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Giu 7, 2010 - grilloleggente    Commenti disabilitati su Pezzettini di Teschio: parte III – in cui si parla di casse di sapone

Pezzettini di Teschio: parte III – in cui si parla di casse di sapone

Scatole di sapone è un modo di dire, naturalmente. Get off the soap-box, ovvero scendi dalla scatola di sapone, significa: piantala di predicare. E’ un invito che avrei volentieri rivolto alla signora Scott, molte volte in corso di lettura.

A tutti piacciono i libri con un messaggio; a tutti piace che il messaggio arrivi attraverso le scelte di personaggi convincenti, messi alla prova in una trama avvincente e imprevedibile; a tutti piace assai di meno quando il messaggio viene ripetutamente sbattuto sulla testa del lettore attraverso il semplice meccanismo di far predicare i personaggi. Predicare, predicare, e ancora predicare.

 

Oh no, ripetono ad nauseam I Buoni del TdC, non crediamo affatto che ci sarà qualche apocalisse soprannaturale nel 2012: crediamo invece che l’improvvida umanità per allora sarà riuscita a distruggere questo meraviglioso mondo che abitiamo.

 

Un momento, però: l’umanità? No, è chiaro, non tutta l’umanità, bensì l’egoistico, capitalistico, consumistico, guerrafondaio Occidente! Perché, vedete, gli sciamani Lapponi, che conducono una vita semplice e pura tra le nevi perenni sono innocenti e buoni. Loro non distruggerebbero mai il mondo, loro. Così come le altre brave persone che conducono vite altrettanto semplici e pure, che so, nelle savane, nei deserti, nelle steppe…

 

E sapete, tuttavia, chi è ancora peggio di un Occidentale? Provate a indovinare… ci siete quasi… fuochino, fuochino… Fuoco: un Occidentale maschio! Perché non so voi, ma mi rifiuto di credere che sia un caso se tutti i papabili assassini sono uomini, e tutte le donne del libro sono invece buone, sagge e capaci. L’Autrice non tenta mai nemmeno per sbaglio di insinuare il più lontano dubbio su Ursula Walker, Najakmul, Martha o Stella. Persino nel breve interludio con la Polizia dello Yorkshire, l’Ispettore (maschio) è un idiota superficiale e pieno di sé, e i neuroni in dotazione al reparto li ha tutti il Sergente (femmina). Tutte le donne del TdC sono profonde, intuitive e pure di cuore. Nella peggiore delle ipotesi, anche quando sono ossessionate da teorie bizzarre (e allora però sono meno che comparse), sono in buona fede. Il solito Davy Law ci dice che non ha mai visto una fossa comune di cui fosse responsabile una donna. Yawn. Gli uomini, invece, oh gli uomini hanno tutti le loro debolezze, I loro secondi fini, le loro zone d’ombra, il loro lato oscuro – il che, si potrebbe sostenere, fa di loro dei personaggi più complessi, ma ho tanto il sospetto che questa non fosse la preoccupazione principale dell’Autrice.

 

E chiudiamo l’argomento con un ultimo indovinello: Chi è persino peggio di un Occidentale maschio? Ma un militare maschio occidentale, ça va sans dire! Prendiamo Antony Bookless. Ci viene ripetuto in continuazione (e in un modo che vorrebbe essere sottile) che Antony Bookless è stato ufficiale dell’Esercito, che ha prestato servizio nell’Irlanda del Nord, che è stato un consulente militare per l’Iraq, e che è ancora uno storico militare. E’ vero, alla fin fine non è lui l’assassino, ma è chiaro che l’Autrice si aspetta da noi che diffidiamo di un uomo con un background militare. E una volta di più, qualora qualche lettore particolarmente denso avesse mancato di cogliere l’ovvia implicazione, il solito Davy Law, il Reietto Brutto e Incompreso, dal Cuore d’Oro e dalla Lingua Tagliente è lì per dirlo a chiare lettere: Bookless ha portato un’uniforme! Come ci si può fidare di lui?

 

Infine,  la ciliegina sulla torta: si direbbe che all’Autrice sia dispiaciuto un po’ non poter fare del Maggiore (o era Colonnello?) Bookless l’assassino. Perché sarà un caso, un candido, perfetto, assoluto caso, ma quando la malvagità, colpevolezza e avidità  del fintamente gioviale Fraser si rivelano nel dénouement, indovinate che cosa assume la sua voce? Una durezza militare!

 

Sottile, vero? Ma se vogliamo parlare di sottigliezza, la prossima volta ci occupiamo dell’Azzurra Pietra del Cuore.

 

Giu 3, 2010 - grilloleggente    2 Comments

Pezzettini di Teschio: parte II – in cui, a fini scientifici, si svela il finale

Lunga e interessante conversazione post-prove con la regista e il primattore, ieri sera: una di quelle cose in cui si parla d’arte, vita e massimi sistemi. Tra l’altro, facevamo paralleli tra il modo in cui un musicista ascolta musica e il modo in cui uno scrittore affronta roba scritta: sempre con un lobo del cervello teso a catturare struttura, elementi, costruzione, sviluppo e ammenicoli vari.

