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Chi Ha Detto Che Deve Essere Facile?

Era una notte buia e tempestosa, tornavo dalle prove di Somnium Hannibalis ed ero di umor tetro, perché la regista latitava causa bronchite e le prove erano andate… vogliamo dire così-così? Diciamolo pure, ma è la più spudorata sottovalutazione di un disastro impellente che si possa immaginare. All’improvviso, la mia posizione di aiuto-regista si era fatta assai meno teorica, ed ero terrorizzata. Altrettanto all’improvviso, la compagnia mostrava una limitata propensione a darmi retta, e naturalmente mancavano pochi giorni al debutto, eravamo tutto fuorché pronti, mancavano dei costumi, mancava una persona e l’uomo delle luci non si era fatto vedere per la terza sera di fila…

Così mi preparai una tazza di tè (deteinato) al bergamotto, mi piazzai davanti al computer e cominciai a controllare un po’ di posta, senza badarci nemmeno troppo. Era stata proprio una pessima giornata, a teatro le cose erano andate come erano andate e, per di più, non avevo scritto un bottone, e il progetto in corso si mostrava riottoso alle mie intenzioni.

Mentre sorseggiavo il tè sentendomi doomed & gloomy, l’occhio mi cadde sulla mail di un’amica americana che cantava le lodi del blog di McNair Wilson, uno di quei personaggi difficili da catalogare, scrittore, autore teatrale, regista, attore, imagineer per la Disney e chi più ne ha più ne metta. “E poi gli piace il tè al bergamotto,” commentava H. “Devi assolutamente vedere il suo blog!”

E che avevo mai da perdere? Diedi un’occhiata al suo blog, Tea With McNair* – e per prima cosa vidi che aveva promesso di non postare più e invece postava ancora. Cominciamo bene. E poi, mentre saltellavo di qua e di là, m’imbattei in questa affermazione: It’s supposed to be hard. It’s art. Ovvero: “Deve essere difficile: è arte.”

Folgorazione.

E’ vero, è vero, è vero – e non parlo solo, e non tanto, di SH: chi ha detto che deve essere facile? Non deve affatto essere facile. Se fosse facile, se venisse fuori quasi da sé, se non richiedesse sforzo, e pensiero, e fatica, e rigore, non sarebbe arte. Se non rendesse necessario pretendere tanto da sé e dagli altri, se non comportasse una ricerca continua, se non svegliasse nel cuore della notte per annotare un’altra idea, se ci si potesse accontentare, se non fosse il lavoro e la quest di tutta una vita, allora non sarebbe arte. Se trovasse sempre tutti d’accordo, se non andasse difeso con le unghie e con i denti, se non implicasse miracoli di manipolazione, bellicosità e diplomazia, allora non sarebbe arte.

Non importa che cosa sia: scrivere, suonare, comporre, dipingere, mettere in scena, scolpire – non fa differenza, ma non è, non può essere, non deve essere una passeggiata per praterelli fioriti: è una truculenta, appassionante, faticosa, infinita, splendida battaglia. Non deve affatto essere facile: è arte.

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* Di cui per il momento Steno mi costringe a passarvi il link in questa maniera incivile: http://www.teawithmcnair.typepad.com/tea_with_mcnair/#tp

 

Feb 26, 2011 - grillopensante    Commenti disabilitati su Troppo Zelo E Altri Tronchi Sui Binari

Troppo Zelo E Altri Tronchi Sui Binari

Non vorrei mai azzardare paragoni tra Virgilio e Anthony Hope – lèse majesté!! – e poi, se non fosse morto prima di poter rifinire l’Eneide a suo piacimento, forse Virgilio avrebbe modificato qualcosa, ma resta il fatto che Enea/Turno ha tutta l’aria di un caso massiccio di deragliamento delle intenzioni autoriali. A livello di Rassendyl/Rupert nel Prigioniero di Zenda, anzi peggio.

Bd-Aeneas.jpgPeggio, perché nell’Eneide Virgilio racconta il mito della nascita di Roma, ed è logico che Enea incarni programmaticamente tutte le virtù più romane (pietas in prima fila). Per di più, il nostro eroe eredita anche le personali convinzioni filosofiche del suo autore, praticando il sereno distacco e il rifiuto delle passioni violente predicati da Epicuro. Virgilio si è impegnato molto nel rendere Enea un paradigma di obbedienza agli dei, un campione di tutte le più nobili virtù e un esecutore delle magnifiche sorti e progressive di Roma…

Si è impegnato tanto che il risultato è proprio questo: un paradigma. Nella sua gelida e virtuosa perfezione, Enea manca di un tratto fondamentale per un personaggio: la personalità. Che cosa vuole personalmente? Che cosa è diposto a fare per averlo? Che cosa fa davvero? Che cosa impara prima della fine? Come cambia? Tutte domande senza risposta, perché Enea non possiede esigenze drammatiche – è trascinato dal volere del fato e basta.Turno.jpg

