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Set 14, 2015 - Festivaletteratura    Commenti disabilitati su Secondo Bollettino Festivaliero

Secondo Bollettino Festivaliero

Festival15E così il Festivaletteratura n° 19 ha chiuso i battenti… Credo che sia l’edizione che ho seguito con più intensità – ad eccezione della prima, quando ero una piccola Maglietta Blu. A dire il vero non credo neppure che ci si chiamasse già così… Mi pare che all’epoca di blu ci fosse solo il logo su fondo bianco – ma d’altra parte all’ufficio stampa dove ero io le magliette del Festival non le avevamo nemmeno.

Ad ogni modo, fa nulla. Torniamo al presente – o almeno al passato molto prossimo: edizione 2015 secondo la  Clarina. II parte.

6. Telling Stories. Confessione: venerdì sera, al momento di tornarmene in città per l’ennesima volta, ero stanchissima, infreddolita e con un principio di tosse… Così a sentire Kazuo Ishiguro non ci sono andata. E mi dispiace davvero tanto, perché il modo in cui la letteratura si traduce (bene o male – o non si traduce affatto) in cinema mi interessa molto. More fool I, e se qualcuno di voi è andato all’evento n° 128, apprezzerei qualche impressione. Novel-or-Short-Story-cartoon

7. Romanzo VS racconto. Confessione bis: ero un po’ pentita di avere scelto questo evento. Oh sì – argomento interessante, ma dopo la débacle della faccenda su scrittura maschile e scrittura femminile (vedi prima parte), I had misgivings. Ancora di più quando Sandro Veronesi ha dato forfait per motivi di salute, sostituito all’undicesima ora da Cristina Bartocletti… Sia chiaro che non ho nulla contro la Bartocletti – anzi – ma chiamata in sostituzione così… Ripeto: I had misgivings. E invece facevo male. Naturalmente il giocoso dibattito romanzo/racconto non c’è stato – ma, bene assecondato dalla sua relatrice nuova di zecca, Mauro Covacich ha tenuto un discorso intelligente, articolato e ben argomentato sui due lati della questione. Ha presentato il racconto come una caduta lineare, interamente trascinato da una sorta di necessità interna – che per lui di solito scaturisce da una singola immagine. Il romanzo invece è una faccenda di strati e di pezzi che emergono lentamente fino al punto in cui qualcosa-qualcosa  non li… immagino che “catalizza”, pur essendo un’orrida parola, descriva bene il processo di Covacich.Sulla distinzione tra il racconto scritto su folgorazione il romanzo scritto per paziente ricerca posso essere abbastanza d’accordo – meno sull’irrimediabilità come discrimen tra l’uno e l’altro. Secondo Covacich, il racconto è spinto da un’irrimediabilità che al romanzo manca. Personalmente trovo che l’irrimediabilità sia propria anche dei conflitti nei romanzi – ma nondimeno ho trovato il tutto molto interessante.

histnov8. Sul romanzo storico. Di nuovo al Seminario Vescovile, come Barbero&Pitzorno mercoledì pomeriggio… Sono certa che le ragioni sono logistiche, ma viene chiedersi se il Festival consideri i romanzi storici roba da seminaristi, vero? That said, evento a due velocità. Stefan Hertmans, Belga dal nome fiammingo che parla un favoloso Inglese, è chiaramente qualcuno che ha pensato molto a un genere di cui – dice – lui scrive ai margini. Di conseguenza ha un sacco di cose interessanti (e in alcuni casi originali) da dire sulle eccezioni individuali che si trovano nelle testimonianze, sugli anacronismi borderline, sulle discrepanze tra memoria individuale e memoria collettiva, sul modo in cui il romanziere storico scrive (o cerca di scrivere) la storia “da dentro”, sull’emergere narrativo dell’autore, sulla ricostruzione dell’esperienza e sull’equilibrio tra ricerca e percezioni moderne. Per contro, temo che Luigi Guarnieri suoni terribilmente vago e scontato – nonostante le buone domande di Marcello Flores. Una strana faccenda, alla fin fine. Conversazione intelligente e stimolante sul lato belga, e una serie di cauti luogi comuni su quello italiano.

9. Come trovare una storia meravigliosa. A dire il vero, mi aspettavo tutt’altro. Sulla base della descrizione dell’evento nel programma, mi aspettavo un’esplorazione del rapporto tra ispirazione e tecnica in una serie di autori men che scontati. Invece Chicca Gagliardo (che ha una voce deliziosa), ha presentato una galleria un po’ sconnessa di ispirazioni personali – le sue “conchiglie”, intese festival15bcome semi narrativi trovati qua e là tra letteratura, filosofia, cinema, immagini e vita d’ogni dì. Molta enfasi sulla rottura degli schemi, ma nulla o quasi sui meccanismi della trasformazione delle conchiglie in narrativa. Carino, gradevole, onirico, etereo. E – anche se forse al colpa è delle aspettative con cui ero arrivata – più che un po’ gratuito.