 

Il che mi porta ad applicare al TdC una considerazione che ieri sera applicavamo ai gialli televisivi, ma che vale per qualsiasi storia abbia un colpevole da smascherare.

 

Prima, però, badate bene e ritenetevi avvertiti: se non volete sapere chi è il colpevole nel Teschio di Cristallo, non leggete questo post.

 

Se non v’interessa, o se v’interessa meno dell’ingegneria delle trame, tirem innanz.

 

Allora, quando in un giallo si può indovinare l’assassino sulla base della meccanica della trama, allora qualcosa non funziona. Non sto parlando di logica, ma di puro e semplice processo d’esclusione, in base al quale certi personaggi hanno una funzione così evidente (fornire informazioni al lettore, esprimere le convinzioni dell’autore…) che non possono essere il colpevole. Ora, non voglio negare che ci sia un certo grado di costruzione nel TdC, ma è quasi tutta nella sezione elisabettiana: il lettore sa fin dal primo capitolo che qualcuno è morto nella caverna dove è nascosta la pietra, e a un certo punto scopre che si tratta di Cedric Owen. Come ciò sia possibile, visto che tutti e ciascuno non fanno che ripetere come Owen sia morto e seppellito a Cambridge, rimane l’unico, e intendo davvero l’unico, elemento di dubbio.

 

Per quanto riguarda il giallo contemporaneo, temo che sia svolto in modo un nonnulla goffo. Per cominciare, c’è il modo in cui Stella va raccontando il suo grande “segreto” a chiunque le capiti a tiro. Ben prima della crisi finale, mezza Cambridge sa della Pietra Azzurra, e anche diversa gente ad Oxford. E se parte della comunità accademica inglese rimane all’oscuro, è solo grazie alla cautela del resto della combriccola, perché Stella proprio non sembra conoscere il significato della parola “discrezione”.

 

Ad ogni modo, la loquacità di Stella provvede il lettore di una teorica serie di possibili colpevoli (con il dubbio aggiuntivo che Kit possa essere in combutta con qualcuno di loro), ma quando il colpevole alla fine è rivelato, non è una sorpresa.

 

No, è piuttosto uno di quei momenti ‘Embè?’, non so se mi spiego. Se c’è un personaggio che non mostra mai un’ombra d’interesse a possedere la Pietra, e anzi ne ha paura, quello è proprio Fraser, l’allegro, amichevole, speleologico, saggio, scozzesissimo Fraser. E’ vero, ci viene detto che in realtà Fraser fingeva soltanto di temere la Pietra, ma il punto è proprio questo: ci viene detto, e mai mostrato, neppure obliquamente, neppure per finta. Così come ci viene detto che Fraser ha cercato disperatamente la Pietra per trent’anni, ma a quanto pare nessuno lo sapeva, e la cosa salta fuori dal nulla nella terz’ultima pagina, quando Fraser sta puntando una pistola alla tempia di Kit, e spiegando tutto a tutti quanti.

 

Della spiegazione, d’altra parte, c’è un gran bisogno, perché non c’erano indizi che conducessero a Fraser. Non aspettatevi di battervi la fronte ed esclamare almeno una volta ‘ah, ecco dove conduceva in realtà questo particolare che sembrava condurre altrove! A posteriori, è così chiaro!” No. Non è chiaro nemmeno a posteriori. Non ce lo saremmo potuti aspettare, semplicemente perché non c’era nulla da aspettarsi in proposito, e questo, a parer mio, si chiama barare. Peggio ancora, si chiama barare goffamente, perché in realtà, per il processo di esclusione di cui sopra, visto che quella di Antony Bookless è troppo ovviamente una falsa pista*, e ci è stato ripetuto fino alla nausea che Stella e la Pietra si fidano di Davy Law, l’assassino poteva essere soltanto il cugino Lawrence oppure Fraser. Dei due, l’uno. E quando Lawrence non compare sulla scena del climax finale (e che ne è di lui, a proposito? Vaporizzato nell’incendio della casa di Ursula?), rimane un solo sospettato. All’autrice piacerebbe che dubitassimo fino alla fine anche di Kit, ma siamo sinceri: quand’anche foste un malvagio in pelli d’agnello, se il vostro complice tentasse (con un certo grado di efficacia) di farvi fuori a pagina dieci, sareste ancora il suo complice a pagina duecentonovanta?

 

E qualora tutto ciò non bastasse, badate bene a questo: dopo che ci è stato ripetuto in ogni possibile salsa che la Pietra è la chiave per salvare il mondo, a Fraser non importa un bottone dell’armageddon impendente, del folklore maya e lappone, e di tutto l’alone mistico della faccenda. Lui vuole la Pietra perché è “uno dei più grossi zaffiri al mondo.” Ah.

