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E Poi La Musica: Heart Of A Soldier

Oggi, come dieci anni fa, ero al lavoro quando mi telefonarono per dirmi di accendere la televisione.

C’erano le Torri Gemelle in fiamme, c’erano le colonne di fumo sul Pentagono, c’erano le sirene, le grida, l’aria piena di polvere – e la terribile incertezza: che cosa stava succedendo?

Era il mondo che cambiava.

Poi è venuta una guerra, sono venute le commemorazioni, sono venuti i film e i libri, sono venute le teorie cospirazioniste – e il mondo non è più quello di dieci anni fa.

Confesso di non avere molta pazienza con i cospirazionisti – non foss’altro che per logica occamiana. Ne ho ancora meno con chi, come Stockausen o Franco Piperno, è capace di definire l’attacco alle Torri come “un atto di sublime bellezza” compiuto da “audaci intellettuali”.

Preferisco chiamare intellettuali gente come la librettista Donna di Novelli, il compositore Christopher Theofanidis, la regista Francesca Zambello e il baritono Thomas Hampson, i creatori dell’opera Heart Of A Soldier, nata in occasione del decennale. HoaS debuttava ieri sera alla San Francisco Opera. Ancora non so di quanta “sublime bellezza” si possa parlare a proposito dell’opera in sé, ma ricordare mettendo in versi e musica una storia di amicizia, di amore, di responsabilità, di perdita, di idee, di decisioni difficili, di dovere, di differenze e di sacrificio – questo è quel che mi piace definire un atto di bellezza.

Il Ruolo Del Lettore Nel Futuro Dell’eBook – E Viceversa

ebook, enhanced ebooks, pottermore, e-reader, kindle, ipad, letturaSì, lo confesso: mi sono iscritta alla  versione beta di Pottermore. Ho fatto tardi la notte per essere nel primo milione di fortunati ammessi alla unique reading experience che J.K. Rowlings ha creato per i suoi lettori… la volevo proprio vedere, questa unique reding experience. Adesso che l’ho fatto, devo ammettere che sono un nonnulla delusa: la versione beta è bellina a vedersi ma desolatamente muta e, per quel che ho visto finora, non molto interattiva. Mi domando come debba apparire al pubblico molto più giovane di me per cui è calibrata. La cosa forse più interessante sono i commenti in cui l’autrice svela particolari della creazione dell’uno o dell’altro personaggio, luogo o particolare della trama*. Come dicevo, il tutto è bellino a vedersi: molte scene del libro sono ricreate in belle illustrazioni vagamente interattive, e l’interfaccia è, come ci si poteva aspettare, a tema in ogni minimo particolare. L’enfasi sembra essere concentrata sull’intento di “ricreare il mondo dei romanzi di HP.”

E questo, vi confesso, alla quinta o sesta reiterazione mi ha dato da pensare. Ma non era il mestiere del lettore quello di immaginare “il mondo del romanzo” sulla base del lavoro dell’autore – ed eventualmente qualche illustrazione?

Se c’è una descrizione del processo di lettura che mi piace più di altre, è quella che si trova più di una volta nel ciclo di Thursday Next di Jasper Forde. Valga per tutte la meravigliosa scena in First Amongst Sequels** in cui la protagonista, per ragioni troppo lunghe da spiegare, si ritrova all’interno di Pinocchio proprio mentre qualcuno lo legge. La scena è la bottega di Geppetto, descritta in grazioso e minuto dettaglio… ma ecco che il lettore si avvicina alla pagina in cui si trova Thursday: l’aria vibra e si riempie del profumo della segatura, i colori si fanno più vividi, la luce gioca sul filo delle lame, ogni singolo truciolo assume rilievo, in un crescendo che culmina con il passaggio del lettore per poi dissolversi. Perché quando non c’è l’immaginazione del lettore a dargli vita, “il mondo del libro” rimane piatto e vuoto.

E c’è di più: con questa enfasi sul ruolo del lettore e con il tema ricorrente di una ebook, ereader, kindle, ipad, editoria digitale, pottermoremalvagia cospirazione per imporre il sistema UltraWord 9.0, una specie di interfaccia destinato a sostituirsi in modo viepiù invasivo alla soggettività del lettore***, Fforde sembra avere preconizzato uno degli attuali dilemmi dell’editoria digitale: to enhance or not to enhance?

Sarà interessante vedere se e come, nei prossimi volumi della serie, Fforde integrerà gli sviluppi tecnologici che hanno raggiunto e superato le sue creazioni immaginarie – per esempio gli ebooks con colonna sonora di cui si parla in questi giorni un po’ dappertutto: qui trovate una descrizione della faccenda sul Corriere, qui un commento di scarsissimo entusiasmo e qui un vero e proprio rant di Harry Mount sul Daily Telegraph – e vale la pena di leggere anche i commenti.

Ora, il mio cuore di lettrice tende a schierarsi con Fforde e con Mount: a parte le possibili nefaste conseguenze sulla lettura in luogo pubblico, che ne sarà di questo passo della lettura come la conosciamo e intendiamo?

Qualche mese fa discutevo di e-readers con il professor Massimo Puliani, docente di Comunicazione Visiva Multimediale all’Accademia di Belle Arti di Macerata: il professore sosteneva la superiorità dell’iPad per le sue possibilità multimediali, io difendevo il Kindle come strumento di lettura. In realtà parlavamo di cose del tutto diverse, perché il Kindle è l’equivalente digitale di un libro cartaceo – e dunque di quella che chiameremo lettura tradizionale, mentre l’iPad è il supporto ideale per tutti quegli enhancements che fanno di un ebook qualcosa di molto diverso da un libro.

