in trionfo la dolce Cordelia, che così può sposare non il re di Francia cui era fidanzata, ma il giovane Inglese di cui è innamorata.

Er… sì.

Ma d’altra parte, tal dei tempi era il costume, e non è che Tate facesse alcunché di inaudito, scandaloso o inusitato… Non solo il tardo Seicento, il Settecento e l’Ottocento traboccano di riscritture creative (per dire, il Macbeth danzante e canterino di William Davenant…), ma la prassi non era nemmeno limitata al teatro, e sconfinava in campo filologico – vedasi Alexander Pope, che nel 1725, nella sua edizione in sei volumi delle opere complete di Shakespeare, non si fa il minimo scrupolo a riscrivere, potare le irregolarità metriche come se si trattasse di un giardino alla francese, cassare un migliaio e mezzo di versi che gli paiono brutti…

Ma non divaghiamo, e torniamo al Re Lear, che la storia è tormentata.

Prima di tutto, bisogna che sappiate che la versione per ottimisti di Tate ha molto successo – tanto da soppiantare quasi completamente l’originale. Quando nel 1755 David Garrick e Spranger Barry si sfidano a colpi di Lear dai rispettivi teatri, in una rivalità tanto accesa e tanto sentita da provocare tumulti nelle strade, non recitavano Shakespeare, ma Nahum Tate.

Barry_002Il che magari rende un po’ strano in quadro di James Barry* che nel 1788 ritrae il finale tragico, ma si sposa perfettamente con la storia di William Henry Ireland che, nel 1794, tra i suoi falsi shakespeariani include un manoscritto “originale” del Re Lear. E anche William Henry non si limita a trascrivere da qualche edizione discesa dal First Folio, ma ci mette del suo – o quanto meno toglie. Toglie tutto lo humour di grana grossa, raffina e purga il Bardo, anticipando i fratelli Bowdler… E la faccenda funziona, perché siamo in piena Bardolatria, e l’Inghilterra Georgiana è ansiosissima di credere al ritrovamento, di scoprire con sollievo che il Cigno di Stratford era più fine e spirituale dei suoi ribaldi curatori postumi.

Allo stesso modo, quando il ferocissimo avvocato e studioso shakespeariano Edmund Malone convince il parroco di Stratford a passare una mano di bianco sull’orrido busto funerario – dipinto a vivaci colori perché tale era il costume nel 1616 – ebbene, quella mano di bianco è il simbolo perfetto dell’atteggiamento dell’epoca: Shakespeare si venera, ma si venera molto meglio riveduto, corretto, intonacato e neoclassico.

E se poi può scapparci il lieto fine, tanto meglio. Erano in tanti a pensarla come il Dottor Johnson, che avendo visto una volta in gioventù il finale tragico, ne era rimasto insopportabilmente sconvolto, e considerava di gran lunga preferibile la versione per ottimisti…

E anche se già Garrick comincia a ripristinare pezzi dell’originale shakespeariano, resinserendo per esempio il Buffone,** bisogna aspettare il 1823 perché Edmund Kean provi a riportare in scena il finale tragico – e comunque non è come se andasse straordinariamente bene. Kean incassa un passabile successo personale nel ruolo, ma nulla di più. Alla fin fine sarà William Charles Macready a spuntarla, ma anche lui – pur con la sua ossessione per il rigore filologico – dovrà provarci due volte, prima nel 1834 e poi, definitivamente, nel 1838.

E quindi, sì: c’è sempre qualcuno convinto di poter fare di meglio – e in definitiva, Shakespeare per primo era un riscrittore sopraffino. Dubito che, considerando le disinvolte pratiche dell’età elisabettiana, si sarebbe stupito o indignato più di tanto sulla sorte del suo Re Lear. Tutto sommato, è perfettamente inutile stupirsi dei ritocchi di Nahum Tate. Semmai, se vogliamo proprio levare un sopracciglio, leviamolo sui 157 anni che l’originale ha impiegato per riprendersi il suo posto – a riprova del fatto che non solo c’è sempre qualcuno convinto di poter fare di meglio, ma è anche del tutto possibile che quel qualcuno trovi ragione presso un sacco di gente, per un sacco di tempo.