 

Mi piacerebbe sperare che la conclusione voglia essere ironica, ma temo di no. Temo tanto che l’autrice stia predicando. Sarà un caso che il vilain della storia sia proprio l’unico cui importa molto meno dei poteri mistici della Pietra che del suo valore in denaro? Cattivo, Fraser! Cattivo!

 

Ma è pur vero che una tendenza alla predicazione permea tutto il libro, come si vedrà nel prossimo post.

 

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* Per indicare una falsa pista, un depistamento deliberato, l’Inglese ha questa bellissima espressione, a red herring, ovvero un’aringa rossa. A quanto pare, la locuzione origina nell’uso di trascinare un’aringa sul terreno per confondere l’olfatto dei segugi durante la caccia alla volpe. Certe volte, solo gl’Inglesi, vero?

Giu 1, 2010 - grilloleggente    2 Comments

Pezzettini di Teschio: parte I

Cominciamo col dire che Il Teschio di Cristallo è un romanzo “multiperiod“, cioè combina due storie ambientate in periodi storici diversi, una delle quali è la chiave dell’altra. Nello specifico, la parte elisabettiana riguarda un medico (fittizio), custode di un misterioso artefatto di cristallo blu dotato di volontà (più o meno) propria. La Pietra del Cuore è un’eredità di famiglia, e Cedric Owen non sa troppo bene che cosa farne. Nel corso della sua metà della storia viaggerà fin nel Nuovo Mondo per scoprire di essere invischiato in una serie di profezie Maya riguardo alla fine del mondo nel 2012; farà abbastanza fortuna da rendere ricco il suo College (fittizio) di Cambridge; e infine metterà la pietra Là Dove Deve Essere, per il bene dell’umanità tutta (e dell’altra metà del libro). Nel 2007 a Cambridge, l’astrofisica e speleologa Stella Cody ha appena sposato Kit O’Connor (a sua volta dottore in qualcosa che non capiamo fino in fondo, ma probabilmente qualcosa d’informatico applicato alla crittografia/steganografia). Kit, vedete, è l’astro montante del College (fittizio) di Cedric Owen, e il suo sogno accademico è ritrovare la Pietra del Cuore. Perché si suppone che la Pietra sia un segreto segretissimo, eppurtuttavia, tutti lo sanno, e ancora più gente lo saprà prima della fine. E siccome Kit e Stella non sono i soli a volerla, prima della fine ci saranno anche morti e feriti. Quindi, per riassumere: stiamo parlando di un giallo intrecciato con un romanzo storico, entrambi conditi con una generosa spruzzata di fantasy.

Ciò detto, passiamo a chiarire che il TdC ha i suoi pregi. Personaggi, per dirne uno, cominciando da Cedric Owen, intelligente, intenso, di mente aperta, goffo e autoironico. E il suo grande amico Aguilar, nonostante sembri uscito da un film di Erroll Flynn. In età moderna, direi che le mie simpatie vanno a Kit, combattuto tra la sua passione per la Pietra e ogni genere di insicurezze improvvise dopo il ritrovamento della Pietra e il primo incidente… oh be’, immagino che svegliarsi invalidi dopo un volo di cinquanta metri, e scoprire che la propria moglie ha improvvisamente sviluppato una specie di unione mistica con quello che si credeva il proprio tesoro ritrovato non faccia bene all’autostima. Già, la moglie. Stella non è del tutto mal caratterizzata, e per esempio mantiene fino alla fine un certo scetticismo a proposito della profezia Maya, in un modo che contrasta bene con la pronta accettazione della storia da parte di Cedric Owen. Anche la frustrazione di Stella verso le reazioni tra il geloso e il depressivo di Kit è trattata in modo convincente; il modo in cui s’impadronisce allegramente del sogno di suo marito lo è un po’ meno. Stella non fa altro che ripetere che ‘deve’ fare questo o quello, e che ‘è la Pietra a decidere’ per lei… Non fa gran meraviglia che Kit, costretto su una sedia a rotelle, diventi un nonnulla insicuro. Ma su questo torneremo.