Ed è così che finisce il mio Festival 2015, con l’ultima passeggiata per il centro vivo ed affollato – e per ricordo una spilla completa di libricino in miniatura. È stato piacevole, divertente, a tratti irritante e a tratti stimolante. L’anno prossimo ci sarà l’edizione del ventennale… Vedremo.

 

 

 

Set 11, 2015 - Festivaletteratura    Commenti disabilitati su Piccolo Bollettino Festivaliero

Piccolo Bollettino Festivaliero

programmaMantova in questi giorni è in piena fibrillazione festivaliera, e sto festivaleggiando anch’io.

Un certa quantità di eventi, scelti per varie ragioni e – fin qui – con esito variabile.

Questo è un rapido bollettino su come è andata (o non è andata) in questo paio di giorni.

1. Tutto il resto è storia. Alessandro Barbero e Bianca Pitzorno a bagolare di romanzi storici. I libri di Bianca Pitzorno, lo sapete, non mi piacciono nemmeno un po’ – anzi. Barbero in compenso mi piace davvero tanto, come pure i suoi libri – e l’argomento era decisamente after my own heart, così sono andata. Sentire la signora Pitzorno scagliarsi contro la pratica dell’anacronismo psicologico è stato un momento davvero surreale… Il genere di cose che porta a farsi delle domande. Domande di questo genere: ma davvero non si renderà conto di quanto i suoi romanzi siano pieni di sesquipedali anacronismi psicologici? Mah. Barbero in compenso è sempre una delizia. Come ha commentato la diciassettenne S., “ha una luce negli occhi quando parla di storia”. Colto, gradevolissimo, brillante – e con questo entusiasmo che trascina: che si può volere di più da un divulgatore e occasionale romanziere storico? Non che sia emerso alcunché di terribilmente originale in fatto di romanzi storici, ma nel complesso un gradevole evento. Devo rimarcare una cosa, però: qualità delle “domande dal pubblico” davvero abissale.

2. Scrittura femminile e scrittura maschile? Paolo Colagrande ed Elisabetta Bucciarelli, moderati da Afro Somenzari. A questo, confesso, sono andata perché penso che la distinzione sia, in gran parte e nel modo in cui viene usata, una fiera del luogo comune – ed ero curiosa di sentirne discutere in modo sistematico. In realtà la faccenda si è rivelata un esempio del motivo per cui il Festival a volte mi lascia alquanto perplessa. La discussione è stata condotta più o meno così: “Si dice che ci siano una scrittura maschile e una femminile; che cosa ne pensano i nostri scrittori?” E i nostri scrittori… mah. La Bucciarelli ha elencato qualche luogo comune in proposito – e poi ben presto ha cominciato a parlare del suo libro. Colagrande ha fatto qualche sforzo in più, divagando simpaticamente, confessandosi dubbioso sull’esistenza stessa del problema, e suggerendo la possibilità che le scrittrici contemporanee siano più brave/interessate/coraggiose nell’esplorare l’animo e il punto di vista maschili di quanto la controparte maschile sia nel fare l’operazione speculare. Dopo la seconda domanda, Somenzari ha abbandonato ogni pretesa che l’incontro avesse a che fare con il suo titolo. A suo credito, Colagrande ha parlato del suo libro solo dietro sollecitazione del moderatore, non si prende troppo sul serio ed è davvero simpatico – cosa che la Bucciarelli e Somenzari tentavano di essere a tutti i costi. Con risultati modesti.

3. Dialogare in scena. Magdalena Barile ha tempestato di ottime domande Michele Santeramo. Un dialogo intelligente tra autori teatrali – in fatto di rapporto tra scrittura e scena, di metodo, di stile, di lavoro con le compagnie, di mestiere e di ispirazione. In più, Santeramo ha letto (bene) una versione ridotta del suo monologo “Storia d’Amore e di Calcio” – che è forse è più un racconto che altro, ma originale, intelligente e molto ben scritto. Ottimo.

4. Le parole della distanza. Beppe Severgnini e Stefania Chiale hanno raccontato il giornalismo di viaggio da America Primo Amore di Soldati ai reportage d’oggidì. Raccontato e letto, in dialogo frizzantino e con ottimo accompagnamento musicale al pianoforte. Brioso e gradevolissimo.

5. Mille anni di scrittura occidentale. Paolo Cammarosano, medievalista e diplomatista e Matteo Motolese, storico della lingua, hanno raccontato del rapporto strettissimo tra l’evolversi tecnico e tecnologico della scrittura e quel che con la scrittura si fa. Tra Boccaccio pessimo copista di se stesso e le colorite ingiurie in volgare registrate dai notai, tra grammatica, ortografia, abbreviazioni e invenzioni, è stato un excursus colto e brillante su come s’intreccino tecnica, arte, pensiero e necessità quotidiana. Interessantissimo – e un livello di domande del pubblico che ha stupito i relatori. Cultori di paleografia e diplomatica – lettori di romanzi storici, 5-0.