Per contro, l’antagonista Turno, il giovane re dei Rutuli cui Enea toglie la fidanzata Lavinia – per poi ucciderlo in duello (con la collaborazione di mezzo Olimpo) alla fine del Libro XII, è una figura a tutto tondo. Turno è pieno di difetti: impulsivo, sfrenato, arrogante – ma Virgilio esce di strada continuamente per mostrarci che non ha tutti i torti neanche lui, che è tanto giovane, innamorato di Lavinia, pieno di risentimento, e tutt’altro che indegno a sua volta. Turno ci viene presentato come un giovanotto di nobili istinti, coraggiosissimo e abile, amato dai suoi sudditi, fiero, onorevole, eloquente quando serve, leale. E’ anche violento e occasionalmente crudele, ma poi la sua sicurezza si frantuma alla fine, davanti all’evidenza che Enea, con tutto l’aiuto divino di cui può disporre, non può essere sconfitto in nessun modo. Nondimeno, Turno non si sottrae al suo destino e affronta il duello fatale con la malinconica certezza di non uscirne vivo.

A_5th_Century_Portrait_of_Virgil.jpgInsomma, si ha l’impressione che Virgilio si sia lasciato prendere la mano. Lo zelo programmatico nei confronti della perfezione di Enea forse lo ha tradito, e l’eroe eponimo, fatale e filosofico, gli è riuscito un tantino bidimensionale. L’antagonista – che incarna il disordine e la dissennata ribellione contro il destino (di Roma in particolare) – gli è riuscito meglio, più sfaccettato, più complesso, più… non c’è niente da fare: più simpatico. Chi ha letto l’Eneide senza dispiacersi per Turno alzi la mano.

Il che ci conduce a una conclusione: è pericoloso fare di un personaggio una figura simbolica di una causa o di un credo che ci stanno a cuore. Presi dall’ansia dimostrativa, non osiamo aggiungere ombre per timore di appannare la nostra tesi, ma un personaggio senza ombre, senza dubbi e senza difetti diventa uno zelota. E’ difficile affezionarsi agli zeloti – anche agli zeloti rassegnati, come nel caso di Enea. E la storia ne soffre.

Apparentemente, il sereno distacco non è facile da praticare in poesia. Nemmeno quando ci si chiama Virgilio.

Gen 1, 2011 - grillopensante    Commenti disabilitati su Buoni Propositi

Buoni Propositi

newyear.jpgOh bene, rieccoci qui. Buoni propositi per l’anno nuovo. L’anno scorso ne ho fatti tre, e non posso dire che sia andata del tutto male: ho scritto abbastanza, anche se non un nuovo romanzo; non ho detto di no a nessuna occasione che si presentava (nemmeno a quelle che mi terrorizzavano un pochino), e la cosa ha condotto a un limitato numero di vicoli ciechi a molti risultati soddisfacenti; ho sperimentato tentando la via del teatro per l’infanzia, e anche questo ha avuto ottimi sviluppi.

Tre su tre, non mi posso lamentare. Anche perché – detto per inciso – non mi capita spesso.

Ora, per questo 2011.

I. Scrivere, scrivere, scrivere. Dite la verità, ve l’aspettavate? Di qui a un anno voglio avere scritto qualcosa di nuovo – teatro, racconti, magari un romanzo… e magari pubblicare.

II. Evitare arbusti spinosi come la procrastinazione, la dispersione, l’abbandono di progetti, le perdite di tempo – anzi: potarli proprio, gli arbusti spinosi, in un’energica campagna di giardinaggio interiore. Comnciando con 10 minuti al giorno di freewriting… ok, facciamo cinque.

III. Ingrandire di almeno un passo quel che di buono ho fatto l’anno scorso – in tutte le direzioni possibili. Fosse solo un gradino in più, ma ad maiora.

Et voilà, per quanto mi riguarda. E voi? Idee, progetti, impegni, buoni propositi? Segnateli qui, se vi va, e fra un anno ne discutiamo.

Chiudo con una striscia cautelativa di Debbie Ohi, per la serie: meglio essere ragionevoli…

newyear.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Eliza a parte, un felice 2011 a tutti, pieno di soddisfazioni e sogni che si realizzano!

Nov 11, 2010 - grillopensante, guardando la storia    Commenti disabilitati su Accuratezza Storica – Requiescat In Pace

Accuratezza Storica – Requiescat In Pace

Dal N° 50 della Historical Novel Review – Novembre 2009. Traduzione mia.

Dieci Idee Per Vivacizzare La Storia di Susan Higginbotham

rip.jpgSiete stanchi di scavare tra pile di volumi polverosi? Magari è ora di liberarsi di questo giogo – l’accuratezza storica. Lasciate perdere i tomi accademici, procuratevi qualche cioccolatino e un bicchiere della vostra bevanda alcolica preferita e seguite questi dieci facili consigli verso la LIBERTA’!

1. Mettete sempre in dubbio la legittimità della nascita di chiunque. Dopo tutto, la maggior parte dei bambini vengono concepiti in privato, per cui chissà chi era davvero nel letto di chi? Non fatevi scrupoli nell’affibbiare la paternità a qualcuno che era morto, decisamente troppo giovane o lontano mille miglia al momento del concepimento. Questa è narrativa, gente!