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* Magari non sono proprio quei dubbi da dormirci, ma mi sono sempre chiesta: in basso a sinistra, saranno Gloucester ed Edgar con il cadavere di Edmund?

** E prima di commuovervi sulla fedeltà di Garrick al suo Bardo, ricordatevi che Garrick aveva riscritto l’Amleto “per salvare il testo da tutte le assurdità del V atto.”

 

Uno Strumento Potentissimo: C.W. Hodges e il Teatro

Il teatro come istituzione è il principale meccanismo tramite il quale gli esseri umani sviluppano i loro modelli di condotta, la loro moralità, le aspirazioni, l’idea del bene e del male e, in generale, quelle fantasie a proposito di se stessi e dei loro simili che, se praticate con persistenza, tendono a diventare fatti nella vita reale.

Trovo l’idea dell’umanità che prova e modella se stessa attraverso il teatro CWHodgesenormemente affascinante – ma immagino che da me non ci si possa aspettare altro, giusto?

Ad ogni modo, l’idea è dell’Inglese Cyril Walter Hodges, pluripremiato illustratore, scenografo, costumista, romanziere storico e studioso shakespeariano. Personaggio parecchio eclettico – ma con un metodo, considerando che la maggior parte del suo lavoro ruota attorno al teatro, alla storia e alla storia del teatro.

Personalmente adoro le sue illustrazioni: le linee veloci ed eleganti, l’equilibrio tra abbondanza di dettagli e stilizzazione, i colori trasparenti e luminosi… Di tutti i suoi lavori, i miei preferiti sono quelli dedicati al teatro, e a quello elisabettiano in particolare. L’intero corpus fu acquistato negli anni Ottanta dalla Folger Library, che adesso ha digitalizzato tutto quanto per renderlo disponibile nella Reticella – qui e qui. Raccomando cautela, perché è uno di quegli e-posti in cui si possono passare tante e tante ore felici – ovvero un Pozzo delle Ore Perdute… Non so quante volte mi ci sono e-recata in cerca di qualcosa di specifico per poi perdermi a girovagare felicemente.

Globe+Full+ColourEd è un po’ un’ironia che un uomo che ha incentrato la sua vita su una passione per il teatro elisabettiano dovesse avere pessimi ricordi del Dulwich College – fondato dal grande attore elisabettiano Edward Alleyn – tanto da ricordare i suoi anni scolastici come “un’infelicissima prigionia”… Ma per fortuna l’infelicità scolastica non spense l’interesse del giovane Hodges per il periodo, e non gli impedì di diventare l’uomo i cui disegni speculativi e la cui erudizione sono stati fondamentali nella ricostruzione moderna dei teatri elisabettiani.

Mi piace pensare che, se il teatro serve a modellare l’idea che l’umanità ha di se stessa, Cyril Walter Hodges ha senz’altro contribuito in modo essenziale a modellare l’idea che noi abbiamo del teatro elisabettiano.

Lug 12, 2017 - elizabethana, Storia&storie, Vitarelle e Rotelle    Commenti disabilitati su la Caratterizzazione è un Apostrofo di Colore a Scelta

la Caratterizzazione è un Apostrofo di Colore a Scelta

Rieccomi, o Lettori! Direi che ho trovato le chiavi di casa – ma in realtà non ho idea di come sia successo: fino a ieri non c’era verso di fare il login, e invece oggi sì. Ah well, meglio così.

E visto che sono tornata, parliamo di personaggi, volete? Nicholl Lodger

Chi di noi non vorrebbe popolare i suoi libri di gente indimenticabile? È al tempo stesso una tecnica difficile da padroneggiare, un elemento chiave della buona scrittura e uno degli aspetti più complessi di quella malattia da scrittori che Tolkien chiamava il complesso della subcreazione: infondere la scintilla vitale nei propri personaggi, soffiare la vita nelle narici della creatura impastata con inchiostro e carta…

Curiosamente, ho trovato un affascinante bit of advice in proposito in un libro che non è né un manuale di scrittura né un romanzo, ma una curiosa specie di biografia. In The Lodger – Shakespeare on Silver Street, lo storico inglese Charles Nicholl concentra le sue prodigiosamente minuziose ricerche sul soggiorno di Shakespeare presso una famiglia di fabbricanti di acconciature di origine francese – e la parte da lui avuta in una causa civile tra due generazioni della famiglia.