Con i personaggi minori, ahimè, veniamo alle dolenti note. Antony Bookless, Master del Bede’s College e mentore di Kit, presenta qualche ombra di complessità, completamente sacrificata alla necessità d’indirizzare tutti i sospetti su di lui, sospetti così ovvi, tra l’altro, da poter essere soltanto un tentativo di depistaggio. Gli altri personaggi sono malinconicamente tutti bidimensionali e/o nient’altro che plot-devices. Prima tra tutti Ursula Walker, la tosta-ma-raffinata antropolga che non solo è la maggiore esperta sulle profezie Maya ma, guarda caso, ha il segreto di Cedric Owen nascosto nella casa dei suoi avi; poi c’è Najakmul, sciamana (o si dice sciamanessa? Insomma, uno sciamano femmina) Maya, che tutto sa e tutto comprende; e che dire di Martha Huntley, la bella vedova intrepida che entra in scena a dieci pagine dalla fine senz’altro scopo che far innamorare il Capitano Aguilar, perché DEVE esserci una discendenza? poi ci sono Padre Calderon, il cugino Lawrence, Edward Wainwright, Nostradamus, e il sergente Jones, che entrano ed escono di scena per dispensare l’informazione giusta al momento giusto; e Davy Law, che (viene chiarito in modo singolarmente poco sottile) deve piacerci, Perché L’Autrice Ha Detto Così; e Fraser, lo Scozzese pittoresco per cui non si può non avere simpatia… Tutta gente che se ne va in giro utile ed inespressiva come i segnaposti del Cluedo, e tu, Lettore, li conti sulle dita: da una parte quelli puramente funzionali ad una svolta della trama, dall’altra quelli che sono lì soltanto come candidati al ruolo di Vilain. Chi fa cosa?

E questo ci porta ad un altro enorme difetto di questo libro… da vedersi nel prossimo post!

Mag 31, 2010 - grilloleggente    Commenti disabilitati su Pezzettini di Teschio: le truci intenzioni

Pezzettini di Teschio: le truci intenzioni

Non è che non legga mai fantasy, ma davvero non mi sono scomposta per la quantità di storiellone fantastico-avventurose fiorite attorno alla supposta fine del mondo nel 2012. Conto seriamente che i Maya si sbagliassero e prendo atto delle potenzialità che una profezia del genere offre al cinema e al mercato editoriale. Unico tra i numerosi titoli, Il Teschio di Cristallo di Manda Scott aveva suscitato in me qualche curiosità per un solo motivo: una parte della storia è ambientata in epoca elisabettiana. Può non sembrare granché, ma per me è abbastanza da giustificare almeno un tentativo. Tra l’altro, l’autrice si era creata un certo nome con una serie di romanzi incentrati su Boadicea, regina degli Iceni, tutt’altro che male. Metti mai…

Adesso, avendolo letto qualche tempo fa, posso dire con cognizione di causa che Il Teschio di Cristallo è un libro bizzarro. Premetto che si fa leggere, perché la signora Scott sa come creare ritmo e tensione, e le sue descrizioni sono spesso una meraviglia. La qualità della scrittura è davvero buona, abbastanza da trasparire inequivocabilmente anche in traduzione… E allora? si chiedeva un lembo del mio cervello mentre leggevo. Che cosa c’è che non va? E’ ben scritto; è mezzo giallo e mezzo romanzo storico; la parte storica è ragionevolmente accurata; la parte contemporanea è ambientata a Cambridge… perché diavolo mi lascia insoddisfatta?

Ebbene, mi lasciava insoddisfatta perché è un libro insoddisfacente. Sotto la vernice della buona scrittura, c’è tutta una varia ed affascinante collezione di difetti. Difetti gravi, difetti strutturali, difetti di caratterizzazione, difetti d’intento. Difetti che si sarebbero potuti eliminare, facendo de Il Teschio di Cristallo un buon libro ben scritto, anzi che un libro mediocre nonostante il modo in cui è scritto.

Ci ho rimuginato su, ed essendo la collezione di difetti in questione molto, molto istruttiva, ho intenzione di dissezionare molto dettagliatamente questo libro nel giro di quattro o cinque post. 

Sarà un’operazione un tantino sanguinolenta, e il finale sarà rivelato senza misericordia, ma è come Galvani: spellando la rana (povera rana!) si fanno interessanti scoperte sull’elettricità.  

Mag 24, 2010 - grilloleggente    2 Comments

Pag. 319

Finito! Se piace agli dei della letteratura, ho finito L’Eleganza del Riccio.

Allora, ammetto che il finale mi ha sorpresa. Ho temuto abbastanza a lungo che la Portinaia finisse con lo sposare Monsieur Ozu, e…

C’est bien, prima di proseguire lo faccio di nuovo: se non avete letto L’EdR fermatevi qui, volete? Anche se credete di non leggerlo affatto, anche se vi rifiutate a priori di sfiorarlo anche soltanto con l’orlo della veste, questa serie di post è la prova che non si può mai dire. E qualora doveste leggerlo, credetemi, sarete lieti di avermi dato retta e di esservi fermati qui.

Detto ciò, è vero: twist in the tail. La morte di Renée è giunta inaspettata: proprio quando sembrava che la vita della Portinaia fosse destinata a cambiare, ecco che ci si mettono un impulso generoso e un furgoncino della lavanderia. Renée muore serena in quello che forse è il miglior momento possibile, sulla soglia della felice risoluzione. Ho sempre pensato, indipendentemente dal Riccio, che un passo dalla piena realizzazione sia l’apice della perfezione – e che tutto quello che viene dopo tenda ad essere una fregatura. Renée, tutto sommato, non finisce male: è finalmente in pace con sé stessa e con i suoi fantasmi, è rasserenata e raddolcita, ha scoperto di essere capace di amare e ha in mano la promessa della felicità. Risparmiarsi la quotidiana realtà da Mme Ozu, la reazione del condominio, un drastico cambiamento di abitudini a cinquantaquattro anni – o qualunque altra forma di piccola meschinità dovesse seguire il Momento Perfetto non è poi così male, almeno in via teorica. Muriel Barbery regala a Renée la Portinaia la felicità incorrotta, la promessa senza la disillusione, la vigilia senza l’indomani, e non sono cattivi doni da fare a un personaggio.