Insomma, se scontiamo l’irritazione profonda per il n° 2, direi che il bilancio per ora è decisamente positivo. In più, posso dire che l’atmosfera in città è animata e piacevole, e che il gelato della Maison du Chocolat è un’esperienza da fare una volta nella vita – magari tra un evento e l’altro…

Set 11, 2013 - Elsewhere, Festivaletteratura, guardando la storia, romanzo storico, teatro    Commenti disabilitati su Su BooksBlog

Su BooksBlog

festivaletteratura, somnium hannibalis, booksblog, sara raniaIl post di oggi sembra essere al fulmicotone, perché di fatto consiste in un link – ma non allarmatevi: il link conduce all’intervista che, dopo avere visto Somnium Hannibalis davanti alla Rotonda di San Lorenzo, Sara Rania mi ha fatto per BooksBlog.

In pieno Festivaletteratura, sedute al tavolino di un caffè in Piazza Mantegna, Sara e io abbiamo fatto una chiacchierata su teatro e romanzi, storia e romanzi storici… Il genere di cose da cui non mi so (ne mi voglio) tirare indietro. Anzi, una volta che sono partita, per fermarmi bisogna abbattermi a sediate.

Sara è riuscita a stringare e concentrare le mie ciacole, e potete leggere il risultato qui.

Oh, e il Somnium è andato molto, molto, molto bene. Tanto che non ho nulla di esilarante e disastroso da raccontarvi… Mi verrebbe da scrivere che gli spettacoli felici si somigliano un po’ tutti e gli spettacoli infelici sono infelici ciascuno a modo suo, ma non è vero.

È che è andato proprio bene: intenso, ben ritmato, bello a vedersi… Onestamente, che si può volere di più?

Set 10, 2012 - Festivaletteratura, grillopensante, libri, libri e libri    Commenti disabilitati su Festivaletteratura 5 – Pierre Bayard

Festivaletteratura 5 – Pierre Bayard

festivaletteratura, pierre bayard, piero dorfles, danilo mainardiE per finire, Pierre Bayard.

L’uomo secondo cui per descrivere in profondità un posto occorre non esserci mai stati – come Chateaubriand, che rifiutava di visitare le rovine di Argos per non perdere la prospettiva. E specularmente Magris che, alla domanda “Che cosa si perde scrivendo?”* rispondeva, tra le altre cose, l’immediatezza. Perché per scrivere – e descrivere – serve la distanza. Serve il distacco. Serve la prospettiva, appunto.

Ma, soprattutto, Bayard è l’uomo dell’Interventismo Critico, pratiche di critica letteraria che manipolano i testi – pur senza modificarne una parola. Piuttosto si tratta di inclinarli a 45°, tingerli di violetto e giocarci una serie di what ifs paradossali, paradossalissimi.

La Critique Policière, per esempio, o “Critica d’Indagine” dalle nostre parti. Perché se nella realtà ci sono assassini che la fanno franca, che cosa impedisce che accada lo stesso in letteratura? E a badarci bene, siamo proprio sicuri che Edipo abbia ucciso Laio? O che il pur poco simpatico Re Claudio di Danimarca abbia ucciso suo fratello? O che Poirot e Holmes abbiano scoperto il vero colpevole ne L’Assassinio di Roger Ackroyd e Il Mastino dei Baskerville? Ecco, Bayard sostiene di no. Secondo lui in ciascuno di questi casi è possibile smontare il meccanismo e raggiungere una soluzione diversa da quella offerta dall’autore… Ma a che pro? Domanda Piero Dorfles – ottimo moderatore. Ebbene, dice Bayard, per scavare nelle complessità inattese di questi testi, e magari ristabilire la giustizia letteraria…

Ma d’altra parte, c’è ben altro che si può fare con un libro. E considerando che il titolo dell’incontro è “Il piacere di riscrivere i libri,” nessuno si stupisce più di tanto quando, in seconda battuta, Bayard proponte la Critica del Miglioramento. Chi non ha mai pensato che la Recherche proustiana o le opere di Lacan trarrebbero beneficio da qualche piccola potatura? Scherzi a parte, la ri-scrittura è una tradizione vecchia come le colline – vecchia come la narrativa stessa, e non c’è autore che non si sia riscritto, cambiando idea un sacco di volte, e generando testi fantasma ad ogni biforcazione – strade non percorse, come i futuri abortiti di Magris, oppure percorse e poi abbandonate. Personalmente, non posso fare a meno di pensare al Sigognac suicida che era nelle intenzioni di Gautier, oppure al Lord Jim di mezza età che emerge da un appunto scartato da Conrad…

Ma spingiamoci oltre, esorta Bayard. Proviamo, con la Critica della Riattribuzione, a supporre che l’Étranger sia opera di Kafka, anziché di Camus… E qui mi par di sentire rumor di punti interrogativi che s’infrangono contro i vostri schermi. A quanto pare, tutto nasce dall’amico serbo di Bayard, che vedeva nel libro in questione non una storia d’incomunicabilità, ma una contrapposizione individuo/sistema. Ed ecco che in quest’ottica, dovuta alle esperienze del lettore serbo, la storia si faceva kafkiana.