Ora, la domanda è: qual è lo scopo ultimo degli enhancements? Il professor Puliani parlava di potenzialità didattiche e di fruizione di risorse digitali; la gente di Pottermore propone esperienze complementari alla lettura – la possibilità di “entrare” in prima persona nel mondo del libro tramite una combinazione di gioco di ruolo e social networking; Booktrack, la società che ha prodotto i primi ebooks con colonna sonora, prefigura la possibilità di rendere la lettura più attraente per i cosiddetti “lettori deboli” – in particolare i giovanissimi.

Posso concordare con il professor Puliani per quel che riguarda libri di testo, saggistica, libri di viaggio, ma quando si parla di narrativa ho qualche dubbio. Una storia che ha bisogno di immagini, filmati e musica per produrre il suo effetto sul lettore è… be’, un film. O forse un audiovisivo, o magari un videogioco, o anche qualcosa di completamente diverso – ma di certo non è un romanzo. Non nel buon vecchio senso per cui posso leggere la scena dell’assalto alla prigione di Newgate in Barnaby Rudge e chiudere il libro con l’impressione di avere respirato il fumo delle torce…

La domanda successiva è quella posta da Booktracks: che ne è di tutta quella giovane gente cresciuta a film, anime e videogiochi? Vogliamo condannare intere generazioni a non conoscere mai un classico se non via Hollywood? E, per tornare ad argomenti già discussi, non è questo un potenziale mezzo per convincere i giovanissimi lettori che la letteratura non deve per forza essere noiosa? Ebbene, tutto ciò non è poi così dissennato. Ha davvero senso difendere il mos maiorum della lettura se questo deve significare che più nessuno legga? I tempi cambiano, cambiano le abitudini, le percezioni, i percorsi mentali, le soglie di attenzione. Ci si può chiedere se gli enhanced ebooks siano una risposta a questi cambiamenti o se servano a precipitarli più di quanto già non sia – ma è difficile negare il cambiamento stesso. O il fatto che la sopravvivenza sia per due terzi adattamento.

Così editoria e letteratura si adatteranno. Per ora gli enhancements riguardano qualche vecchio classico, ma sono certissima che si sta già lavorando a narrativa pensata apposta per questa nuova e, lo ripeto, radicalmente diversa forma di lettura.

ebook, enhanced ebook, booktrack, lettura, kindle, ipad, editoria digitaleÈ, badate bene, una diversità molto più radicale rispetto a quella costituita dal passaggio tra cartaceo ed e-reader. A parte tutte le discussioni sul profumo della carta stampata e sul piacere fisico derivante dalle rilegature rigide, la differenza tra leggere una cinquecentina e leggere sul Kindle è essenzialmente di mezzo. Ma tra il mio Kindle e un enhanced ebook si apre l’abisso che separa due processi mentali e due concetti di lettura del tutto differenti.

E si vede che vado invecchiando, perché non posso fare a meno di di restare appassionatamente legata al vecchio concetto di lettura – quella letteratura che, ancora secondo Jasper Fforde, [d]opo tutto, si può dire che […]richieda molta più creatività e immaginazione che scrivere; quando il lettore crea nella sua testa un’emozione, o i colori del cielo al tramonto, o il sentore della brezza estiva che gli soffia sul viso, dovrebbe apprezzare il proprio lavoro quanto quello dello scrittore – forse persino di più.

E voi che ne pensate?

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* In concetto, non vi ricorda il programma @author di Amazon Kindle?

** Non ancora tradotto in Italia. Marcos Y Marcos? Hint, hint, hint…

*** La serie è ambientata in un futuro un tantino distopico, oltre che nel Mondo dei Libri.

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Già che ci siamo, vi consiglio con calore l’opera di Jasper Fforde – un piccolo, brillante, spassoso, acuto, intelligente monumento alla lettura e ai libri, tributato in storie avvincenti, originali, piene di deliziose invenzioni, di nonsense e di idee:

 


Libri Sopravvalutati – A Sequel

Si direbbe che questo post abbia generato un pochino di sensazione – qui su SEdS, su Twitter, su FaceBook e tramite un certo numero di email.

La discussione è stata molto piacevole, e spero che non sia finita – ma quello che mi ha colpita è la quantità di osservazioni, tweet e commenti di questo tenore: “non ho mai osato confessarlo, ma…” oppure “sono cose che si esita a dire…” Qualcuno mi ha addirittura ringraziata per avere introdotto l’argomento. Badate che non mi sto chiamando fuori: ho detto nel post che per anni la mia delusione nei confronti de Il Ritratto di Dorian Gray è stata una faccenda vissuta clandestinamente – ma questo era prima che aprissi un blog e diventassi spudorata.

Il fatto è che tutti esitiamo (almeno un pochino) a confessare di non apprezzare troppo l’uno o l’altro monumento letterario. Genitori, amici, insegnanti, manuali di storia della letteratura e programmi radio ci hanno informati ripetutamente che si tratta di Grandi Libri con la G e la L maiuscole, libri che non si può non leggere, Libri Meravigliosi… O, in alternativa, libri che ci daranno una Coscienza Sociale* (maiuscole anche qui).

E noi abbiamo letto da bravi, ma si direbbe che non basti. Dobbiamo anche apprezzare. Ci si richiede di essere entusiasti, e se ci azzardiamo a non esserlo otteniamo sguardi increduli e severa disapprovazione. In alcuni casi si aggiungono massicce dosi di zelo missionario, ma non è detto. Molti monument-lovers non vedono la necessità di discutere sul perché si debba adorare il loro monumento – atteggiamento già non promettentissimo.

Ora, quando si è adulti si discute appassionatamente con i missionari e si leva un sopracciglio all’indirizzo degli intransigenti. Chi è capace di non andare in brodo di giuggiole per Eco, Joyce o Buzzati può convivere con la severa disapprovazione di chiunque – Alla peggio, si coltiva il suo dissenso in silenzio.