2. Alterate pure di una decina d’anni l’età di un personaggio storico, a seconda delle vostre necessità. Oltre ad aiutare con il punto 1, spesso la variazione aprirà tutto un mondo di possibilità per vivacizzare la vita sessuale dei vostri personaggi.

3. Un personaggio storico è morto in circostanze non assodate? Fatene un omicidio, e assicuratevi che il biasimo ricada su qualcuno che non vi piace.

4. Se non avete fatti sufficienti per sostenere un’affermazione, fatela lo stesso. Se i vostri lettori volessero prove, se ne starebbero in tribunale a seguire i processi, giusto?

5. Le teorie della cospirazione sono i migliori amici di un romanziere. Anzi, quelli che la menano con l’accuratezza storica sono parte di una vasta rete internazionale che cospira per tenere tutti quanti all’oscuro della Verità. (Rivelata qui per la prima volta)

6. Solo perché qualcuno è morto dieci anni prima di un certo evento, non è una buona ragione perché non dobbiate includerlo nell’evento stesso. Che si diano da fare, questi morti, invece di occupare spazio sotterraneo a ufo.

7. Se due persone hanno lo stesso nome, è il Cielo che vi offre l’opportunità di confonderli liberamente ad ogni pie’ sospinto. Visto che i loro genitori non hanno avuto la previdenza d’imporre alla prole un nome diverso…

8. Se non siete certi di un fatto, guardatevi bene dal controllarlo. Affidatevi al vostro istinto e dateci dentro, specialmente se con questo potete rovinare la reputazione di un personaggio storico.

9. Se un evento ha una spiegazione innocente e una spiegazione sinistra, la spiegazione sinistra ha l’assoluta precedenza. Ricordatevi: nessun personaggio storico merita il minimo beneficio del dubbio, a meno che non sia il vostro protagonista. (E solo se è straordinariamente bello)

10. Il fatto che nessuno storico abbia mai considerato l’ipotesi che un certo personaggio storico fosse un maniaco sessuale, un alcolizzato irrecuperabile o un omicida seriale, non è assolutamente una buona ragione perché non dobbiate farlo voi. E’ quella cosa chiamata immaginazione, sciocchini! A che vi serve se non la usate almeno un po’?

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Susan Higginbotham ha appena pubblicato il suo terzo romanzo, The Stolen Crown – ma avrebbe fatto mooolto prima a scriverlo, se solo avesse seguito queste dieci regole.

 

Di Filosofi e di Condottieri

Dopo questo concerto ho cominciato a vedere genealogie ideali ovunque – successioni di varia natura che sviluppano idee o forme artistiche attraverso i secoli.

Questa volta, anziché di arte, parliamo di filosofia con risvolti politici, coprendo una fetta di storia e pensiero greci dal principio del V Secolo fin verso la fine del IV.

Socrate.jpgCominciamo da Socrate che, tra un simposio e l’altro, elabora non solo idee, ma un metodo di pensiero, una logica dei problemi che, sotto l’apparenza svagata e conversevole, è destinata a diventare la base del modo di pensare occidentale. In realtà forse la maieutica non era così rivoluzionaria in sé, ma nessuno prima ne aveva davvero analizzato il meccanismo. E’ sempre sconcertante scoprire la ferrea disciplina che governa quelle pratiche apparentemente spontanee – e di conseguenza il modo in cui quella disciplina può essere usata. O manipolata. Non a caso, Socrate beve la cicuta fatale perché Atene lo considera un empio e un corruttore della gioventù.Platone.jpg

Segue il suo allievo Platone, che mette per iscritto e sistematizza in forma dialogica il pensiero di Socrate, e poi procede per conto suo a svilupparne i principi in varie direzioni. Platone non è un personaggio pittoresco ed allarmante come Socrate: è di buona famiglia, di molti talenti (oltre che filosofo, i biografi lo vogliono soldato, pittore, poeta, atleta e matematico, secondo un ideale molto greco), e la sua Accademia, dove s’impara discutendo, è considerata un’istituzione non solo perfettamente rispettabile, ma prestigiosa.

Aristotele.jpgTra i suoi allievi si distingue Aristotele, che sviluppa metodo e pensiero a gradi di raffinatezza estrema, e li applica ad ogni possibile campo dello scibile, dall’etica all’astronomia, dalla letteratura alla scienza della conoscenza. Anche lui fonda una scuola in cui si passeggia e si discute, e il suo prestigio è tale da farne il precettore ideale per un figlio di re.