E per finire, se proprio vogliamo essere eccentrici, c’è anche la Critica Fantascientifica, secondo cui la letteratura non funziona linearmente in termini di spazio né di tempo. Secondo Bayard, è un fatto che molto scrittori hanno descritto in anticipo fatti futuri della loro vita – o morte, come è il caso di Pushkin, Lenskij e il duello. E su questo devo confessare qualche dubbio, perché un sacco di gente muore nelle opere di Pushkin, e quindi se fosse morto d’infarto si potrebbe dire che lo aveva prefigurato nella Dama di Picche, mentre se fosse morto folle o annegato se ne sarebbe potuto vedere il presagio letterario nel Cavaliere di Bronzo… Così come digerisco male il plagio in anticipo, secondo cui non sarebbe Freud a rileggere Sofocle, ma Sofocle ad anticipare Freud…

Ma non dimentichiamoci che tutto questo è un gioco d’ipotesi, e il plagio in anticipo è un’idea off-kilter che Bayard presta al narratore di Le demain est écrit, per porre delle domande e giungere ad affermare che nella percezione del lettore i testi s’influenzano a vicenda: dopo avere letto Freud, non guardiamo più a Sofocle con gli stessi occhi, e viceversa…

Così come non è davvero questione di leggere l’incendio di Atlanta e le paure di Rossella O’Hara alla luce di un’improbabile autorship tolstojana, quanto di riconoscere che lo stesso testo assume significati diversi a seconda dell’ottica in cui viene letto – e quindi perché non provare a ipotizzare un’ottica diversa?

Tutti i giochi e i paradossi di Bayard funzionano così: domande che, una volta poste, fluidificano la percezione del testo, spingono a considerarlo in modi nuovi e inattesi, e magari conducono a trovarci sfumature, complessità e ricchezze nuove.

***festivaletteratura, pierre bayard, piero dorfles, danilo mainardi

E io credevo a questo punto di avere finito, ma in realtà c’è stato ancora tempo e spazio per una visita alla bellissima mostra “Lettori” nell’atelier di Jori** e poi per la chiacchierata del Professor Mainardi – quello di Quark – che raccontava di essersi messo a scrivere gialletti etologici, divertendocisi un mondo e studiando per l’occasione le necessità della scrittura narrativa. “A un certo punto mi sono reso conto di avere scritto tre capitoli senza che ci fosse una singola riga di dialogo, e allora mi è venuto il dubbio: forse dovevo imparare la tecnica.” “Per il personaggio del giovane ricercatore mi sono ispirato a me stesso alla sua età, e d’altra parte ero la persona che conoscevo meglio. Ma la voce non funzionava, e allora mi sono fatto insegnare un po’ di turpiloquio contemporaneo dai miei studenti.”  “Il meccanismo della suspense, che è utilissimo anche quando si scrivono documentari, l’ho imparato da un saggio di Patricia Highsmith.” Simpatico, garbatamente brillante e pieno di self-deprecating humour, e ha concluso raccontando che si comincia a ipotizzare che le tigri possiedano un senso della proprietà – e un senso della vendetta. Molto kiplingiano, non vi pare?

Dopodiché una cena a suon di musica in Piazza Erbe ha concluso il mio Festivaletteratura 2012. Magari ne riparleremo nei prossimi giorni, ma intanto confermo il verdetto di venerdì: ho avuto modo di incontrare di nuovo Seamus Heaney, mi sono divertita, ho imparato, ho fatto qualche scoperta e ho portato via delle domande su cui rimuginare.

Non male, direi.

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* Ne riparleremo…

** E anche di questo riparleremo.

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Oh, e buon compleanno, G.

Festivaletteratura 4 – Bruno Gambarotta

Questo post è per Alessandro Forlani, che di Da Ponte è un serio ammiratore e si sarebbe divertito, credo, alla conferenza di Gambarotta – salvo forse per l’aria condizionata assassina.

festivaletteratura, bruno gambarotta, lorenzo da ponteGambarotta racconta con brio ironico, e la storia di Da Ponte si presta bene. Personaggio da romanzo, questo Ebreo veneto convertito a quattordici anni insieme alla famiglia, prete controvoglia, libertino seriale, viaggiatore sull’onda di processi e debiti, scandalizzatore di professione, poeta di corte, librettista, delatore, imprenditore di scarsa lungimiranza, fuggitivo transoceanico, droghiere, professore d’Italiano, promotore dell’opera italiana, memorialista…

Non si è fatto mancare molto, in vita sua, il buon Da Ponte, reinventandosi più volte con ammirevole faccia tosta.

Per dire, arriva a Vienna con l’intento di diventare librettista, e Salieri lo presenta all’imperatore melomane.

“E quanti drammi ha composto finora, Herr Da Ponte?” chiede Giuseppe II.
“Maestà, nessuno,” è la risposta – al che l’imperatore fa un gran sorriso.
“Bene, bene, bene. Vuol dire che avremo una musa vergine.”

E bisogna dire che Giuseppe avesse buon occhio, perché la musa vergine se la cavò benissimo e, quando Mozart arrivò a Vienna, cercando un librettista scelse subito il famoso e occupatissimo Da Ponte.