Ma quando si è implumi in via di formazione? Non vi viene da pensare che questo atteggiamento diffuso, combinato con lo snobismo di genere, abbia a che fare con lo scarso interesse dei fanciulli per la lettura? Li si esorta a leggere e poi, invece di spingerli a formarsi opinioni e gusto personali, si dice loro che il tale monumento è bello, il tale altro è imprescindibile, il tale altro ancora è un capolavoro assoluto, e tutta la letteratura di genere (ovvero buona parte di quella divertente) è, nella migliore delle ipotesi, un piacere colpevole e un po’ nocivo come le barrette al caramello. Che cosa ne deduce un implume? Una di due cose, direi – o forse entrambe: che la lettura “vera e propria” è una roba pallosa, e che le opinioni fuori dal coro vanno soffocate in culla. Not good.

Con questo non sto dicendo che se debbano lasciare i fanciulli alla mercé di Geronimo Stilton e della signora Meyer – dininguardi! Dico invece che sarebbe bello e istruttivo abituarli alla gamma di letture più vasta che si può, incuriosirli a sperimentare autori e generi diversi, indurli a tenere duro anche con i libri che non piacciono granché  e, soprattutto, incoraggiarli a capire perché un libro piace o non piace loro. Se devono diventare buoni lettori, non hanno bisogno di sentirsi dire che il Gabbiano JL è un libro meraviglioso: hanno bisogno degli strumenti critici per decidere se lo è no. Hanno bisogno di una mente indipendente. Hanno bisogno di formarsi un gusto, di scegliersi dei criteri, di imparare a difendere le loro opinioni al di là di mi piace/non mi piace.

E come impareranno, se tutto quel che si fa è indottrinarli a credere che l’uno o l’altro libro sia Bello In Assoluto?

Che ne dite?

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* Questo caso è ancora più subdolo, perché subentra l’ansia da politically correct: se detestate Dan Brown, arrivano gli applausi, se non andate pazzi per Victor Hugo non succede quasi nulla, se non vi piace il Piccolo Principe vi guardano con severa disapprovazione, ma provate ad avanzare dubbi sulla statura letteraria di Tahar Ben Jelloun o Saviano… anatema!

Ago 11, 2011 - grillopensante, Londra, Poesia    Commenti disabilitati su Recessional

Recessional

Questo non è proprio un post. E’ una segnalazione legata a una serie di riflessioni scambiate con M.B. a proposito di quel che succede in Inghilterra in questi giorni.

Kipling scrisse questa poesia nel 1897 e la intitolò Recessional – la parola che, nella liturgia anglicana, indica il canto che accompagna l’uscita solenne del celebrante al termine del rito. Uno strano, triste, profetico dono per il Giubileo di una regina al colmo della sua gloria…

Recessional

God of our fathers, known of old—
Lord of our far-flung battle line—
Beneath whose awful hand we hold
Dominion over palm and pine—
Lord God of Hosts, be with us yet,
Lest we forget—lest we forget!

The tumult and the shouting dies—
The Captains and the Kings depart—
Still stands Thine ancient sacrifice,
An humble and a contrite heart.
Lord God of Hosts, be with us yet,
Lest we forget—lest we forget!

Far-called our navies melt away—
On dune and headland sinks the fire—
Lo, all our pomp of yesterday
Is one with Nineveh and Tyre!
Judge of the Nations, spare us yet,
Lest we forget—lest we forget!

If, drunk with sight of power, we loose
Wild tongues that have not Thee in awe—
Such boastings as the Gentiles use,
Or lesser breeds without the Law—
Lord God of Hosts, be with us yet,
Lest we forget—lest we forget!

For heathen heart that puts her trust
In reeking tube and iron shard—
All valiant dust that builds on dust,
And guarding calls not Thee to guard.
For frantic boast and foolish word,
Thy Mercy on Thy People, Lord!
Amen.

Ago 10, 2011 - cinema, grillopensante    11 Comments

Noi Credevamo

Noi credevamo, A., M., e io, di passare una serata interessante al cinema. Noi credevamo di avere a che fare con una lettura non oleografica della storia risorgimentale, presentata attraverso gli occhi di personaggi fittizi di cui condividere il punto di vista. Noi credevamo anche di capire quel che veniva fatto e detto sullo schermo.

Invece ci siamo ritrovati davanti a un arnese girato, recitato, fotografato e montato così così – a voler essere clementi – punteggiato di musiche verdiane piazzate un po’ a caso, con un passo narrativo che alternava frantic choppiness (la prima parte) e quel genere di fissità che un tempo si definiva, con una certa impazienza, teatrale (la sezione del carcere). Della qualità della scrittura a livello tattico non ho avuto una grande impressione, ma preferirei sospendere il giudizio, perché capivo ben poco – il film essendo recitato per lo più* in un dialetto campano troppo stretto per me**. Quindi, se l’intento di Martone era quello di creare attorno al Risorgimento un senso di gelida lontananza, lieve isterismo e completa estraneità, sono impressionata dalla perfezione e completezza con cui ha centrato l’obiettivo. Oso confessare che al (primo?) intervallo, A., M. e io ci siamo guardati e, con simultanea e inespressa decisione esecutiva, abbiamo preso la fuga?

E però il punto non è nemmeno questo. Il punto è che noi credevamo, tra varie altre cose, di essere (ed essere considerati) tre adulti con un briciolo di conoscenza della storia e menti ragionevolmente sviluppate e funzionali. Siamo stati assaliti da qualche dubbio in proposito quando, prima del film, una soave e meticolosissima signora ha preso il microfono e, col tono di chi racconta la fiaba della buonanotte in una prima elementare, ha esordito dicendo: “E ora una breve introduzione per inquadrare il film nel suo contesto storico e nella sua struttura narrativa.”