L’ultimo rampollo di questa discendenza lo trovo proprio nel Grande Alessandro, che assorbì per un paio d’anni le teorie di Aristotele e poi traghettò il mondo greco dall’Età Classica all’Ellenismo, camminando sui cocci della vecchia città-stato verso l’idea imperiale e aprendo il mondo verso Oriente. Ad Aristotele non poteva piacere troppo la politica di Alessandro, ma la progressione verso Est della piccola e rude Macedonia, e il suo germogliare in imperi al contatto con altre civiltà più sofisticate, conservano – o almeno a me pare – un andamento logico per botte e risposte, azioni e reazioni e domande, infinite domande in cerca di risposta. Non amo alla follia Pascoli, ma il suo Alexandros, che piange davanti al “Fine, l’Oceano, il Niente”, e rimpiange i giorni in cui aveva ancora spazio per la sua Cerca, mi sembra rappresentare bene l’aspetto filosofico della faccenda – e il dramma di una mente cercatrice giunta al confine delle sue possibilità. AristoteleAlessandro.jpgWhy, persino la parabola biografica di Alessandro segue un arco narrativo degno della Poetica di Aristotele.

Insomma, nel giro di due secoli scarsi, l’onda lunga (e indiretta, se vogliamo) della maieutica di Socrate ha finito col portare alla luce un mondo nuovo – quello ellenistico. Potrei ancora notare che mentre l’Atene repubblicana comminava la cicuta a Socrate per le sue idee empie e corruttrici, Alessandro si liberava di Parmenione per la sua avversione ad abbandonare il vecchio ethos greco. Potrei ricordare il Robespierre che cita Platone per giustificare la condanna a morte di Chenier: “Anche Platone bandiva i poeti dalla sua Repubblica”. E potrei finire con Napoleone, cui pareva che Alessandro avesse fatto un gran bene a liberarsi dello stupido e immobilista Parmenione.

Discorsi da romanzieri, lo so, non da filosofi. Ma ai romanzieri piace tanto guardare il propagarsi delle onde lungo le generazioni, i secoli e i millenni.

Vittorino Andreoli: il Pellegrino e il Lettore

pellegrino.jpgForse dovrei seguire qualche trasmissione o rubrica televisiva che parli di libri, ma confesso di non averlo mai fatto con qualche gradi di sistematicità. Per cui, quando la settimana scorsa mi è capitato d’intravedere parte de L’Appuntamento, la faccenda è stata casuale, tardiva e anche un pochino distratta – per la cronaca, stavo aiutando a sgranare melagrane per la gelatina.

Quindi non ho afferrato chi fossero gli ospiti che, sotto la direzione di Marzullo, parlavano di Un Pellegrino, romanzo (o forse no) di Vittorino Andreoli. Mi sono veramente distratta dalle melagrane solo quando, dopo un certo numero di interventi molto elogiativi, alcuni ospiti hanno cominciato a sollevare obiezioni formali al romanzo (o forse no), e le risposte di Andreoli si sono fatte vieppiù stizzite. Non ho avuto la prontezza di prendere appunti, e quindi riporto a memoria il sugo delle obiezioni e delle risposte – non le parole precise.

OBIEZIONE 1: BUR vende questo libro come narrativa, ma di fatto si tratta di saggistica.

ANDREOLI: Cosa vuole che importi a me, alla mia età, della distinzione tra saggistica e narrativa? Io scrivo una storia, poi l’editore fa quello che vuole! 

OBIEZIONE 2: Sa com’è, sulla copertina c’è scritto “romanzo”, ma questo non è un romanzo. Ci sono questi 6 dialoghi tra il Pellegrino e i personaggi incontrati lungo la strada – dialoghi interessantissimi, ricchi di spunti di riflessione, ma del tutto privi di struttura narrativa.

ANDREOLI: A me non importa la struttura narrativa. Ho raccontato una storia come volevo raccontarla e, come può vedere, ho trovato editori abbastanza coraggiosi da pubblicare una fusione di romanzo e saggio.

OBIEZIONE 3: Resta il fatto che la fusione non appare riuscita. La componente romanzo è deboluccia anzichenò, con la sua trama inesistente e i suoi personaggi del tutto privi di caratterizzazione. Ad eccezione del Pellegrino, abbiamo soltanto figure bidimensionali, tratteggiate tra il caricaturale e il goliardico…

ANDREOLI (acidissimo): Sono preoccupato per lei, se legge il mio romanzo in questo modo superficiale e quasi pervertito. Io ho scritto una storia con forti contenuti morali ed etici, e ho trovato interesse editoriale indipendentemente da quei critici che mi consigliavano di metterci un omicidio a pagina 35, perché è quello che ci si aspetta da Andreoli. A me non importa niente di quello che ci si aspetta, e non m’importa niente dei critici!

Hm. Non definirei la decisione di BUR un atto di coraggio, ma piuttosto un’operazione di marketing tesa a sdoganare un saggio atipico prodotto da un nome di richiamo. La IV di copertina non fa molto per chiarire, parlando di “Andreoli… narratore” e di “romanzo”, limitandosi a parlare di ricerca e di dialogo socratico soltanto nell’ultima frase. Niente di male, per carità – ma forse Andreoli non dovrebbe risentirsi se il lettore che cercava un romanzo si accorge che di romanzo non si tratta. Quello che m’indispone di più, tuttavia, sono tutte le cose di cui ad Andreoli non importa nulla: non solo i canoni della forma d’arte che pratica (troppo sporadicamente per potersene considerare un maestro), ma anche l’opinione dei critici, la politica degli editori, le aspettative e le reazioni dei lettori.