E qui si sfata l’idea diffusa di Da Ponte come appendice viennese di Mozart. In realtà, all’inizio, Mozart è un musicista squattrinato, cacciato a calci dall’entourage dell’Arcivescovo Colloredo per aver voluto restare a Vienna. È lui a corteggiare il librettista celebre, che dapprincipio è troppo preso per occuparsi di lui. Mozart diffida dell’amabile Italiano e lo teme in combutta con Salieri. Il sodalizio che produce Le Nozze di Figaro, Don Giovanni e Così Fan Tutte non è un sodalizio affatto. È una collaborazione prodigiosa e un po’ diffidente, per nulla aiutata dalla foschia linguistica che separa i due: l’uno non parla bene il Tedesco, l’altro mastica poco l’Italiano…

Nondimeno, ne escono tre capolavori – per quanto il successo delle Nozze sia lento a venire: troppo complessa e intricata, troppo rivoluzionaria, troppo lunga per la cena di Sua Maestà Imperiale… L’opera di Da Ponte e Mozart rompe con la tradizione in tutti i sensi, e i melomani viennesi son perplessi per una trama che va seguita con attenzione, recitativi rilevanti, idee rivoluzionarie in forma giocosa – nonostante Da Ponte abbia smussato gli spigoli più taglienti di Beaumarchais.

Ma poi c’è Praga, e c’è il Don Giovanni, e c’è il recupero viennese con il gioco elegante e cinico del Così

E qui il povero Da Ponte esce dal radar della percezione generale, dopo esserci passato solo come rovescio della medaglia mozartiana. Il che è profondamente ingiusto, a pensarci bene, perché la collaborazione era paritaria, perché l’audacia c’era da entrambi i lati, perché forse Da Ponte non millanta quando rivendica l’idea del Don Giovanni. Non sarebbe stata la prima volta che faceva calcolo sullo scandalo: non si era forse fatto un nome a Venezia facendo sobbalzare tutta un’Accademia con l’invettiva antinobiliare à la Rousseau? 

E poi non è come se Da Ponte scomparisse nell’uscire dal cerchio della luce di Mozart. In tutta probabilità avrebbe continuato la sua brillante carriera a corte, se solo al successore di Giuseppe II fosse piaciuta un pochino l’opera… Ma essendo Leopoldo quel che era, il Nostro passò ad altri successi a Londra, salvo poi fuggirsene per non finire a Marshalsea per debiti. E sull’altro lato della Tinozza, è vero, cominciò da droghiere a Philadelphia, ma poi finì padre della cultura italiana a New York: la prima cattedra di Letteratura Italiana al Columbia College, la prima biblioteca italiana, il primo teatro d’opera… festivaletteratura, bruno gambarotta, lorenzo da ponte

Per la New York del primo Ottocento, Da Ponte era l’Italia. Un’Italia forse un poco ripiegata sul secolo passato, ma colta, musicale e raffinata, amabile e molto amata. E quindi è ingiusto ricordarlo soltanto nell’ombra di Mozart – e di certo il suo fantasma se ne duole. È facile immaginare un fantasma di Da Ponte, infaticabile com’era da vivo e con lo stesso gusto del momento drammatico. Ed è facile immaginare che, se ieri pomeriggio fosse stato all’aula magna dell’Università di Mantova, gli sarebbe piaciuto sentire Gambarotta occupato a rivendicare la sua fama postuma.

Festivaletteratura 3 – Claudio Magris

festivaletteratura, claudio magris, danubio, microcosmi, realtà e immaginazioneTrattandosi di me, era quasi un miracolo che non fossi ancora arrivata in ritardo a nessun evento del Festival – e infatti è successo ieri: quando sono approdata in Piazza Castello, Claudio Magris aveva cominciato a parlare da quasi dieci minuti…

Per cui, spero di non avere perso nulla di troppo fondamentale – o quanto meno, nulla che abbia pregiudicato la mia comprensione di quel che ha detto dal decimo minuto in poi*.

Detto ciò, l’incontro s’intitolava “La verità è più bizzarra della finzione” e, quando sono arrivata, Magris stava raccontando di come, da scrittore approdato alla narrativa in seconda battuta, si sia sempre sentito un appassionato compilatore di realtà – e illustrava questa sua propensione raccontando di come (da bambino, presumo) lo affascinasse copiare lunghe liste di nomi, per esempio l’elenco dei trattato franco-spagnoli: Oviedo, Pamplona e altri nomi dal suono di leggenda…

L’idea mi è piaciuta molto (non ho più bisogno di confessare il fascino che i nomi esercitano su di me), ma non sono certissima che l’esempio illuminasse l’assunto di partenza. Voglio dire, può darsi benissimo che catalogare equivalga a interpretare la realtà, ma a quei cataloghi di nomi il piccolo Magris non era attratto dalla realtà un po’ tediosa dei trattati, bensì dalle immagini irreali – irrealissime – evocate dal suono dei nomi stessi, forse associati a memorie di cantari cavallereschi.

“Nomi che sembravano usciti dalle leggende come gli elenchi dei paladini nelle gesta di Orlando,” ha detto.