L’impressione si è rafforzata quando il “contesto storico” si è rivelato limitarsi a “la storia si svolge durante il Risorgimento – il Ri-sor-gi-men-to – ovvero nella prima metà dell’Ottocento”. Poi, per il quarto d’ora succesivo, la soave e meticolosissima signora ci ha narrato il film scena per scena, con didattica, onnicomprensiva puntigliosità e una certa quantità di pathos, spiegandoci le parole difficili e talvolta sillabandocele…

“Ma perché tutto ciò?” chiede non senza perplessità A.

“Nel caso fossimo una platea di cretini, suppongo,” sussurro io. E forse non sussurro tanto sottovoce quanto dovrei, perché non solo M., ma tutta la fila dietro erompe in cachinni.

E con questo siamo giunti dove volevo arrivare. I happen to know che la soave e meticolosissima signora è un’insegnante in pensione – con ambizioni di scrittrice. Se questo è il suo atteggiamento nei confronti del lettore, sta fresca. Trattare i lettori come una prima elementare non è mai una buona idea, per il non incomprensibile motivo che a nessuno piace sentirsi considerato stupido. Per quanto la trasmissione di conoscenze sia ovvia parte del gioco, bisogna essere in età prescolare per apprezzare che Mary Poppins elargisca la conoscenza in questione in comode pillole rivestite di zucchero – e corredate di rime che sottolineano il ruolo dello zucchero. Il lettore anche solo vagamente adulto (o convinto di esserlo) si irriterà, spazientirà e sentirà trattato con condiscendenza. A posteriori, forse, data l’incomprensibilità dei dialoghi di Noi Credevamo, il riassunto scena per scena poteva anche essere utile, ma il tono della soave e meticolosissima signora era così irritante che confesso di avere a mala pena ascoltato quel che diceva: ero troppo occupata a chiedermi se ci stesse insultando tutti con intenzione deliberata o per malguidato eccesso di zelo.

Either way, non ero ben disposta nei confronti della sua presentazione, né del film che presentava. Perché dovrei esserlo nei confronti del suo libro – o dei suoi lavori teatrali?

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* E qualcuno poi mi spiegherà perché gli accenti meridionali dovessero essere accurati, mentre i settentrionali Mazzini e Cristina di Belgioioso parlavano un Italiano standard con, if anything, una lieve coloritura centro-sud.

** Direi che era come guardare un film in una lingua straniera, se non fosse che le sequenze in Francese erano quelle che capivo meglio.

Forma & Sostanza

Dopo essersi sorbito un certo numero di lai furibondi sulle lacune son et lumière del debutto di Aninha (una volta o l’altra vi racconterò), P. mi scrive così:

Senza troppi preamboli, ti dirò che non capisco il perché delle tue apprensioni per il mancato funzionamento degli effetti speciali. Capisco che, dopo aver lavorato alacremente agli effetti luce, al sonoro, e a tutti i dettagli che di sicuro rendono perfetta la rappresentazione, tu possa contemplare l’omicidio di vari tecnici. Però, gli applausi finali dovrebbero semmai darti ulteriore conferma che le tue opere hanno già molta sostanza, al punto che la forma, pur non inessenziale, può anche passare in secondo piano, purchè non si tratti di far recitare degli energumeni dotati solo dell’uso del dialetto etilico. Se le luci e il sonoro funzionassero alla perfezione, ma i tuoi lavori avessero poco da dire, il pubblico avrebbe probabilmente l’impressione di assistere ai fuochi della sagra, non credi?

Ebbene, sì e no.

Ormai è assodato che mi faccio venire attacchi di convulsioni con relativa e innecessaria facilità – ed è risaputo che della mancanza o imperfezione dei particolari del disegno luci in trentasei pagine il pubblico non si accorgerà mai. Quindi P. è ben lungi dall’avere tutti i torti.

On the other hand, però, non amo molto la teoria secondo cui la sostanza è tutto quel che conta, o almeno quel che conta di più, per la semplice ragione che in fatto di teatro, come di scrittura e di arte in genere, la forma è sostanza. Che cos’è l’arte se non espressione formale della sostanza? Metaesempio: tutti – o quanto meno molti – hanno la vaga impressione che la sostanza (nella vita reale) importi più della forma*. Però c’è voluto Shakespeare per dire che una rosa con un’altro nome profumerebbe allo stesso modo. E nel dirlo si contraddice, perché a rendere pressoché immortale la sua idea di forma/sostanza è proprio la forma. Ma in realtà, al di là degli aerei nonnulla che faceva sussurrare al suo adolescente innamorato, lo zio Will sapeva benissimo che, se si chiamasse acido tetrafenilcloridrico, la rosa conserverebbe forse lo stesso profumo, ma non troverebbe molta gente disposta ad annusarla per accertarsene…

In un romanzo, un racconto, un articolo o una poesia, ciò significa che stile e contenuto devono fondersi per stampare un’unica impronta nella mente del lettore. “Dice belle cose ma è scritto male”, oppure “E’ scritto divinamente ma non è che dica granché” sono due insegne di scrittura parimenti così così.

In teatro, alla buona scrittura devono aggiungersi la buona recitazione, la buona regia, le buone luci, le buone scene, i buoni costumi, le buone musiche e il Something-something creato dal felice combinarsi di tutti questi elementi. Se ne manca anche solo uno, il risultato resterà sempre così così. Non intendo imperfetto – l’imperfezione è un’altro mantello dell’arte – ma proprio leggermente mediocre. Lacking in quality. Dilettantesco. Un tantino naufragato sugli scogli che stanno tra intenzione e realizzazione dell’intenzione stessa.