Parlando di politiche editoriali, bisogna dire che Andreoli potrebbe essere del tutto innocente della decisione di etichettare il Pellegrino come romanzo, e quindi stesse difendendo come poteva un forte non suo. Mi viene da domandarmi se fossero forti altrui anche le caratterizzazioni boccaccesche, magari inserite dietro insistenza di un editor per aggiungere “un po’ di pepe”? It happens, ma allora come la mettiamo con l’orgoglioso rifiuto dell’omicidio a pag. 35? Ma forse sono malvagia e invece è tutta farina del sacco dell’autore. E allora ancora più malvagio di me è Andreoli che, invece di difendere una scelta narrativa deliberata, dà del pervertito all’interlocutore che la discute.

Ma alla fin fine, il fastidio e il fare di sufficienza con cui Andreoli ha liquidato le obiezioni di natura tecnica mi hanno riportato molto in mente le stelle marine. Un Pellegrino è, ci vien fatto capire, quel genere di romanzo che si legge per il messaggio e nient’altro. Non c’è nulla di frivolo tra quelle copertine, nulla di così grossolanamente commerciale come una trama o dei personaggi, e fie upon us per esserceli aspettati.

Non sono sicura che mi sia venuta una voglia folle di leggere questo libro.

Ott 11, 2010 - grillopensante, musica    Commenti disabilitati su Genealogia Ideale

Genealogia Ideale

VitaniMontesanti.jpgMagnifico concerto d’organo sabato pomeriggio a Governolo. Per il secondo appuntamento della rassegna La Voce del Montesanti 2010, l’organista Umberto Forni ha proposto un programma concepito per essere una storia. Una storia a più di un livello: una fetta di storia della musica, una storia dello strumento su cui si eseguiva e uno scorcio di Storia.

“Un viaggio che parte dalle Fiandre e attraversa la Germania per giungere in Italia nell’arco di due secoli”, l’ha definito il maestro Forni.

La partenza era il Fiammingo barocco Sweelinck, nato nei Sessanta del Cinquecento, maestro indiretto del pure barocco Buxtehude, che era sì danese, ma suonava e componeva a Lubecca e influenzò Bach, a sua volta maestro di Kellner. Kellner, nato nel 1736, non era più barocco: fondeva rococo, neoclassicismo e stile galante, scriveva deliziosi piccoli preludi che sembrano usciti da un carillon e corali trattati come arie d’opera… L’anello di congiunzione, nella genealogia ideale di Forni, tra la severità dei nordici e lo stile cantabile degl’Italiani che per generazioni, dal secondo Settecento in poi, scrissero musica sacra nello stesso linguaggio che si usava a teatro: Gherardeschi, Padre Davide da Bergamo, Vincenzo Petrali (che, a quanto pare, incantava chiese intere di amanti della musica per concerti lunghi tre giorni).

Il programma è stato pensato per mettere in risalto tutti i colori e tutti i registri dell’organo Vitani-Montesanti, dalle canne seicentesche del Vitani  (ma pare che tra le altre ce ne sia una quattrocentesca) al Clarone e ai Campanelli, gli ultimi registri previsti dai Montesanti per l’organo quando, prima di essere acquistato da Governolo, si trovava nella Chiesa di Sant’Andrea a Mantova. L’idea di uno strumento che si costruisce per gradi, per strati, per innovazioni e per aggiunte nel corso di tre o quattro secoli è affascinante, così come quella di un concerto mirato a mostrare che cosa succedeva musicalmente mentre lo strumento veniva fatto germogliare su sé stesso – uno di quei cantieri perenni che s’innalzano attraverso le generazioni e i secoli, come le grandi cattedrali medievali, a maggior gloria di Dio, o dell’umano ingegno, o di entrambi.

Concerti come quello di sabato, e strumenti come il Vitani-Montesanti, trasmettono un meraviglioso senso di vitalità e continuità dell’arte. La musica, la storia, il pensiero, la pittura, la scienza sono vivi fintanto che conoscono questo continuo moto di studio, elaborazione e innovazione. La vita è nel movimento, sembrava dire il programma del maestro Forni, e questa musica è viva, con i compositori per mente e cuore, gli organari e gli esecutori per arti, e le idee per circolazione sanguigna.

 

La Bambinaia Francese

Bambinaia.jpgNel corso del finesettimana ho avuto modo di discutere di uno specifico tipo di anacronismo – il tipo che scatena in me violente reazioni allergiche, che considero il peccato mortale in materia e che permea completamente La Bambinaia Francese, di Bianca Pitzorno.

So di averne già parlato, ma abbiate pazienza mentre analizziamo la trama in dettaglio.

Si comincia nella Parigi degli Anni Trenta dell’Ottocento, con la piccola Sophie, figlia di operai che, nella loro illuminata sete di progresso, fanno studiare la figlioletta. Poi il destino malvagio si accanisce sulla famigliola, Sophie perde i genitori in rapida successione, deve lasciare la scuola e mettersi a lavorare e – colpo di fortuna! – si ritrova alle dipendenze di Madame Céline, danseuse celebre e madre di una bambina. Il padre, un gentiluomo inglese, ci viene subito presentato come un uomo duro d’animo, gretto, ottuso, pieno di pregiudizi e non particolarmente intelligente.