Mi è piaciuto, allora? Sono disposta a dire che dopo tutto il libro mi è piaciuto più di quanto pensassi?

Temo di no.

Per quanto apprezzi l’impianto concettuale del finale, restano un paio di fatti che me lo inacidiscono alquanto. Per cominciare, il complesso da sorella morta della Portinaia, di cui leggiamo per la prima volta – e del tutto out of the blue – a pagina 280 o giù di lì. C’è il pianto liberatorio con la IDI, apprendiamo che le spinosità di Renée si devono alla morte della sorella sedotta e abbandonata, e la cosa sembra finire lì. Venticinque pagine più tardi, abbiamo un secondo pianto liberatorio, stavolta con Monsieur Ozu in un ristorante giapponese: apparentemente, quello con la IDI non era stata sufficiente. E può darsi che sia solo questione della mia conclamata durezza d’animo, ma questa catarsi a puntate per me non funziona. Finisce con l’annacquarsi, col non essere veramente significativa nessuna delle due volte – al punto che, dopo avere letto la versione sushi, sono tornata indietro a rivedere la versione IDI, perché mi pareva di essermi persa qualcosa. Di essermi persa la rilevanza dell’intera faccenda, ad essere sincera: questa motivazione da melodramma appiccicata sopra tutto questo lungo disquisire di arte, filosofia e camelie mi fa davvero un po’ l’impressione dei cavoli a merenda.

Poi c’è tutto questo repentino affratellamento con la IDI. Possibile che si siano ignorate per dodici anni e all’improvviso vadano da sospettoso vicendevole scrutinio al gemellaggio d’anime in un paio di settimane? Tanto che la Portinaia consideri la IDI una sorta di figlia spirituale e la IDI si senta sconvolta e trasformata dalla morte della Portinaia? Anche supponendo che simili epifanie possano accadere nella realtà (e lo ammetto in via puramente teorica e con un certo scetticismo), in un libro suonerebbero meglio se fossero preparate con qualche anticipo.

E infine, com’era penosamente ovvio fin dal principio, la IDI non si suicida affatto: ha trovato nell’amicizia con la Portinaia il buon motivo per vivere. Posso dire che l’avevo detto?

Quindi, insomma, l’ho letto. L’ho letto tutto, sono partita prevenuta e strada facendo non ho trovato gran motivi per cambiare opinione. E’ senz’altro un libro astuto, ma a parte questo trovo pochi meriti da riconoscere a Mme Barbery. LEdR è una miscela di luoghi comuni, arte&filosofia in pillole, captatio benevolentiae mascherata da tutt’altro e acidità sociale, il tutto confezionato con occhio decorativo e una punta di snobismo.

Evidentemente se si deve giudicare dal successo enorme, la ricetta funziona.

Mag 17, 2010 - grilloleggente    2 Comments

Pag. 198

Tra le prove tutte le sere e l’opera a Zurigo, non ho avuto molto tempo, ma tant’è: pag. 198.

E così Monsieur Ozu è arrivato, e non solo è proprio il regista*, ma essendo un artista giapponese (e non un Occidentale ottuso) ha sgamato Renée al primo colpo. Però, essendo un Giapponese delicato e gentile (e non un villanzone occidentale) ha aspettato qualche giorno prima di sgamarla ancora di più* e invitarla a cena.

A cena, sì. E allora abbiamo assistito a una trasformazione à la Cenerentola, con Manuela (la domestica portoghese, ricordate?) nelle vesti di fata madrina. Come sia andata la cena, ancora non lo so, perché Renée, sulla soglia dell’appartamento di Monsieur Ozu, si è bloccata in estatica contemplazione della copia di una natura morta fiamminga, e questo ha dato la stura a una serie di considerazioni teoriche sull’Arte che Mme. Barbery cerca di contrabbandare come un rallentamento del ritmo narrativo a fini di suspence.

In realtà, Mme Barbery sta tentando di contrabbandare un sacco di cose, a questo punto. Il fatto che proprio Monsieur Ozu venga ad abitare proprio al n° 7 di Rue de Grenelle mi sta anche bene, perché è il genere di straordinario incidente per cui esiste la sospensione dell’incredulità. Che anche lui sia un cultore di Tolstoj, che il gatto Lev compaia proprio al momento giusto, che un’inquilina sia lì per fare proprio la domanda che dà a Renée l’occasione di tradirsi con l’incipit di Anna Karenina, che la prima cosa che si vede aprendo la porta sia una natura morta – genere che Renée ama alla follia, anche se non l’abbiamo mai saputo prima di adesso – be’ tutto questo comincia a sembrarmi un po’ tanto da ingoiare. La mia incredulità comincia a sentirsi precariamente sospesa, e potrebbe franarmi in testa da un momento all’altro.