Come dicevasi più sopra, ciò si applica anche a tutte le forme di scrittura – seppure in modo meno spinoso, perché il romanziere, il poeta e l’articolista hanno molto più controllo sulla loro forma di quanta il playwright possa mai sperare di averne sulla forma del risultato finito, che deve combinare le sue intenzioni e competenze con le intenzioni e competenze di un sacco di altra gente.

Il principio però rimane lo stesso: in qualsiasi disciplina, la più solida e profonda delle sostanze non è una scusante per le lacune della forma. E a dire il vero, cercare questo genere di scusanti cessa di sembrare una buona idea non appena si considera che curare la forma è il modo più efficace per affinare l’espressione della sostanza.

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* Francamente non sono molto d’accordo nemmeno per quanto riguarda la vita reale, ma questo è un altro post.

Lug 25, 2011 - grillopensante, guardando la storia    Commenti disabilitati su Brandelli Di Storia

Brandelli Di Storia

Mentre leggete questo post la Bandiera Rukavina è in viaggio. Dopo avere trascorso tre giorni a Governolo, dove era stata conquistata in battaglia il 18 luglio del 1848, fa ritorno al museo dell’Armeria Reale di Torino.

Per tre giorni le abbiamo girato attorno, l’abbiamo ammirata, l’abbiamo ascoltata descrivere, ci siamo ripetuti a vicenda la sua storia, l’abbiamo mostrata con orgoglio ad amici, estranei e generali di Cavalleria, abbiamo commentato, immaginato, strologato, spiegato.

Poi, a tarda sera, quando le luci si erano spente sulla rievocazione, ci siamo ritrovati al museo im una mezza dozzina per impacchettare la nostra bandiera e prepararla per il viaggio a Torino.

Ancora in costume, l’ho ammirata per bene senza il plexiglas di mezzo, e con S. abbiamo ricordato a mezza voce i tessitori viennesi che hanno tessuto il taffeta giallo, il pittore che ha dipinto l’aquila bicipite dagli occhi feroci e tristi, e gli stemmi e le corone, e poi tutti gli alfieri che hanno portato la bandiera, e i soldati che hanno marciato al suo seguito, e quelli che si sono battuti per difenderla e per conquistarla, quelli che l’hanno presa e quelli che l’hanno perduta…

E poi abbiamo impacchettato davvero tutto quanto, e non avrei mai creduto che una faccenda di carta da pacchi e nastro adesivo potesse assumere questo genere di solennità notturna.

Non avete idea di quanto mi dispiaccia vederla partire, questa bandiera. In tutta probabilità non la rivedrò mai più – forse tornerà per il duecentesimo anniversario, quando, ammesso che sia viva, difficilmente sarò in età di scorrazzare per musei – e all’Armeria Reale non è in esposizione. In fondo sono soltanto brandelli di seta sbiadita, sorta di reliquia bifronte di un impero morto da quasi un secolo e del parto faticoso di una nazione. Sono brandelli che hanno conosciuto polvere e sangue e fatica e furia e trionfo e sconfitta, che sono stati contesi e catturati, che sono stati questione di vita e di morte. Brandelli pesanti.

Non vi è mai capitato che un oggetto in una bacheca di museo vi parlasse? Ebbene, a costo di sembrare sentimentale: a tarda sera, nel museo vuoto, a noi che le avevamo fatto corte per tre giorni,  che la vedevamo senza plexiglas, e che parlavamo a mezza voce mentre l’avvolgevamo nella carta da pacchi, la Bandiera Rukavina sussurrava il suo passato e il suo congedo.

Lug 15, 2011 - grillopensante, libri, libri e libri    Commenti disabilitati su Se

Se

kipling, il libro della jungla, toomai degli elefantiE’ ufficiale: sto invecchiando.

Stamattina mi sono svegliata con Toomai Of The Elephants in testa, e non c’è stato verso: era questione di rileggerlo o pensarci per tutta la giornata.

TOTE è uno dei racconti del Libro Della Jungla, ma viene spesso pubblicato per conto suo. E’ la storia di un ragazzino indiano che vuole diventare un mahout e della sua straordinaria iniziazione, ma è soprattutto una storia di elefanti, dei loro riti e delle loro menti un pochino umane e molto misteriose.

TOTE è anche la porta attraverso cui, più o meno trentacinque anni fa, mi sono avvicinata a Kipling. Ho ricordi di mia madre che mi legge questa storia in una sera d’estate, della potenza delle immagini, e più di tutto della danza degli elefanti, selvaggia e solenne nel cuore della foresta buia. Sono certa che la radice prima della mia predilezione per gli elefanti è proprio lì.

E quindi per prima cosa stamattina ho cercato Toomai Degli Elefanti e l’ho riletto kipling, il libro della jungla, toomai degli elefantidopo decenni. Non nella versione di allora, ma in originale. E, come vi dicevo, sono giunta alla conclusione che sto invecchiando, perché mentre leggevo mi sono commossa… 

No, non sui ricordi d’infanzia – non sono ancora a questo punto – ma sulla storia in sé. Mi sono commossa sul mahout che chiama il suo elefante “mio signore”,  su Petersen Sahib che sa di non poter capire molte, molte cose, su Kala Nag, l’elefante più amato in tutto il Servizio, sul piccolo Toomai, sfrontato, timido e fiducioso come i bambini veri, sugli elefanti selvaggi e domestici che si danno convegno e poi tornano al loro posto – e sul finale. No, non vi dico nulla del finale, andate a leggerlo qui – in Inglese*.