Madame Céline, al contrario, è un angelo privo di difetti che accoglie come altrettanti figli Sophie e Toussaint, il piccolo schiavo di colore regalatole dall’amante inglese. Entrambi i ragazzini studiano nell’eccentrica scuola del Cittadino Marchese, un nobile che persegue i più nobili (e più traditi) ideali della Rivoluzione inculcando Rousseau e Voltaire a un gruppetto di piccoli operai, borghesi e aristocratici.

Tutti vivono molto felici in questa arcadia – con l’occasionale batticuore di una visita dell’Inglese, cui bisogna far credere che le distinzioni sociali siano debitamente rispettate – fino al secondo disastro, che è in realtà una combinazione di disastri. Alla morte del Cittadino Marchese, i di lui avidi e malvagi nipoti accusano Céline di un reato che non ha commesso per poterle sottrarre la parte di eredità lasciatale dallo zio. La poveretta, imprigionata alla Salpétrière, perde anche la memoria. L’Inglese ricompare soltanto per portarsi via bambina e bambinaia, e Toussaint deve nascondersi per non essere venduto, visto che la sua lettera di affrancamento non si trova più.

Il romanzo diviene a questo punto epistolare, perché Sophie scrive a Toussaint dall’Inghilterra, raccontandogli le sue numerose infelicità: deve vivere in un cupo maniero di campagna, fingersi analfabeta, sopportare che la piccola Adèle venga trattata con un certo distacco, capire chi è la misteriosa signora rinchiusa in un’ala della casa, e guardare mentre quella cretina incapace di sentimenti dell’istitutrice inglese s’innamora del padrone…

Qualcosa comincia a suonarvi familiare? Dovrebbe, perché l’istitutrice inglese altri non è che Jane Eyre, e il bieco Monsieur Edouard è naturalmente Mr. Rochester, con la moglie pazza rinchiusa nella soffitta. Solo che nulla è come credevate voi e Jane, perbacco! D’altra parte, Jane è una sciocca accecata in pari misura dai suoi pregiudizi inglesi e dal suo “amore da serva”. Il vero volto di Rochester l’abbiamo già visto, e la moglie pazza – tenetevi forte – non è pazza affatto! Il suo unico difetto è quello di avere sempre sostenuto la libertà degli schiavi e di essere stata innamorata in gioventù di un mulatto. Rochester la tiene rinchiusa solo perché, con i suoi discorsi di uguaglianza e libertà, Bertha è socialmente imbarazzante.

Capito che cosa ci teneva nascosto Miss Bronte? Vatti a fidare!

Ma never fear, la virtù non può non trionfare, di qua e di là della Manica e degli Oceani. In Francia, Céline viene liberata, riabilitata e guarita; i nipoti del Cittadino Marchese pagano per le loro malefatte; Toussaint viene dichiarato uomo libero e parte per l’Inghilterra per recuperare Sophie e la bambina. Seguono i noti eventi – il matrimonio interrotto tra Jane e Rochester, la fuga di Jane e l’incendio… solo che non è Bertha a scatenarlo, così come non è lei a morire. Bertha fugge con i Nostri che, ricongiunti e traboccanti di felicità, s’imbarcano per il Nuovo Mondo. In un finale degno di Love Boat, Sophie decide che Toussaint avrà di certo una parte nel suo futuro, mentre l’ex pazza Bertha non vede l’ora di ricongiungersi con il suo mulatto, e persino Cèline trova l’amore, nella persona di un opportunissimamente ricomparso amico del defunto padre di Sophie, un tipografo povero e brutto – ma istruito, intelligente e debitamente liberale. Non avevamo mai più sentito parlare di lui dopo pagina quattro? Ci eravamo bellamente dimenticati di lui? E’ tutto molto improbabile e improvviso? Fa niente: l’importante è che tutti vivano felici, uguali e contenti mentre la nave scompare nell’orizzonte indorato dal tramonto.

E quella gallina di Jane? Dopo tutto ha quello che si merita, visto che se ne torna scodinzolando dall’accecato e rovinato – e pure bigamo – Rochester. Fine.

Capito l’andazzo? Sorvoliamo pure sulla trama approssimativa e sulle coincidenze improbabili – dopotutto è un libro per fanciulli, si potrebbe obiettare – ma non sorvoliamo sulla caratterizzazione sommaria, perché è parte di un discorso più ampio.

In questo libro ci sono i Buoni (Sophie, l’angelica Céline, Toussaint, il Cittadino Marchese, Olympe e sua nonna, Bertha, la piccola Adèle) e i Malvagi (Rochester, i nipoti del Cittadino Marchese e svariati personaggi di contorno). Miss Jane è in una specie di limbo, parte vittima consenziente di Rochester, parte ottusa perché inglese, di certo nulla a che vedere con la giovane donna coraggiosa e intelligente che conoscevamo dal suo libro.