E allora sarà anche vero che “la realtà si afferma sempre,” come diceva ieri Magris adulto, ma forse il Magris bambino non se ne curava ancora granché.

Ma ecco una storia di anni più recenti, del Magris neo-narratore, sempre irresistibilmente “attratto dalla realtà” e alle prese con la storia (vera) dei Cosacchi trapiantati in Carnia nell’illusione di ricostituire uno stato cosacco. Non finì bene: l’ataman di questi esuli, il generale Krasnov, finì per arrendersi agli Inglesi, che promisero di non consegnarlo ai Sovietici, poi ruppero la promessa e lasciarono che fosse rimpatriato, condannato a morte e impiccato. Di questa storia circolò a lungo, e forse non è ancora del tutto cancellata, una romantica versione alternativa, secondo cui il generale Krasnov morì gloriosamente in battaglia. E Magris, che a questa tragedia cosacca aveva dedicato il suo primo racconto e, prima ancora, un lungo articolo per il Corriere della Sera, raccontava ieri di essersi ritrovato incapace di sposare senza riserve la versione storicamente provata. E non solo, badate bene, nel racconto, ma persino nell’articolo, che aveva consegnato al Corriere lardellato di condizionali, se, ma, e ogni possibile forma dubitativa conosciuta alla lingua italiana.

L’attrazione per la realtà? La realtà che si afferma sempre?

Per spiegarsi, Magris ha preso a prestito da Ernestina Pellegrini il concetto di futuri abortiti, ovvero quelle possibilità alternative che sono esistite concretamente finché i fatti non hanno preso un’altra direzione. Il generale Krasnov avrebbe potuto davvero morire in battaglia.

Vero, ma non sono certa che questo costituisca un trionfo della realtà sull’immaginazione, perché di fatto Krasnov non è morto in battaglia, e se la morte in battaglia ha un grado di realtà ipotetica superiore a quello, diciamo, dell’assunzione del generale al cielo in un cocchio, non ha standing di fronte alla effettiva e brutale realtà del tradimento inglese e dell’impiccagione. Quindi, i Cosacchi preferiscono raccontarsi la storia alternativa, e i persino i cronisti appassionati di realtà esitano a smentirla del tutto, perché è bella – ma non è particolarmente reale.

Così come, quando Magris dichiara di ispirarsi sempre a fatti reali per le sue storie, e si riconosca in quel personaggio del suo Danubio che ha scritto quasi sei chili di libro per descrivere nel più minuto dettaglio un piccolo tratto di fiume, e per quanto professi una meticolosa attenzione come forma di rispetto verso la realtà, io non dubito che tutto ciò sia vero, ma fatico a vedere un trionfo della realtà nella vicenda (reale) dell’uomo che raccontava la sua storia con le parole con cui Magris lo aveva raccontato in Microcosmi.

Se stesse a me, sarei tentata di leggere questa faccenda à la Greenblatt: la realtà dell’uomo ha dato sostanza alla storia di Magris, che poi ha finito col modificare la percezione della realtà dell’uomo ai suoi stessi occhi. Realtà e immaginazione qui mi sembrano davvero reciprocamente permeabili.

Così come quando si tratta di Stadelmann, il segretario di Goethe tolto dall’ospizio per commemorare il suo defunto padrone, e a sua volta morto suicida quindici giorni dopo avere fatto ritorno all’ospizio. “La storia è reale, ma le motivazioni del suicidio, quel che accadde dentro Stadelmann in quei quindici giorni, queste sono cose che deve supplire l’invenzione dello scrittore.” Il che è il naturale andare delle cose quando si scrive narrativa (o in questo caso teatro, credo) a sfondo storico – ma non mi colpisce come una decisa affermazione della realtà a spese dell’immaginazione…

E persino in ambito non narrativo, con Cavallari che descrive Paolo VI intento a contemplarsi le mani, “sgomento della loro fragilità”, qual è il grado di realtà di quello sgomento senza parole, sovrapposto al gesto del papa dall’immedesimazione del giornalista? 

E così ho ascoltato, affascinata – perché Magris parla bene, con acume e finezza – ma non convinta.

Mi sono sentita recuperata su altre affermazioni, come il fatto che la scrittura soffra della “concorrenza sleale” della realtà, perché non può esagerare, essere illogica, disordinata e inconcludente come fa la realtà. E così la scrittura si trova costretta a smorzare in verosimiglianza narrativa gli spigoli, le improbabilità e gli eccessi della realtà. La letteratura, diceva Balzac (o almeno credo che fosse lui) non dev’essere vera, ma verosimile. E, chiosava Magris ieri, non solo non deve, ma non può essere vera.

E però allora, I ask, non torniamo alla questione iniziale? La realtà smorzata e narrata non è in qualche modo una realtà immaginata? È vero, la realtà è più bizzarra della finzione – perché non ha il problema di non potersi permettere eccessi di bizzarria – ma questo le dà una sorta di superiorità gerarchica sull’immaginazione nel processo narrativo? Davvero la realtà si afferma sempre? Davvero la realtà esercita un’irresitibile attrazione?