E, una volta di più, non capirò mai il modo in cui è sottovalutato Kipling, con la sua scrittura vivida e potente, con le sue caratterizzazioni finissime e così umane, con la sua curiosità intellettuale e con la sua vena epica…

kipling, il libro della jungla, toomai degli elefantiSe uno scrittore è stato capace di segnarmi con una storia quando ero bambina, e poi a decenni di distanza è ancora capace di farmi svegliare con una nostalgia improvvisa di quella storia; se alla rilettura è capace di commuovermi e sorprendermi ancora, perché invece di trovarci meno di quanto ricordavo, ci trovo tanto di più; se è capace di emozionare la donna come allora aveva saputo emozionare la bambina; ebbene o miei lettori, allora quello scrittore è uno Scrittore.

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* O, se preferite, qui in Italiano – ma vi avverto: la traduzione è tutt’altro che male, ma in caratteri da lasciarci una diottria ogni tre righe e  in una formattazione tanto irritante quanto incomprensibile… Basta vedere come hanno trattato le due poesie all’inizio e alla fine.

Giu 24, 2011 - considerazioni sparse, grillopensante    Commenti disabilitati su Maturità Van Cercando

Maturità Van Cercando

Una piccola hit parade dei temi di maturità in ordine di gradimento da parte degli studenti – dal basso verso l’alto:

– Il tema storico non piace a nessuno: Hobsbawm, il Novecento, gli Anni Settanta… sì, lo so: tutti si aspettavano qualche annesso e connesso del Risorgimento, per cui nessuno si è preoccupato di preparare molto altro, men che meno i Settanta. Tranne, a quel che pare, un tirato e semi-eroico 1,4%

– Saggio breve tecnico-scientifico. Fermi, con l’accento su “le energie che cambiano il mondo” e a nod alla fuga dei cervelli. Interessante e con più di un possibile aggancio all’attualità – anche la più furibonda, volendo, ma no: anche qui poca trippa per gatti. Nemmeno quattro gatti interi: 3,5%.

– Saggio breve storico-politico. Avendo fatto la maturità all’epoca della IV crociata, devo confessare di appartenere alle schiere generazionali che non hanno ancora capito fino in fondo la fine distinzione tra saggio breve e tema. Quindi non so dire se il 4,4% che ha scritto di destra, sinistra e militanza politica si sia lasciato attrarre dall’argomento in sé (che storicissimo non mi pare, se non forse in potenza e con buona volontà), dalla parola magica “riflessioni” (che sulla base di un riflesso automatico invalso sembrava lì per consentire excursions nel “personale”, nel “vissuto” e nel “vissuto personale”), o perché il SB è più facile del T.  

– Analisi del testo. Lucca di Ungaretti, che ha riscosso un 6,9%. E anche qui devo chiedermelo: quale sarà la differenza tra l’analisi del testo e il…

– Saggio breve artistico-letterario? Persino io vedo che, mentre l’analisi propone una singola poesia su cui concentrare le proprie capacità analitiche, il SB fornisce più brani di autori diversi (Verga, D’Annunzio e Svevo) e un argomento alla cui luce strologarci sopra, nello specifico “Amore, odio, passione” – ma sarebbe un trauma insuperabile per le giovani menti dover scegliere tra due temi di letteratura, uno più diretto e uno più articolato? Tra l’altro, credo che, se fossi stata una maturanda, sarei scoppiata in singhiozzi di fronte alla quasi lialesca genericità e alla banalità dell’idea, ma si vede che il 14,7% dei diciannovenni d’oggidì non condivide le mie compunzioni.

E adesso una pausa ad effetto (a roll of drums, please!), perché fin qui abbiamo parlato di numeri piccolissimi, piccolini e piccoletti, ma adesso entriamo nel vivo, con le due tracce che hanno ispirato le fette più consistenti di maturandi.

– Tema di ordine generale: Andy Warhol, quindici minuti di celebrità, reality show e social media. Ovvero: non disturbatevi a parlare di quello che avere studiato a scuola, o fanciulli, ed esercitate pure le vostre capacità di analisi e riflessione sul più trito tra gli argomenti che è possibile definire d’attualità – quello che più si presta a produrre sconsolanti ovvietà, secondo solo alla pace nel mondo. Presenti all’appello 26,4%.

E infine…

– Saggio breve socio-economico, con un altro argomento che sospetto non rientri precisamente nei programmi scolastici: siamo quello che mangiamo? E mi piacerebbe immaginare qualche studente che aggira gli estensori ministeriali interpretando the mind-numbing question in senso metaforico, filosofico, letterario… Ma non illuderti, Clarina! Gli estensori ministeriali non sono mica nati ieri e sanno bene come scongiurare voli pindarici, zavorrando le menti implumi e affamate di maturità con un’accurata selezione di articoli sui danni della vita sedentaria, sulla dieta mediterranea e su quanto nuocia alla linea mangiare davanti al computer. E se credevate che i ragazzi fossero lenti nel cogliere gli hints, consolatevi: il 42,7% di loro ha capito benissimo che per maturare non serve perdere la vista su storici, politologi, poeti e fisici. Viver Sani e Belli s’ che è un testo formativo!

E mi rendo conto che tanti sono rimasti spiazzati dal non trovarsi nemmeno uno stracciolino di traccia vagamente connessa con il Risorgimento. E mi rendo conto che gli estensori ministeriali si sudano la paga eludendo annualmente il toto-tema. E mi rendo conto anche che il toto-tema è uno di quegli sprechi di risorse intellettive che sarebbero degne di miglior causa – o forse no, visto che ogni anno i cyberaruspici si ostinano a ignorare allegramente che gli argomenti si suppongono novecenteschi. Purtuttavia (e credetemi, mi sento vecchia nel porre questa domanda), è possibile che la totalità degli estensori e il settanta per cento scarso dei discenti non abbiano trovato altra alternativa al Centocinquantesimo che Facebook o la dieta mediterranea?

Saviano, Conrad E Padre Pio – A Rant

“…Da domani in edicola, La Linea D’Ombra, di Joseph Conrad…” afferro vagamente. To’, mi dico. E poi… “Introduzione di Roberto Saviano.”