In realtà, tutte le caratterizzazioni che conoscevamo dal libro sono stravolte – per nessun motivo migliore della simpatia della Pitzorno per la Francia, a quanto pare – ma non è questo il punto.

Il punto è che tutti i Malvagi, maggiori e minori, pensano, ragionano, sentono e agiscono come gente della prima metà del XIX Secolo, incarnano e mettono in pratica le convenzioni, le idee e la mentalità prevalenti del loro tempo – e proprio per questo sono descritti come malvagi.

I Buoni, per contro, hanno tutti sensibilità del XXI Secolo. Anche quando professano teorie volterriane (per dirla con il Sagrestano della Tosca) o declamano le idee di Victor Hugo, poi le applicano in maniera del tutto contemporanea – e questo, nell’intenzione della Pitzorno, fa di loro i Buoni.

Sophie non è una piccola parigina ottocentesca, è una ragazzina dei giorni nostri immersa in una realtà del XIX Secolo, di cui si risente amaramente. Il modo in cui lo staff di Thornfield Hall tratta la bambina francese è esattamente quello in cui sarebbe stata trattata una bambina all’epoca e nella situazione: con un certo distacco (cui va aggiunto un quid d’imbarazzo dovuto alla nascita irregolare di Adèle). Le smanie di Sophie in proposito sono una reazione dei nostri tempi. E l’idea di Bertha – brava, buona e generosa – rinchiusa perché parla di concedere la libertà agli schiavi sfiora il grottesco.

Ma Bianca Pitzorno non è una principiante: da anni scrive romanzi storici ben documentati, e quindi non commette errori di prospettiva. Piuttosto, distorce deliberatamente la prospettiva, il che a mio avviso è ancora più grave. 

Nel momento in cui caratterizza come malvagi tutti i personaggi che incarnano la mentalità del loro secolo, e dà a tutti i buoni una mentalità del tutto anacronistica, La Bambinaia Francese cessa di essere un romanzo storico e diventa, nella migliore delle ipotesi, un’apologia della nostra mentalità illuminata e politically correct, così superiore a quella ottocentesca. Nella peggiore (e più probabile) delle ipotesi, il libro verrà frainteso e i giovani lettori crederanno che nell’Ottocento gli aristrocratici cattivi (specie se inglesi) dividessero la società in categorie, mentre gli operai buoni e qualche nobile illuminato consideravano tutti gli uomini e le donne liberi e uguali.

In entrambi i casi, l’operazione intellettuale è dannosa.

Set 25, 2010 - grillopensante    2 Comments

Logica Disney

disney-beauty-beast.gifLa sospensione dell’incredulità è quel patto che, da tempi immemorabili*, narratore e destinatario della narrazione stringono (più o meno consapevolmente) prima dell’inizio: siamo tutti qui per una storia, tu creami un mondo, e io ne accetterò le regole per un po’ – fintanto che ci rimango dentro.

Faciloneria nella creazione e mancato rispetto delle proprie premesse tendono a condurre il narratore nei pasticci, ma la sospensione dell’incredulità è fatta di materiale più o meno elastico a seconda del destinatario della storia, dell’epoca, della distanza cronologica tra narratore e destinatario, del genere e di molti altri fattori. La SdI di un sofisticato lettore contemporaneo di fantascienza laureato in Fisica Nucleare tenderà a rompersi molto più facilmente di quella di un bambino che ascolta le fiabe, e di certo gli autori di romanzi storici ottocenteschi se la cavavano con disinvolture che adesso decreterebbero l’immediato fiasco di un romanzo – ma non necessariamente di un film.

Ci pensavo qualche tempo fa, mentre riguardavo insieme alla bambina di un’amica La Bella e la Bestia in versione Disney, e mi stupivo di non avere mai notato le macroscopiche incongruenze di trama e caratterizzazione.

Nel prologo, un Narratore con la voce meravigliosa di Nando Gazzolo ci racconta di questo giovane principe egoista, mutato nella Bestia eponima da una fata particolarmente punitiva. I termini della faccenda non sembrano troppo iniqui, a prima vista: se il principe riesce ad amare e farsi amare prima di compiere 21 anni, torna principe, otherwise rimane bestia per sempre. Gli anni passano e il principe va in depressione: chi avrebbe mai potuto amare una bestia? Si chiede Gazzolo in tono semitragico.

In realtà, a me la domanda rilevante sembra un’altra: chi avrebbe mai potuto trovare la bestia e provare ad amarla, visto che il castello sembra essere sperduto nel bel mezzo di una intricatissima foresta, lontano da tutti i sentieri battuti, e chiunque ci capiti per caso viene energicamente scoraggiato dal rimanere? Vista in quest’ottica, la punizione della fata assume all’improvviso l’aspetto di una condanna a vita che, inflitta a un bambino di undici anni, sembra un tantino drastica.