Non è che Shakespeare faccia una gran figura nell’insieme, ma non è di lui che voglio parlare, bensì della sua padrona di casa, Marie Mountjoy, che era arrivata in Inghilterra da profuga ugonotta e aveva fatto tanta carriera nel suo campo da creare acconciature per la consorte di Re Giacomo VI e I, nientemeno.

simon-formanMarie, mercantessa agiata (e forse moglie adulterina, ma se suo marito era come appare dal lavoro di Nicholl c’è da capirla), a un certo punto consulta il Dottor Simon Forman, astrologo, medico e sapiente, nella speranza di recuperare un paio di anelli e del denaro che ha perduto. La pratica era comune all’epoca, e Forman uno dei praticanti più reputati nel suo campo. Tra l’altro, il dottore teneva annotazioni dettagliate dei suoi casi – annotazioni in buona parte sopravvissute. È nei suoi quaderni che Nicholl trova una serie di affascinanti particolari su Marie, compreso un piccolo elenco di tre personaggi che include Margery, una domestica di casa Mountjoy, “una ragazzotta alta e lentigginosa” nella descrizione della sua padrona. A tall and freckled wench.

Queste poche parole, annotate da Forman mentre parlava con Marie, sono qualcosa che mette i brividi: una voce di quattrocento anni fa registrata senza il tramite di elaborazioni letterarie o formule giuridiche e religiose. Nicholl coglie e sottolinea la meravigliosa immediatezza di questa piccola finestra aperta su un altro secolo: ogni volta che voglio ricreare Marie nella mia mente, la immagino mentre pronuncia lentigginosa con un accento francese*.Marie

Queste sono gioie nella vita di un ricercatore e di un romanziere. Provate a fare il piccolo esercizio d’immaginazione descritto da Nicholl: ecco Marie a trent’anni, protesa in avanti nella luce incerta delle candele di Forman, con la fronte corrugata sotto la cuffia e la bocca stretta in contenuta disapprovazione, con le mani serrate in grembo e la sua erre francese.

Vera, viva e vivida dopo quattrocento anni, e tutto per quelle tre parole dette all’astrologo, tre parole che conservano la traccia delle sue origini, della sua mentalità, delle sue credenze, della sua personalità.

A volte basta proprio poco per (ri)creare una persona.

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* “Whenever I try to conjure up a sense of Marie, I imagine her while she pronounces “freckled” with a French accent.”

I Falò Dell’Armada

Vi va, per oggi, una piccola storia di come storie, leggende e luoghi comuni scendano giù pei secoli – e a volte assumano strane forme?
766px-Invincible_Armada.jpgAllora, cominciamo col dire che in Inghilterra il 1588 fu l’Armada Year, perché si temeva e aspettava l’attacco spagnolo via mare, e l’attacco arrivò. Come misura d’allarme, fu rimesso in uso l’antichissimo ed efficace sistema dei beacons, sorta di ur-fari costituiti da pile di legna cosparsa di pece, ciascuno con il suo guardiano pronto ad incendiarlo. I beacons erano sparsi per buona parte della costa occidentale dell’Inghilterra, ciascuno visibile dal precedente e dal successivo. Quando la flotta spagnola fece davvero la sua comparsa all’orizzonte, il primo guardiano che l’avvistò dalla Cornovaglia accese il suo beacon, seguito dai suoi immediati vicini non appena questi videro le sue fiamme, e poi via così, fino a che la notizia non giunse a Londra. Prayer.png

Dopodiché, nel giro di qualche mese, una combinazione di abilità marinaresca inglese, tempeste e puro caso fece polpette del grosso dell’Armada, e l’immagine delle navi spagnole disalberate che bruciavano alla deriva si confuse, nell’immaginario degli Isolani festanti, con le fiamme dei beacons d’allarme. Memorialisti e scrittori dell’epoca riportano i brindisi nelle taverne, le preghiere d’occasione (una delle quali attribuita addirittura alla Grande Elisabetta in persona), le ballate e le poesie estemporanee che celebravano la vittoria e i beacons, segno della vigilanza e dell’indomabile bellicosità inglesi.