Che cosa? Saviano che introduce Conrad? Devo aver capito male – e non ci penso più. Perché intendiamoci: Saviano è un coraggioso e ammirevole giornalista, ma da qui ad essere un prefatore letterario, ce ne corre.

Poi invece scopro che con Repubblica esce (e cito) “una nuova collana composta da romanzi brevi o raccolte di racconti, testi di assoluta eccellenza scelti fra quelli più rappresentativi della stagione culturale seguita in Occidente al grande realismo ottocentesco.” Lodevole. E non basta, perché “ogni titolo sarà introdotto da un autore di oggi, che ha scelto di spiegare perché leggere quel particolare classico.”

Ah be’, mi dico. Un’introduzione non è una prefazione, dopo tutto. E’ il genere di cosa “questo libro mi è piaciuto tanto perché ta-ran ta-ran ta-ran; leggetelo anche voi perché ta-ran ta-ran ta-ran…” La faccenda comincia a somigliare un po’ più a una questione di marketing che di letteratura: come possiamo rendere attraente un autore generalmente trascuratello? Ma affiancandogli un nome che tira, perbacco! E quale nome tira più di quello di Saviano? Nulla di male in tutto ciò – anzi. Un po’ di curiosità però la confesso. e, quando ho l’occasione di mettere le ugne sul libro in questione, ne approfitto.

E’ la ristampa per gentile concessione di un’edizione Einaudi, tradotta da Flavia Marenco, con prefazione dell’autore e nota introduttiva di Pavese. So far so good. Prima di tutto, però, c’è un’ulteriore introduzione – Saviano, appunto. Vediamo un po’ che cos’ha da dire Saviano su La Linea D’Ombra.

Apparentemente, Saviano ha da dire per prima cosa che “spesso un libro ti sceglie, non lo scegli tu.” E prosegue con altre graziose romanticherie del genere. Bel colpo. Questo è il genere di apertura di sicuro effetto per cui tutti gli altri introduttori ingaggiati da Repubblica tireranno accidenti al primo della lista: avendolo già detto lui, non possono più dirlo loro, mannaggia!

Una volta esauriti i paragrafi generici sulle storie d’amore lettore/libro, però, si passa a parlare del libro in questione, e… hm. Sentite.

“[Sentivo c]he quella non è la vita, ma calme plat, grand miroir de mon désespoir (calma piatta, grande specchio della mia disperazione) è un verso preso da La Musique di Charles Baudelaire, i cui verso descrivono la fratellanza tra la musica e il mare, che può esser in tempesta e gonfiare le vele come la musica gonfia il petto. Ma può anche esser una musica lieve quasi silenziosa, come la bonaccia: calma piatta. E’ una metafora perfetta questo verso per Conrad: la bonaccia è per il marinaio una disperazione, proprio come la calma piatta per il giovane.” (p. 5)

Sic. Sintassi e punteggiatura, sic. Non un corsivo, sic. Costruzione, sic. Non so voi, ma a me sembra, più di ogni altra cosa, una frettolosa trascrizione da parlato. Andiamo avanti.

“Quel marinaio in secca che sente che quella non è la vita che vuole.” (p. 6)

A Saviano piace proprio scrivere per frammenti – il che non è necessariamente un difetto, a patto che i frammenti funzionino. Ma tre “che” di fila? E c’è altro.

“Se ne rende conto solo uno degli ospiti della ‘Casa del Marinaio’, un uomo che ha già percorso ciò che il giovane ha davanti. Il capitano Giles lo ascolta, ma avendo capito l’inconfessabile aspirazione del suo interlocutore, a un certo punto gli dà una dritta decisiva.” (p. 7)

Siamo franchi: se uno di noi avesse scritto queste 46 parole in un tema di letteratura al Liceo, se ne sarebbe sentite cantare quattro. Per i pronomi selvaggi (lo ascolta? Chi, please?), per mancanza di logica (a che serve e che cosa significa quel ma?), per le scelte lessicali (inconfessabile? E che c’è di inconfessabile – ovvero turpe, tanto grave da non potersi confessare senza vergogna – nell’aspirazione a diventare capitano? Non sarà per caso inconfessata?), e infine per la generale ineleganza della costruzione. E se siete disposti a considerarli peccati veniali, c’è di peggio.

“Di colpo quelli che considerava idioti perché non affrontavano la vita con la passione e la velocità d’idee che riconoscevi a te stesso, ora ti sembrano più capaci di te.” (p. 7)

E concediamo pure che gli errori di stumpa possano non essere colpa di Saviano – ma “Di colpo/ora”? E la “velocità d’idee”? E, se devo dirla tutta, a me quel considerava non sembra tanto un eds, quanto il relitto di un periodo più lungo, sistemato inconsultamente e poi non ricontrollato.

Come, del resto, questo passaggio, a proposito del confronto con Cuore Di Tenebra*: “Non riesco a pensare i due libri separati, forse nemmeno di amare uno più dell’altro, ma scegliere La linea d’ombra è stato facile.” (p. 8)

E poi potrei citare brutture miste assortite come “Non è solo semplicemente stanchezza” (p. 9),  o “Quando Conrad scrisse questo romanzo era un uomo maturo, di 60 anni, aveva sorpassato quella linea già da parecchio tempo” (p. 9) – calchi del parlato così evidenti e così sciatti che sconsolano.