Affascinante questione, affascinante incontro, affascinante collezione di quesiti. Finora, per quanto mi riguarda, il Festival è stato thought-provoking, che è un’ottima qualità. Fino a ieri quanto meno, mi pronuncio soddisfatta.

 

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* In caso contrario, sono sul punto di abbaiare all’albero sbagliato per molti paragrafi, in una figuraccia epica. Credo e spero di no, ma se così fosse, mi perdoni Professor Magri – e perdonatemi, o lettori.

 

Set 7, 2012 - Festivaletteratura, grillopensante, guardando la storia    Commenti disabilitati su Festivaletteratura 2 – Stephen Greenblatt E Barbarina

Festivaletteratura 2 – Stephen Greenblatt E Barbarina

festivaletteratura, stephen greenblatt, palazzo ducale, barbara gonzaga wurttembergE ieri, per cominciare, Stephen Greenblatt nel cortile dell’Archivio di Stato*. Greenblatt è il babbo del cosiddetto Nuovo Storicismo, non tanto una teoria quanto una serie di pratiche critiche intese a inserire la letteratura nel suo contesto storico concreto – che plasma e da cui è plasmata al tempo stesso. Se ne può discutere, e se ne discute non poco, ma anche solo a livello intuitivo dire, come fa Greenblatt, che “campo storico e campo letterario sono reciprocamente permeabili,” ha un sacco di senso.

Ad ogni modo non lo ha detto ieri. Ieri ha raccontato la romanzesca storia del ritrovamento di un manoscritto: una copia del IX Secolo del De Rerum Natura di Lucrezio, scovato da Poggio Bracciolini in un monastero tedesco nel 1417 – dopo una decina di secoli d’oblio.

Poggio, umanista e arrampicatore, segretario apostolico in disgrazia con l’ossessione per i libri antichi, è un singolare personaggio cinico e inaffondabile cui, oltre a Lucrezio, dobbiamo una notevole collezione di ritrovamenti, da Cicerone a Vitruvio, passando per i Punica di Silio Italico. Forse, con la sua carriera  variegata e le sue spregiudicate ricerche nelle abbazie tedesche, meriterebbe un romanzo. Nel frattempo, Greenblatt racconta di lui con vivacità e abbondanza di particolari, ma non è Poggio il protagonista di questa storia.

Al centro di The Swerve, How the World Became Modern, c’è Lucrezio, con il suo universo fatto di vuoto e di atomi, concetto enormemente esplosivo nel primo Quattrocento. E c’è il modo in cui questo mondo impregnato di tradizione cattolica era maturo per conservare, ruminare e trasmettere anche le idee pericolose. E c’è il fatto che Poggio il Cercatore era figlio del suo tempo quando ritrovava i testi perduti destinati a cambiare la mentalità della sua epoca.

Fascinating stuff, raccontata con brio** e condita di stimoli e domande sulla storia, la letteratura, le idee, la loro forma letteraria, la loro diffusione e il loro permanere nei secoli.

E un quesito finale: La scarsa accessibilità ha rischiato d’inghiottire il De Rerum Natura, ma poi l’estrema durevolezza del suo supporto l’ha restituito all’umana rimuginazione. E nella nostra epoca di estrema accessibilità e pari transitorietà, quali sono le possibilità per un libro di attraversare i millenni?

Ecco, se dovessi azzardare una risposta alla domanda lasciata da Greenblatt, direi questo: per il volo millenario del De Rerum Natura, alla pratica d’uso di supporti durevoli si sono dovute combinare la diligenza di un amanuense e l’ostinazione di un umanista. E quindi forse servono ancora le stesse cose: diligenza e ostinazione – combinate adesso con la vasta accessibilità? 

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E poi c’è stafestivaletteratura, stephen greenblatt, palazzo ducale, barbara gonzaga wurttembergta l’inaugurazione della mostra su Barbarina Gonzaga maritata Württemberg, a Palazzo Ducale. Che emozione far parte del primo gruppo di visitatori ammesso nelle sale del Palazzo dopo il terremoto. Qua e là si trovano ancora i ponteggi, e il percorso attraversa zone nuove – dalla Sala dello Specchio, dove si tenne la prima rappresentazione dell’Orfeo monteverdiano*** agli appartamenti dell’Imperatrice, all’appartamento vedovile di Santa Croce dove, tra l’altro, è allestita la mostra proveniente da Stoccarda.

Povera Barbarina Gonzaga, andata sposa in Germania e malata di nostalgia di casa, che trascorse tutta la sua vedovanza a chiedere di far ritorno a Mantova e non poté mai. E adesso, lo si è ripetuto spesso oggi pomeriggio, la si è riportata in spirito, dopo un’attesa di cinquecento anni, nel palazzo della sua infanzia – un po’ ammaccato ma saldo al suo posto. Anche questo è un ritorno, una persistenza, un ritrovamento.

Si direbbe che non siano soltanto i libri a ritornare.

 

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* Cui, sappiatelo per futuri eventi – specialmente nel caso in cui indossiate tacchi alti e sottili e, di conseguenza, non desideriate fare passi non necessari – non si accede dall’ingresso dell’Archivio, ma da Via Dottrina Cristiana.