In realtà l’entusiastico idillio durò poco, ma mentre la Regina e il Consiglio Privato lesinavano paga e cure a reduci e feriti, il mito cominciava già a crescere. Lo ritroviamo, per esempio, descritto allegoricamente in The Faerie Queene di Spenser, e lo ritroviamo nelle pagine di legioni di storici di età Tudor e Stuart e anche Hannover: la piccola e tosta Inghilterra, con pochissime navi e le barchette da pesca, resiste alla poderosa avanzata di una sterminata flotta di enormi e malintenzionatissime navi spagnole, e solo l’ardire di questi cavalieri del mare, ispirati dalla loro regina e guidati da Dio, ricaccia indietro i feroci invasori papisti…

Mica tanto vero, in realtà, perché le forze navali in campo erano pressoché pari, la vittoria inglese non cambiò drasticamente da un giorno all’altro gli equilibri dell’orbe terraqueo, e gli Spagnoli non avevano inteso di colonizzare e ricattolicizzare a forza l’Isoletta e, già che ci siamo, non erano nemmeno stati loro a battezzare la loro flotta La Invencible Armada – il nome era stato partorito dall’ansia degli Inglesi. Macaulay.png

Ma poco importava: la leggenda aveva messo radici abbastanza profonde perché nel 1832 Thomas Babington Macaulay, storico e poeta, dedicasse un poema narrativo ai vincitori dell’Armada – senza dimenticare i beacons che si accendono uno dopo l’altro e scintillano lungo la costa, chiamando alle armi gli Inglesi e lanciando un fiammeggiante monito agli Spagnoli!

ArmadaBeacons.png1888, terzo centenario, ed ecco un’incisione commemorativa di Edward Whymper, in cui si vede il messaggero a cavallo che galoppa in riva al mare con una fiaccola in pugno. Dietro di lui si raduna gente, dietro la gente i guardiani accendono un beacon, e sullo sfondo, giù lungo la costa, ecco il fuoco successivo che brilla già.

Andiamo avanti: 1936, e A. E. W. Mason pubblica il suo romanzo storico Fire Over England, il cui giovane eroe è una spia inglese alla corte di Madrid – ma tornerà in patria in tempo per comandare una delle navi incendiarie a Gravelines. L’anno successivo, 1937, dal romanzo viene tratto un film che FOEMason.jpgdoveva servire a diverse cose: celebrare non so più quale anniversario reale, fare cassetta sull’enorme successo del romanzo (e su Laurence Olivier nel ruolo di Michael/Robin) e proporre all’Inghilterra tutta un’interessante analogia tra la Spagna di Filippo II e la nascente potenza nazista. E qual’è mai l’orgogliosa isoletta che, di mestiere e da sempre, resiste ai tiranni e agli invasori? Inutile dirlo, la scena dedicata all’accensione dei beacons è lunga, elaborata ed epica.

Passano le guerre e passano i decenni, e adesso balziamo avanti, agli Anni Ottanta, quando l’Armada e i suoi fuochi ricompaiono in bizzarra forma. Avete mai giocato con un librogame? Quelle cose narrate in seconda persona singolare, in cui armati di un dado o due e di una matita, siete voi a decidere gli snodi della vicenda? Ebbene, ce n’era game.jpguna limitata quantità di ambientazione storica, e in particolare uno il cui sottotitolo è The Spanish Armada. E il titolo? Quale pensate che sia l’immagine scelta dal dipartimento marketing per risvegliare insieme l’attenzione, la memoria e il senso di romantica avventura del lettore? Ma Blazing Beacons, naturalmente: falò ardenti!

Ultima tappa: Elizabeth – The Golden Age, nel 2007, racconta di necessità la stessa storia (con una discreta quantità di licenze narrative, ma d’altra parte, chi non si è preso licenze con questa storia?), e di nuovo dedica ai beacons una lunga ed emozionante sequenza di fuochi che si accendono una dopo l’altra nel crepuscolo, per diventare la luce che indora i vetri piombati di una trifora alle spalle della regina – giusto in tempo per il punto di non ritorno: “We cannot be defeated”.