Se poi cercate una giustificazione nell’idea che la forma sia sacrificata a chissà quale profondità di contenuto, temo di dovervi disilludere: non ci scostiamo mai dalla lettura più generica e dalla maniera più blanda. E non è che la maniera più blanda sia aiutata da costruzioni arruffate ai limiti dell’incomprensibile, tipo “E’ una maturità che emerge nel personaggio del capitano Giles, così mal sopportato all’inizio dal nostro protagonista, che lo considera noioso, pedante – esattamente come si immagina che i giovani considerino gli adulti – ma dotato di una saggezza che il giovane riconosce progressivamente.” (p. 9)

Per finire poi con questa convoluta e, va da sé, frammentata perla di saggezza e profondità: “E comprendi che quella linea d’ombra la superi e ti supera, ti è davanti e non l’hai mai superata. Nell’incessante cammino della tua esistenza.” (p. 9)

Ora mi sembra di sentire cori furibondi di proteste: il mestiere di Saviano non è essere elegante, lui dice quel che deve dire, l’importante è l’efficacia, l’importante è il contenuto…

Davvero? Parliamone.

Saviano vive della sua scrittura. Non m’importa cosa scrive e perché lo scrive: scrive professionalmente e, per chi scrive professionalmente, la forma è sostanza. Il suo mestiere è esprimere e comunicare concetti, e la lingua, la grammatica, la sintassi e la retorica sono i suoi strumenti. Pensereste tutto il bene possibile di un cuoco che serve in tavola ingredienti accostati senza criterio, cotti e presentati come capita? Non credo – e poco importa quanto gli ingredienti stessi siano di per sé nutrienti. Un cuoco che non sa distinguere il lievito dal bicarbonato e non ha idea (o riguardo) dei tempi di cottura, non è un bravo cuoco. Uno scrittore che non ha idea (o riguardo) della sintassi non è un bravo scrittore. E non stiamo parlando di deliberate distorsioni stilistiche, ma di trascuratezze gravi.

Ora, ho detto che molte di queste trascuratezze sembrano venire pari pari dal parlato, o essere frutto di scarsa revisione. Se credete che una di queste due sia un’attenuante, parliamo anche di questo. Uno: se c’è qualcosa che uno scrittore deve sapere, è che lingua parlata e lingua scritta non sono la stessa cosa. Riprodurre il parlato per iscritto non è questione di trascrivere sulla carta quel si dice, parola per parola. Occorre sfilettare, adattare, sistemare, sfrondare e recuperare l’impressione della lingua parlata senza il beneficio dell’intonazione e della fuggevolezza. E’ quasi, mutatis mutandis, come tradurre in un’altra lingua. E’ – indovinate un po’ – a matter of hard work. Due: rileggere, rivedere, ricontrollare, levigare e aggiustare non sono corollari opzionali. Sono parte integrante e fondamentale del lavoro dello scrittore. E’ una questione di rispetto di sé e del lettore mandare Là Fuori il meglio che si può fare – sempre. Di nuovo: a matter of hard work. E in tutta franchezza, di duro lavoro in questa introduzione se ne vede poco. Se c’è stato, lasciate che dubiti delle capacità tecniche di Saviano**. Se non c’è stato, temo di dover dubitare del suo rispetto per il suo mestiere e per i suoi lettori: possibile che non avesse mezz’oretta per controllare che non ci fossero magagne, prima di mandare il pezzo a Repubblica?***

Con tutto ciò, per onestà, a questo punto devo scendere un attimo dalla mia scatola di sapone per riferire che A. – persona che non considero stupida – dopo avere letto l’introduzione ha espresso con qualche emozione l’intento di rileggere il romanzo. “Ma non ti accorgi di quanto è mal scritta?” m’infurio io. E A. scrolla le spalle: “Non m’importa. A me interessa come dice le cose lui, e mi ha fatto venire voglia di rileggerlo.” 

Il che significa che l’introduzione di Saviano, almeno nel caso di A., ha svolto la sua funzione. Cosa che i marketers di Repubblica si aspettavano in pieno, o non avrebbero aperto la collana proprio con questo libro così introdotto. Non credo che sia un caso se qui c’è in anteprima solo la prefazione dell’autore. Quello che la gente deve comprare (e comprerà) sono le quattro pagine di Saviano – Conrad è un accessorio.

Sono malvagia? Sarà, ma sentite qui: il Corriere, per non restare indietro, avvia una collana chiamata Inediti d’Autore, “Una serie di racconti inediti dei più grandi autori italiani contemporanei” (Gazzetta Store), “una straordinaria collezione di romanzi brevi di grandi autori italiani, mai prima pubblicati” (PostCardCult), nonché “opere inedite dei più grandi narratori contemporanei italiani” (pagina FB Qualunquismo di Fabio Volo). L’elenco degli autori comprende, tra gli altri, grandi narratori come Federico Moccia, Silvio Muccino e Mauro Corona, e indovinate un po’ chi è il capofila? Ma il nostro immancabile Saviano, naturalmente.

A parte tutto il resto, avete presente quelle collezioni in centoventi uscite settimanali – soldatini di piombo, santini, modelli di navi da costruire, cd musicali, you name it? Avete presente come la prima uscita non sia mai il primo pezzo in ordine cronologico o logico – ma il più attraente, quello che un sacco di gente comprerà? Appunto: Saviano come Padre Pio, la Ferrari e il legionario romano. Non scriverà molto bene, ma di sicuro può vantarsi di essere diventato un’icona.

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* Perché, sapete: “Si dice che il lettori di Conrad, si dividono…” Sic: i lettori di Conrad virgola si dividono. Sicchissimo.

* Riconosco che c’è un’altra possibilità: può darsi che il testo originale fosse ragionevole, e poi qualcuno lo abbia tagliato con poco criterio in fase di allestimento del libro. In realtà, a parte un paio di casi, non mi sembra questo il problema – ma se fosse così, al posto di Saviano, denuncerei Repubblica.

*** Oh, e naturalmente, non è che tutto questo dica un gran bene del rispetto di Repubblica verso i lettori, either.

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