Undici anni? Ebbene sì: gli oggetti parlanti ripetono più volte che il castello è stregato da dieci anni, e Belle salva il principe-bestia appena prima del suo ventunesimo compleanno, per cui, se l’aritmetica non è un’opinione, le fate Disney sono pronte a condannare senza appello i bambini viziati ed egoisti, con la beffa aggiuntiva di una possibilità di redenzione dalle condizioni-capestro. Inquietante. 

Oddìo, poi forse così sperduto il castello non è, visto che il padre di Belle ci capita per caso, e Belle stessa raggiunge il posto senza eccessiva fatica – per non parlare poi degli abitanti del villaggio, ma allora c’è qualcosa d’altro che non mi torna. Un principe e il suo intero castello vengono stregati senza che nessuno se ne accorga e, appena dieci anni più tardi, gli abitanti di un villaggio within walking distance, cascano completamente dalle nuvole nell’apprendere la storia?

Forse di quest’ultimo particolare non bisogna stupirsi poi troppo, quando si considera che Belle, la diciottenne intellettuale (e proto-femminista) del villaggio, legge con trasporto e passione… Giovannino e la Pianta dei Fagioli Magici**, tra l’ammirata incomprensione dei suoi compaesani. Ma non facciamo del sarcasmo, e limitiamoci piuttosto ad osservare che sarebbe stato abbastanza semplice eliminare parte dei problemi dando all’incantesimo della fata l’effetto di modificare lo scorrere del tempo in qualche modo.

Invece no: gli autori (Linda Woolverton e Roger Allers, mica gli ultimi sprovveduti) strattonano deliberatamente la sospensione dell’incredulità dei loro piccoli spettatori, non preoccupandosi di creare dei problemi per quando gli spettatori, verso la quarantina, rivedranno il film e si faranno qualche domanda logica.

Ma d’altra parte, ammettiamolo: chi, nella sua fanciullezza, si è mai posto il problema? La Bella e la Bestia è un delizioso film e, se anni, distanze e logica non tornano troppo, tanto peggio per chi è cresciuto, ha ristretto la sua SdI e si è dimenticato che, all’interno delle fiabe, le cose funzionano in un altro modo.

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* Anche se il primo a teorizzarlo più o meno in questi termini è stato Coleridge.

** Qualcuno ha un’idea di quale possa essere l’altro libro, quello che il libraio regala a Belle? “Incantesimi, posti esotici, intrepidi duelli, un principe misterioso…” Più il particolare che l’eroina s’innamora dell’eroe prima di scoprire che è il suo re. Da ragazzina me l’ero chiesto molte volte. In realtà potrebbe benissimo essere una collezione di dettagli affastellati a caso, ma visto che la fiaba è una fiaba effettiva…

Il Dilemma del Recensore

HNR_Header_Aug_21.jpgLe mie recensioni cominciano a uscire sulla Historical Novel Review – due negli ultimi due numeri.

Che posso dire? Scrivere per una rivista specializzata internazionale e quotata nell’ambiente è una gradevole sensazione di per sé, ma devo confessare che oggi, nel rileggere quanto sono stata severa in uno dei due casi, mi è venuta la tentazione di iperventilare un pochino. Sia ben chiaro: il romanzo in questione era davvero mediocre, scritto in modo molto approssimativo, pieno di personaggi mal caratterizzati ed errori fattuali grossi come stazioni ferroviarie (similitudine non casuale, visto che, tra l’altro, l’eroina viaggiava da Parigi a Roma su un treno diretto che passava per Napoli!), e tuttavia…

Tuttavia, un conto era leggere storcendo il naso, un conto era scrivere le mie 200 parole taglienti in preda allo zelo della novellina, e tutt’altro conto è stato vedere la mia disapprovazione stampata sulle pagine di una rivista vastamente diffusa tra lettori, autori, editor, ed editori di almeno tre continenti. Francamente, se avessi ricevuto una recensione come quella che ho scritto, al momento sarei molto in vena di harakiri.

E però sono certa che la recensione è puntuale e obbiettiva, e il libro la merita ampiamente. La mia responsabilità è di fronte alla rivista per cui lavoro, ovviamente, e verso i suoi lettori che si aspettano recensioni oneste, sulla base delle quali – almeno in parte – comprare o non comprare il libro in questione. Si può discutere del potere delle recensioni finché si vuole, ma devo ammettere che, quando ho comprato qualche libro nonostante una recensione modesta su HNR, magari perché i personaggi, il periodo o la trama mi attraevano, me ne sono sempre pentita. Per cui, sì: il pubblico si aspetta che chi scrive per HNR legga i libri per intero e sia in grado di valutarne oggettivamente pregi e difetti e di motivare i suoi giudizi; il pubblico tiene conto delle recensioni di HNR nei suoi acquisti.

La mia recensione negativa potrà avere qualche influenza sulle vendite del romanzo – e anche questa è una responsabilità. Una responsabilità diversa, nei confronti di questo specifico autore e del suo editore, così come nei confronti di tutti gli autori ed editori che spediscono i loro romanzi a HNR. In fondo, a loro devo una cosa soltanto: che del loro libro scriverò sempre e solo ciò che penso, nel bene e nel male, senza pregiudizi e al meglio delle mie capacità.

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