E questa mattina eccomi qua che, nel mio piccolo, aggiungo un tratto alla storia – un fuocherello alla fila – raccontandovi tutto questo sulla Rete, e i beacons ne hanno fatti di passaggi: da strumento di comunicazione ottica a motivo di esultanza, a leggenda, a poesia, a pagina nei libri di storia, a romanzo, a film, a gioco, ad esempio di storia della comunicazione… E ciascuna tappa ha acceso la successiva, in un certo senso – e quindi si può dire che la catena continui ininterrotta da quattro secoli e moneta. Non male, don’t you think?

Mar 7, 2017 - elizabethana, grilloparlante    Commenti disabilitati su Il Latte di Venere…

Il Latte di Venere…

Al volo per ricordarvi che questa sera…

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Brindare ai tempi di Shakespeare & Co. E si brindava – oh, se si brindava…

Se foste in quel di Mantova e vi pungesse vaghezza, mi par di capire che ci sia ancora qualche posto. Chiamate il numero in fondo alla locandina per informazioni.

A questa sera!

 

Bagolando di Qua e di Là…

Oh, notizie, comunicazioni e informazioni…

Martedì 7 marzo alle 20.00 inizio una serie di aperitivi letterari presso l’Enoteca Porto Catena di Mantova. Parleremo di vini&spiriti attraverso la storia e la letteratura – e degusteremo quello di cui si parla. Gli appuntamenti sono quattro, e si comincia (non sarete sorpresissimi) con Shakespeare e i suoi contemporanei.

Seguiranno l’Antichità Greco-Romana, il Medio Evo e l’Ottocento…

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Mi si dice che per martedì restano pochi posti – ma voi chiamate il numero qui in fondo alla locandina per informazioni – e sentite che cosa vi dicono.

Poi mercoledì otto marzo alle ore 17.oo sarò alla Biblioteca Mondadori di Poggio Rusco con…

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La storia della fama postuma di Shakespeare è intricata come un romanzo – tra semi-oblio, propaganda puritana, falsificazioni, riscritture, bardolatria, tradizioni teatrali, spiritismo e bizzarrie miste assortite. E, dal tardo Cinquecento ai giorni nostri, s’intreccia con quella di Christopher Marlowe – collega, coetaneo e rivale, più celebre da vivo e ingombrante da morto…

E tecnicamente si tratta di una lezione dell’anno accademico della LUPo – ma volendo è possibile iscriversi a una lezione singola al costo di 5 €. Per informazioni e iscrizioni chiamate la Biblioteca Mondadori al numero 0386 51057.

Ci vediamo la settimana prossima?

 

Nov 14, 2016 - elizabethana, Shakespeare Year, Storia&storie, teatro    Commenti disabilitati su Enrico a Quattro Mani

Enrico a Quattro Mani

NSONel mondo anglosassone la cosa sta facendo una certa quantità di rumore – ma immagino che alla Oxford Press se l’aspettassero: The New Oxford Shakespeare, la nuova edizione critica delle opere complete di Shakespeare, pubblicata a fine ottober essendosi l’anno che è, affibbia a Shakespeare un coautore per ben 17 delle sue opere.

E a dire il vero, gliene assegna 44 invece delle tradizionali 38/39 – incluso Arden of Faversham – ma quel che appare nei titoli dei giornali sono le tre parti dell’Enrico VI, scritte, secondo Oxford, a quattro mani con Christopher Marlowe. D’altra parte, Laggiù Marlowe è molto più noto della maggior parte degli altri coautori, anche a un pubblico generale, e addirittura uno dei candidati alternativi di punta in molte delle (francamente bizzarre) teorie sul Vero Autore.4

E vi ho detto un sacco di volte che secondo me il Canone shakespeariano l’ha scritto Shakespeare – ma non necessariamente tutto da solo. C’era questo modo – probabilmente un retaggio bardolatrico e poi vittoriano – di guardare al Bardo come a un genio solitario e siderale, che produceva in orgoglioso isolamento… C’era e da qualche parte c’è ancora, visto che qualcuno grida allo scandalo a proposito delle collaborazioni. Ma d’altra parte, le teorie in proposito non sono molto più giovani delle colline: già il buon Edward Malone, che pure era un fiero bardolatra, aveva i suoi dubbi a fine Settecento. Quindi, in realtà, quel che fanno a Oxford non è terribilmente nuovo. Solo più vasto, più approfondito, supportato da nuove analisi linguistiche e statistiche – prove empiriche sufficienti a scrivere “Enrico VI, di William Shakespeare e Christopher Marlowe”.