** E di nuovo, nota di merito alla bravissima e simpatica interprete.

*** Avevo citato la sala, insieme all Corridore della Pergola, ne Lo Specchio Convesso, ma senza averli mai visti altro che in disegno nelle piante del palazzo.

Set 6, 2012 - Festivaletteratura, Poesia    Commenti disabilitati su Festivaletteratura 1 – Seamus Heaney

Festivaletteratura 1 – Seamus Heaney

Ok allora, funziona così: fino alla fine di questa settimana, anziché un post consistente ogni due giorni più il Bollettino Notturno, ci sarà un piccolo post quotidiano e festivaliero. Sul Bollettino non mi pronuncio – molto dipenderà da quel che riesco a fare, perché infilare cinque post come quello di ieri sera non mi pare né divertente né istruttivo.

festivaletteratura, mantova, seamus heaneyDetto ciò, onwards, e cominciamo con Seamus Heaney, ormai civis mantuanus. , come lui stesso si è definito nel discorso con cui ha accettato la cittadinanza onoraria.

Nonostante qualche apprensione della deliziosa Mrs. Heaney, ieri sera il Cortile della Loggia di Palazzo S. Sebastiano era pieno come un uovo. E un uovo festoso: Mantova si era già innamorata del suo nuovo Virgilio lo scorso anno, ed è accorsa in abbondanza, aspettandosi qualcosa di speciale.

Non è rimasta delusa.

Dopo una presentazione di Massimo Bacigalupo (Università di Genova), che dell’opera di Heaney ha messo in rilievo la dualità tra fondamenta classiche e rigore formale da un lato, e una qualità fisica, quasi terragna, dall’altro, il poeta in persona ha introdotto e letto sei delle sue poesie. Ad affiancarlo c’era il poeta e accademico virgiliano Mario Artioli, ottimo lettore delle traduzioni*.

Ascoltare un’opera dalle labbra del suo autore, così come l’autore l’ha concepita, con il ritmo, la voce, il colore e le enfasi (o mancanza di) con cui è stata pensata e voluta, è diverso da qualunque altra possibile lettura – a patto di essere fortunati e incappare nell’autore che sa fare questo mestiere. E Heaney lo sa fare con una meravigliosa spontaneità, autorevole e unassuming al tempo stesso. E per di più è un parlatore profondo, intenso e ironico, dalla voce ghiaiosa e dal sorriso pronto. Ascoltarlo mentre sollevava appena il velo dalla meraviglia dei suoi lavori, rivelando lampi d’ispirazione, aneddoti famigliari, ricordi di scuola, ostriche, aquiloni, tinche melmose e punti di vista sulla poesia, è stata un’esperienza affascinante oltre ogni dire.**

E sì, sono in completa adorazione nei confronti di quest’uomo e della sua poesia, ed è molto probabile che il resto delle mie cronache festivaliere sia un nonnulla meno lirico, ma lasciate che mi diffonda ancora su una qualità speciale della poesia di Seamus Heaney: l’iridescenza del linguaggio.

Bacigalupo ne ha parlato a proposito dei titoli heaneyani, che hanno sempre più di un significato – ma in realtà questo è vero di ogni verso, in cui le parole si allacciano sempre in un sovrapporsi di strati di significato, assumendo colori diversi a seconda di come li colpisce la luce dell’attenzione del lettore. Lo ripeto: iridescenza è l’unica parola adatta.

Magari potrebbe esservi venuta voglia di leggere qualcosa di questo straordinario poeta, e potete farlo sia in originale (caldamente consigliato) che in traduzione italiana. Qualche raccolta: Station Island, The Haw Lantern (La Lanterna di Biancospino), District And Circle, Electric Light, Human Chain (Catena Umana)…***

Ah no, scusate: ancora un’ultimissima cosa che mi sta molto a cuore. Mi è davvero piaciuto il modo in cui sia Bacigalupo che Heaney hanno insistito sul fatto che in poesia (ma si può dire in letteratura in generale, e in realtà in qualsiasi forma d’arte) la forma è sostanza. Arte = formalizzazione dell’esperienza.

E con questo ho davvero finito. A domani, Festival.

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*Nota di merito anche al bravo interprete – di cui, mi vergogno un filo ad ammettere, mi è sfuggito il nome.

** E qui potrei dire di avere goduto di questo genere di conversasione in forma privata per tre magnifici giorni lo scorso ottobre, quando sono stata la sua interprete e guida in occasione del Premio Virgilio. Potrei persino dire che oggi pomeriggio, durante l’acceptance speech, ha ricordato la mattina in cui la sua interprete e guida lo ha accompagnato a conoscere per la prima volta il Mincio di Virgilio… Ma non lo farò. Sperio che apprezziate l’eroico self-restraint di cui dò prova non facendolo. Perché è ovvio che le note non contano.

*** Sono tutte tradotte (mi pare per Mondadori). Dove non ho indicato un titolo in Italiano è perché la raccolta è stata pubblicata con il titolo originale.