E poi, naturalmente, c’è l’Insopportabile Dodicenne Innominata. Avete notato che è stata promossa da Dodicenne Innominata a Insopportabile Dodicenne Innominata? Ecco, naturalmente la IDI ha fatto subito amicizia con M. Ozu, il quale, altrettanto naturalmente, l’ha invitata (sola tra i condomini) a prendere il tè insieme alla sua migliore amica, è affascinato dalla sua conversazione e la mette a parte delle sue elucubrazioni sulla Portinaia. Ora, vediamo un po’, risalendo in senso inverso (e saltando la conversazione). La Portinaia, prima di Ozu, la IDI l’aveva nominata una volta per sbaglio. All’improvviso, scopriamo che ci ha fatto su dei pensieri, che le ha visto un libro di filosofia nella borsa della spesa, che la sospetta di non essere quello che vuole sembrare, che la crede dotata dell’eponima eleganza del riccio. A little abrupt. Ma credo che mi si voglia indurre a pensare che la IDI fiorisce sotto la benefica e benevola influenza di M. Ozu, perché altrettanto all’improvviso scopriamo che la IDI ha, dopo tutto, una migliore amica. Stupiti, vero? Dopo essersi atteggiata ad asociale completamente isolata per metà abbondante del libro, la cara ragazzina c’informa dell’esistenza di Marguerite, la sua migliore amica da due anni, mezza francese e mezza nigeriana, “dal punto di vista concettuale e logico non un fulmine”, ma allegra, bella e dalla battuta sempre pronta.

Non so ancora se Marguerite conterà un granché nell’economia generale del romanzo; per adesso sospetto che sia solo parte dell’arredamento. Voglio dire: Monsieur Ozu, lo si è detto, è giapponese, come pure la sua adorabile nipotina Yoko; Marguerite è per metà nigeriana; Paul N’Guyen, il giovane, capace e bel segretario di M. Ozu, è per metà vietnamita**, la domestica Manuela è portoghese, e questi sono (con le note eccezioni della Portinaia e della IDI), i soli personaggi del romanzo provvisti di finezza d’animo, freschezza vitale e bontà di cuore. Capita l’antifona?

Insomma, mi sembra di annaspare vieppiù tra luoghi comuni, luoghi comuni e altri luoghi comuni che né il finto rude candore dell’autodidatta, né la supponenza finto-ingenua dell’infanzia superdotata, né la robusta dose di affettazioni multiculturaliste riescono a rendere meno comuni. E dire che Renée mi piaceva, all’inizio… ma credo di averlo già detto altrove: sebbene mi piaccia essere condotta a spasso per molte pagine, mi aspetto di essere condotta a spasso con garbo, sottigliezza e rispetto, grazie.

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* Se a qualcuno interessasse, Renée si è tradita citando Tolstoj, del che ha dato la colpa a un caso lampante d’insaputo freudiano.

** Renée riconosce alla metà europea di N’Guyen i seguenti meriti: alta statura, zigomi slavi, occhi chiari. Le qualità spirituali sono tutte vietnamite. D’altra parte, nemmeno la mamma del giovanotto è francese, ma bielorussa: chissà se un Bielorusso conta come un Occidentale?

*ETA: Argh! Ennò, no, no! M. Ozu non è il regista, dopo tutto. E’, pensate un po’, un lontano cugino!! Arrossisco fino alla radice dei capelli… potrei dire che sono stata indotta a crederlo, potrei dire molte cose, ma il fatto è che non ho prestato attenzione. Quindi sono qui che pontifico e poi mi lascio sfuggire i dettagli. A riprova della mia buona fede, tuttavia, invece di emendare il post alla chetichella per nascondere la mia storditaggine, ammetto tutto pubblicamente. Deducetene quello che volete: o, per quanto mi sforzi, proprio non riesco a lasciarmi prendere a sufficienza da questo libro, oppure la mia non è un’analisi affidabile. Your choice, a questo punto.

Mag 11, 2010 - grilloleggente    Commenti disabilitati su Pag. 113

Pag. 113

Uffa.

Dopo la meravigliosa – sì, meravigliosa! – scena della seconda nascita di Renée a scuola mi ero illusa: ecco la poesia, ecco la bellezza, ecco che finalmente ci siamo…

E invece no. Archiviata la faccenda in una paginetta, si è tornati a girare in tondo. Kant, il gatto Lev, un condomino, l’altro condomino, i poveri & i ricchi, la Manuela portoghese, il tè al gelsomino, l’ottusità imperante… Ieri sera ho chiuso sull’ampiamente irrilevante sottocapitolo in cui la Portinaia e la diciannovenne Olympe (finalmente una condomina che si salva, ma è una dolce ragazza che vuole fare la veterinaria in campagna) discutono con dovizia di particolari la cistite idiopatica da stress della gatta Constitution.