566003394Ora, dalla fine di ottobre in qua, amici e famigliari sghignazzano su quale debba essere la mia soddisfazione in proposito… e sì, non posso negarlo. Ma non tanto – o almeno non soltanto – per via di Marlowe. Il punto è che, se non ho mai creduto alle teorie cospirative del Vero Autore, non ho mai creduto nemmeno all’idea dell’Astro Solitario. E non perché Will Shakespeare da Stratford fosse un guantaio mancato di approssimativa istruzione – ma perché non è così che funzionava la Londra teatrale al tempo della Regina Bess. Era un mondo fitto, incandescente e piuttosto piccolo, in cui tutti conoscevano tutti e collaboravano con tutti, e s’influenzavano e copiavano a vicenda… per dirla con John Donne, nessun poeta è un’isola. Perché Shakespeare dovrebbe essere diverso – e tanto più perché le sue opere lo mostrano profondamente immerso nel suo mondo? Sil2

Adesso sono molto curiosa di leggere i saggi che accompagnano l’edizione – e, dato il prezzo proibitivo dei quattro volumoni, mi sa che dovrò aspettare e confidare in qualche biblioteca. Ma intanto mi dichiaro soddisfatta, in effetti, per questa visione meno romantica di Shakespeare, e perché è davvero facile immaginare la Compagnia dell’Ammiraglio che chiede allo spregiudicato e celebre Kit Marlowe di reggere la mano all’inesperto ragazzotto del Warwickshire, pieno di buone idee ma teatralmente ingenuo da non dirsi…

Quanto poi piacesse a Marlowe la faccenda, è un altro discorso – e qui sconfiniamo in territorio narrativo. Il mio territorio, d’altra parte: sono certa che più d’una di queste collaborazioni si presterà ad essere raccontata/drammatizzata… Un altro felice prodotto del New Oxford Shakespeare.

Lug 29, 2016 - elizabethana, libri, libri e libri    Commenti disabilitati su Di Giochi E Di Candele

Di Giochi E Di Candele

Player's BoyIn The Player’s Boy, Bryher racconta la vita di un apprendista attore che poi non diventa attore a cavallo tra i regni della Grande Elisabetta e di Giacomo VI e I. Bryher aveva una passione non solo accademica per il mondo elisabettiano, e in questo romanzo ne racconta il declino con un’intensità struggente. Il suo protagonista James Sands, orfano e sognatore, non è equipaggiato per essere felice mentre il suo mondo tramonta, e la sua parabola di occasioni mancate e aspirazioni calpestate, pur narrata in maniera un pochino episodica, è il genere di storie su cui mi sciolgo.

Ma ancora più rimarchevole del romanzo è la lettera dell’autrice che la mia edizione Paris Press pubblica in appendice. Bryher discute con un amico la sua passione per il mondo elisabettiano e la storia in generale, e conclude così (traduzione mia):

Sì, è questo il bello del “gioco”: la ricerca e l’occasionale scoperta. Se potessimo cambiare il corso del tempo per veder tornare [Sir Francis] Drake, sarebbe solo come vedere un ennesimo film. E’ tutto nello spulciare; nel tenere tra le mani, dopo vent’anni di duro lavoro, un singolo, minuscolo frammento che s’incastra con un altro pezzetto altrettanto incompleto; nel sapere che la soluzione del problema magari verrà in mente a qualcuno che non è ancora nato. E’ per tutto questo che il gioco vale come e più della candela.

funny_historian_tshirt-p235294641369602717qtdg_400.jpgDiscorso da storici – e forse sono d’accordo, almeno in parte. Non dico che mi dispiacerebbe poter dare un’occhiatina al ritorno di Drake, ma capisco in pieno il fascino della ricerca per la ricerca. Anche da un punto di vista narrativo (e sto parlando di narrativa a sfondo storico) la ricostruzione del personaggio, il lavoro paziente di rimettere insieme una personalità combinando fatti, aneddotica, speculazione, conoscenza dell’umana natura e intuizione, è forse la parte migliore del gioco. E’ possibile che il corollario di fittizietà renda leggermente più malsano il lavoro del romanziere rispetto a quello dello storico – anche solo perché, per l’autore e talvolta per i lettori, il personaggio fittizio finisce col diventare quasi più reale dei frammenti di fatti superstiti – ma il crescente numero di storici che sono anche romanzieri mostra che le due specie sono meno incompatibili tra loro di quanto possa sembrare. E la Sindrome di Bryher colpisce imparzialmente entrambe.

In realtà è una scelta lapalissiana, visto che non possiamo viaggiare nel tempo, ma possiamo studiare e ricostruire. Resta però il fatto che la fiamma puntigliosa e insaziabile della ricerca è una seria parte del fascino della storia, una parte che andrebbe perduta il giorno in cui il passato diventasse un altro posto che si può visitare – senza pregiudicare, presumibilmente, il mercato del romanzo storico.

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Oh, e per gli storici: la maglietta HISTORIAN – you’d be more interesting if you were dead si può acquistare qui.

L’Inglese di Shakespeare

ShakespearemainAvete badato alla settimana che è? La settimana più shakespeariana di tutto l’anno shakespeariano…

Venerdì sarà il quattrocentesimo anniversario della morte del Bardo, e quindi non possiamo lasciarci sfuggire la commemorazione, giusto?

E allora parliamo un po’ di lui. Parliamo, per dire, della sua lingua. Insieme all’assenza di libri nel testamento, la lingua è uno degli argomenti prediletti degli anti-stratfordiani. Come poteva il figlio del guantaio di Stratford, con la sua sommaria educazione formale e in un’epoca priva di dizionari, usare con tanta disinvoltura, eleganza e vivacità quasi diciottomila parole distribuite tra i più vari campi della conoscenza e appartenenti a tutti gli ambiti sociali?

Una cosa è innegabile: la lingua di Shakespeare è straordinariamente ricca e vivida, e non si tratta solo del vasto vocabolario. In un’epoca in cui le convenzioni grammaticali erano ancora fluide, il nostro poeta modella la lingua come un filo d’oro, traendone ogni genere di effetti – e contribuendo non poco a codificarla.Buying and selling in Old St Paul's Cathedral

L’Inglese elisabettiano, all’epoca bestia piuttosto nuova dal punto di vista letterario, era strutturato in modo vago, con poca differenza tra scritto e parlato e la più sovrana incuranza per spelling e punteggiatura.  Questo consentiva grande libertà espressiva, perché la lingua scritta rifletteva l’immediatezza e vivacità del parlato – e dubito che qualcuno si preoccupasse delle difficoltà disseminate in ogni testo a beneficio dei posteri.

D’altro canto, il secondo Cinquecento era anche un’epoca di scoperte, aperture, guerre e commerci. Gli eruditi venivano a contatto con nuove idee, e la gente comune, dopo secoli di insularità, si trovava a convivere con stranieri provenienti da ogni parte del Continente.  L’Inglese all’epoca era limitato per il fatto di non essere mai stato davvero un medium letterario, ma essendo una lingua duttile e ferocemente acquisitiva (secondo James Nicol, si nasconde nei vicoli, assalta le altre lingue e scappa con le parole spicciole che trova loro in tasca), di fronte alla necessità di esprimere nuove idee faceva due cose: assorbiva parole altrui, oppure ne creava di nuove. Da un lato, si stima che tra il 1500 e il 1650 l’Inglese abbia acquisito più di trentamila parole dal Latino, dal Greco e dalle lingue romanze e germaniche; dall’altro c’erano poeti pronti a creare tutti i neologismi che servivano – come Spencer, Sidney, Marlowe, il nostro Shakespeare e molti altri.