Questo mi ha fatto sorridere, ma non per meriti del libro in sé: il fatto è che ce l’ho anch’io il gatto con cistite idiopatica da stress*, con pari divertita esasperazione del veterinario e mia.

Detto ciò, tuttavia, nelle ultime tre righe di questo capitoletto è giunta la prima cosa che somigli, anche da lontano, a un svolta della trama: la notizia che la neo-vedova del quarto piano (o è del sesto? Francamente non tengo il conto) vende l’appartamento. Anche senza la quarta di copertina sarei arrivata a dedurre speranzosamente che questo preluda all’arrivo di un nuovo e significativo condomino. Avendo letto la quarta in questione, suppongo che si tratti di Monsieur Ozu. Sarà poi il regista giapponese del cui lavoro la Portinaia è tanto éprise? Sarà un parente? Sarà un omonimo? Stiamo a vedere.

In ogni caso è un Giapponese, e quindi si preannunciano ulteriori diluvi di camelie sul muschio, tè al gelsomino ed altre espressioni di nipponica raffinatezza, perché se qualcosa si è chiarito in queste cento e tredici pagine, è che la Portinaia, la Dodicenne Innominata e Mme. Barbery adorano all things Japanese.

Tant’è che anche l’andamento narrativo di questa storia è molto giapponese**: come si spiegherebbe altrimenti che, a un terzo del libro, non abbiamo ancora fatto altro che predisporre la scena e sistemarci dentro i personaggi? Ripeto: il primo snodo della trama è a pagina 113, e dovete ammettere che, per una persona ossessionata dalla fabula come la sottoscritta, c’è di che lacrimare un pochino…

E intanto lo snodo c’è stato, il che non è una precisa garanzia del fatto che ce ne saranno altri, ma tirem innanz.

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* E guai a chi è anche solo tentato di suggerire che la colpa dello stress sia mia, per averlo chiamato Udrotti.

* Una volta o l’altra vi narrerò l’epica storia di come mi ritrovai esposta a Viaggio a Izu.

Mar 25, 2010 - grilloleggente    Commenti disabilitati su Promessi Sposi, Capitolo XIX

Promessi Sposi, Capitolo XIX

Oggi XIX capitolo dei Promessi Sposi alla UTE, ultimo per questo Anno Accademico.

Il Capitolo XIX è quello del match Conte Zio – Padre Provinciale dei Cappuccini, ed è una vera e propria gemma, di quelle cose che da sole valgono il prezzo del libro, di quei dialoghi che, per sottigliezza delle intenzioni, tridimensionalità della caratterizzazione e raffinata ironia, mutano momentaneamente ogni altro scrittore in un mostro dagli occhi verdi.

Cominciamo col dire che, quasi tre mesi e tredici capitoli fa, avevamo assistito a qualcosa di simile al palazzotto, tra Don Rodrigo e Fra Cristoforo, ovvero i due diretti interessati. E’ sempre di loro che si parla anche nel palazzo milanese dello zio: in pratica, lo stesso scontro elevato a potenza e condotto a un livello abissalmente diverso. Qualcosa come la differenza tra una rissa in piazza e l’alta politica.

Possiamo dimenticare (anzi, faremo bene a ricordare per amor del contrasto) il sarcasmo rabbioso, le insinuazioni grossolane e le minacce scoperte di Don Rodrigo, come pure la faticosissima umiltà e lo spirto guerrier di Fra Cristoforo. Qui siamo su un altro pianeta: dopo un pranzo di commensali titolati e un sacco di conversazione sulle aderenze della famiglia a Madrid, il Conte Zio fa professioni di amicizia verso l’Ordine Cappuccino in generale e il Padre Reverendissimo in particolare, finge di voler rendere un buon servigio, insinua che il padre Cristoforo debba essere un continuo grattacapo per i suoi stessi superiori…

Il Provinciale non ci casca, e difende la reputazione del suo sottoposto, ma vede addensarsi la tempesta… e non ha torto: per prima, il Conte Zio gioca la carta della sovversione, dipingendo il povero Renzo come un arruffapopoli della peggior specie, e il padre Cristoforo come un connivente. D’altra parte, con quel po’ po’ di precedenti che ha lui stesso…

Il Provinciale para di nuovo la botta: Sua Magnificenza deve pur sapere che a) l’Ordine ha per missione di recuperare i traviati, e b) la vocazione religiosa offre riscatto dal passato, del che Fra Cristoforo è la prova vivente. Il Conte Zio deve allora ricorrere al secondo argomento, rivelando (come se proprio ci si costringesse a malincuore) che tra il frate e Don Rodrigo c’è qualche ruggine. Nessun riferimento a Lucia, o anche solo alla natura della ruggine stessa, per carità. Lo zio, assai più scaltro del nipote, dipinge la faccenda come una questione di puntiglio, scusabile in un giovane nobiluomo scapestrato, ma del tutto fuori posto per un Cappuccino.