Shakespeare-and-his-Friends-xx-John-FaedPer un poeta doveva essere un’epoca entusiasmante: una lingua “nuova” da costruire, parole da coniare, idee da tradurre, forme e strutture da creare… E Shakespeare aveva in misura particolare il dono di disciplinare questa materia così fluida e incandescente in forme capaci non solo di conservarne l’immediatezza, ma di trarne sempre il miglior effetto possibile.

A cominciare dal verso. Anche se il vero iniziatore del blank verse (versi di cinque piedi ciascuno – da-DUM, da-DUM, da-DUM, da-DUM, da-DUM – senza rima) è Kit Marlowe, fu Shakespeare a perfezionarne l’uso.  Per esempio ne variava i ritmi per riprodurre lo stato emotivo dei personaggi (quando Macbeth diventa incoerente, i suoi versi si sbilanciano), alternava versi e prosa come mezzo di caratterizzazione (i personaggi di nobile nascita tendono a esprimersi in versi, ma quando deve arringare la folla, Bruto ricorre alla prosa), recuperava la rima per i momenti giocosi, per scandire le scene o per sottolineare particolari passaggi.

Quanto alla creazione di parole ed espressioni, tradizione vuole che, tra sostantivi  usati come verbi, verbi usati come aggettivi, parole composte e creazioni del tutto originali, Will potesse chiamare sue più di duemila parole – ma forse il numero va ridimensionato. Questi conteggi si devono a filologi vittoriani in piena bardolatria: individuavano una parola e non si disperavano più di tanto a cercare occorrenze precedenti in altri autori, come invece si è fatto in anni più recenti. Ma in fondo, importa davvero il numero?Tiring-house writing

Io direi di no. Quel che importa è che Will Shakespeare era un formidabile creatore di metafore, espressioni, parole e nomi – molti dei quali sono passati nell’uso comune e arrivati fino ai giorni nostri, sopravvivendo a tutti i sussulti di una lingua in continuo cambiamento. Nessun anglofono contemporaneo definirebbe un computer impallato dead as a doornail, o chiamerebbe un’esperienza frustrante a wild-goose chase; nessun autore televisivo intitolerebbe un episodio Brave New World, nessuno sospirerebbe che la sua vecchia automobile  has seen better days; nessun genitore chiamerebbe una figlia Jessica o Miranda – se non fosse per Shakespeare.

Tutto questo, è vero, non risponde alla questione dell’identità dell’uomo che si firmava William Shakespeare, ma demolisce in parte l’obiezione di improbabilità mossa alla buona vecchia teoria secondo cui Shakespeare è Shakespeare.

Perché in realtà la Londra elisabettiana era il posto ideale per un uomo dalla mente pronta e dal buon orecchio in cerca d’ispirazione e di parole. A Londra poteva incontrare gente di tutte le provenienze, di tutte le occupazioni, di tutti gli strati sociali. E pescare informazioni miste assortite nelle taverne, al porto, nei mercati o sui banchi degli stampatori attorno a St. Paul. E assistere a processi, impiccagioni, parate, preparativi di guerra, recrudescenze di peste, tornei, combattimenti di orsi, uscite della corte, duelli nelle strade. E confrontarsi e collaborare con i migliori poeti e autori teatrali del suo tempo.

7d5658e0c481d86923667dcefe982633Cosa, quest’ultima, che potrebbe tra l’altro spiegare in parte l’aspetto patchwork dello stile, se proprio non vogliamo attribuirla a una capacità mimetica di adattare la lingua alle diverse necessità della scena. Oppure no…

E alla fin fine restiamo sempre con potenziale mistero: un teatrante semi-educato che usa un numero di parole quattro volte superiore a quello medio dei suoi contemporanei colti, un’eccentrica varietà di competenze e conoscenze e un corpus di opere tanto articolato da consentire tutte le ipotesi. Sarà una collaborazione segreta, una congiura del silenzio, un intrico di identità segrete? O forse uno straordinario poeta dall’immaginazione fervida e dal talento straripante in un tempo di incandescenza culturale – l’uomo che scrittori come Shaw e Chisholm ritraggono col taccuino sempre in mano, pronto a cogliere, distillare e riprodurre le voci e l’anima della sua epoca?

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