Il Provinciale resta sulle sue, avanza cauti dubbi, promette indagini, ma sa già dove vuole andare a parare il suo avversario. E infatti, puntualmente, il Conte Zio si scopre giusto quanto basta: indagini e dubbi? Ma perché mai il Reverendissimo Padre vuole andare a sollevare un vespaio? Perché non possono accomodare la questione tra loro due, senza che degeneri in zuffe, ritorsioni e scandali?

La minaccia è sottile, ma inequivocabile. E’ sicuro che l’Ordine saprebbe difendersi in un confronto, ma ne vale davvero la pena? Non è meglio per tutti tacitare il subbuglio cercando di salvare tutte le capre e tutti i cavoli possibili? Guarda caso, a Rimini vogliono un predicatore per la quaresima, e il padre Cristoforo è proprio quello che ci vuole. “Molto a proposito,” approva il Conte Zio. “E… quando?”

Il Provinciale prova a nicchiare, a prender tempo, a negoziare qualche forma di rispetto che Don Rodrigo paghi all’Ordine, per salvaguardare la dignità dell’abito… Il Conte Zio a questo punto potrebbe anche mostrarsi generoso, ma non lo fa: invece si limita a qualche promessa che più vaga non si potrebbe, e a cedere il passo alla porta. “Conosciamo per prova la bontà della famiglia,” replica amaramente il Padre Provinciale, di fronte all’ennesima promessa vuota di amicizia, di assistenza, di qualsiasi cosa…

Chiaramente, Conte Zio – Padre Provinciale è finita 2- 0.

Niente “verrà un giorno”, niente alterchi, niente vecchi servitori impauriti, niente cappa e spada: solo due canizie, due esperienze, dice Don Lisander, e la canizie laica ha vinto alla grande: con un pranzo e qualche parola, ha spedito Fra Cristoforo a piedi da Pescarenico a Rimini.

Non posso fare a meno di accostare questo dialogo a qualcosa d’altro: il grandioso, corrusco, feroce duetto tra Re Filippo e il Grande Inquisitore (cieco nonagenario) del Don Carlo/Don Carlos di Verdi. L’atmosfera è tutt’altra, molto più cupa e più fatale, (e d’altronde in gioco non c’è il trasferimento di un frate, ma la vita e la morte di due uomini, nonché tutto un sistema di pensiero e il destino di un impero) ma la struttura è poi la stessa: potere temporale e potere religioso che si affrontano. Però nel caso di Verdi/Schiller è il Grande Inquisitore (c.n.) a spingere il suo avversario nell’angolo a implacabili colpi di logica e di dogma. Re Filippo resiste invano. Prima della fine si farà imporre la condanna a morte di non uno, ma due figli: quello di sangue e quello del cuore. “Dunque il trono piegar dovrà sempre all’altare!” conclude amarissimamente il Re.

A quanto pare, non sempre. O, almeno, non nel Seicento milanese di Manzoni, dove l’altare, per evitare guai, piega non di fronte al trono, ma a una corona comitale bene introdotta a Madrid.

Dic 17, 2009 - grilloleggente, Natale    2 Comments

Canto di Natale

A_Christmas_Carol_01.jpgNon so più dove ho letto che Canto di Natale, la storia natalizia per eccellenza, in realtà non è poi così edificante.

Scrooge è avaro e misantropo, maltratta lo Spirito dei Natali Passati, si scuote ben poco davanti allo Spirito del Natale Presente ma si spaventa a morte (pun intended) davanti allo Spirito dei Natali Futuri. Scopre che non gli piace per nulla l’idea della tomba solitaria, della morte illacrimata… Ed ecco che la fifa blu compie il miracolo che né la nostalgia né il buon senso avevano potuto, e Scrooge, improvvisamente filantropo e festevole, si precipita a fare incetta di tacchini e dolciumi, e piomba nelle feste natalizie altrui.

E’ davvero così bello e istruttivo, tutto ciò? Così rassicurante?

Di solito appartengo alle folte schiere dei lettori che negli ultimi centocinquant’anni e rotti sono stati ben felici di lasciarsi incantare da Dickens e dai suoi fantasmi… Di solito non mi domando se, passate le feste, smaltiti gl’incubi e digerito il pudding, Scrooge non debba fatalmente tornare quello di prima. Si sa, gli spaventi impallidiscono col tempo, e immagino che Bob Cratchit rimanga la timida, benintenzionata e inefficace creatura che è, e che Fred resti un simpatico e scanzonato giovanotto… per quanto tempo ci andrà d’accordo il vecchio Scrooge?

Sì, ecco, di solito non mi faccio questo genere di domande, ma stasera sono di umor cinico, che ci posso fare?

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