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Set 14, 2010 - grillopensante    2 Comments

Compagni Immaginari

220px-Harvey_1950_poster.jpgSono sconcertata.

Intendevo scrivere un post sui compagni immaginari, credendo di trovarne all’infinito nella letteratura per fanciulli, e in effetti è così, ma sembra che siano per lo più nella letteratura per fanciulli – e per fanciulli grandi – angloamericana. Non solo, scopro anche che in Italia l’idea del compagno immaginario tende ad essere considerata lievemente malsana.

Ossignor.

Quindi scopro anche che per anni ho avuto abitudini lievemente malsane e non lo sapevo…

Se non bastasse, scopro in rete un esercito di madri preoccupate per l’equilibrio dei loro pargoli e di gente che guarda con disapprovazione alla disinvoltura con cui gli Anglosassoni trattano l’argomento. Potrei citare autori come Neil Gaiman (il cui taglio è, come ci si potrebbe aspettare, un nonnulla inquietante, ma facciamo finta di nulla), come Cecelia Ahern, come Jodi Picoult, come Patricia Polacco (il cui adorabile e geniale Emma Kate rivolta l’intero concetto come un guanto), come Maurice Sendak (peccato per il film!), come A.A. Milne e, naturalmente, Bill Watterson.

Perché, ebbene sì, Winnie The Pooh e Hobbes sono compagni immaginari – o come altro chiamare degli animali di pezza resi vivi dalla fantasia dei loro padroncini? Un altro caso di questo genere è Emily, la bambola di Sara Crewe ne La Piccola Principessa. Adesso mi comprometto dichiarando che LPP è, a mio avviso, una piccola gemma sottovalutata, ben diversa da altre storie strappalacrime per fanciulli, da cui si differenzia celebrando il potere dell’immaginazione. Pensandoci bene, la faccenda merita un addendum tutto suo a questo post, ma per il momento non divaghiamo e limitiamoci a ricordare come Emily non sia “la bambina” di Sara, bensì un’amica e confidente con cui condividere la nostalgia per l’India e il padre lontano: un’amica immaginaria a tutti gli effetti.

Non tutti i compagni immaginari sono giocattoli in partenza, e a questo proposito mi viene in mente un raro esempio italiano: naturalmente adesso non la trovo più, ma mi pare proprio di ricordare una filastrocca intitolata Il Buio è un Cavaliere*, in cui un bambino affronta la paura del buio trasformando la temuta oscurità in un amico immaginario.

Questo sembra esemplificare bene le teorie sostenute da alcuni studi recenti, secondo cui una percentuale altissima di bambini si crea almeno un compagno immaginario, traendone conforto, complicità e divertimento, superando paure e difficoltà, elaborando eventuali traumi, esercitandosi ai rapporti sociali, al dibattito e alla riflessione. Non mi sembrano cattivi risultati.

Cinema e televisione hanno proposto una serie infinita di compagni immaginari, e credo che citerò un paio di casi soltanto: l’eponimo coniglione Harvey e le tenere bestiole di Miss Potter. Ho scelto tutti questi conigli per due motivi precisi. Il primo è che Wikipedia ha un’intera pagina dedicata alla discutere la natura di Harvey: secondo una scuola di pensiero, non sarebbe un compagno immaginario propriamente detto, perché nel film si afferma esplicitamente che è reale. Lo stesso sembrerebbe dover valere per Hobbes, le cui azioni sembrano avere talvolta risultati reali, come le palle di neve tirate a Calvin. Non sono del tutto certa di essere d’accordo: molti compagni immaginari fittizi** assumono vari gradi di realtà all’interno delle loro storie, ma questo ha che fare con la natura della finzione narrativa e la sospensione dell’incredulità, più che con la natura immaginaria dei compagni stessi.

In secondo luogo, sia Harvey che Miss Potter descrivono compagni immaginari di persone adulte. Naturalmente, Elwood è considerato matto (hence il suo trionfo sugli increduli quando Harvey risulta essere reale) e Beatrix irreparabilmente eccentrica, ma per entrambi i compagni immaginari sono presenze positive. Per BP sono addirittura una sorta di personificazione dell’immaginazione creativa: vere e proprie muse con tanto di coda lanosa. E se pensate che questa sia un’iperbole narrativa, lasciatemi terminare con la storia di Paul Taylor.

Paul Taylor fu un grande coreografo americano, un innovatore e un eclettico. Aveva un compagno immaginario, un singolare personaggio provvisto di un dottorato e varie onorificenze, cui attribuiva pubblicamente il merito di parte del suo lavoro. E no, Taylor non era scisso e non mancava di alcun venerdì: il suo amico immaginario era una proiezione di parte della sua creatività (forse quella consapevole, se bisogna giudicare dai titoli accademici, ma non è detto…), una versione adulta di quelle sagome colorate o quegli animali di pezza in cui il bambino trova confronto, gioco e stimolo intellettuale. E scusate se è poco!

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* C’è una raccolta di fiabe di Marina Valcarenghi con questo titolo, ma non so se la filastrocca ne faccia parte. Se avessi dovuto azzardare un autore, avrei detto Rodari. Però stiamo parlando di ricordi vecchi di trent’anni, e potrei sbagliarmi di grosso.

** Nel senso di “compagni immaginari di personaggi fittizi”, as opposed to “compagni immaginari di persone reali. Come definiremo allora i compagni immaginari dei ritratti fittizi di persone reali? E fa differenza se la persona reale in questione aveva davvero un compagno immaginario? Sento che mi sto avviando per una strada molto tortuosa…

Nero, rosso, bianco e giallo

Rosso_Nero_Giallo_e_Bianco.pngRosso, nero, giallo e bianco. Nella sua biografia di Christopher Marlowe, Una Ellis-Fermor dice che non ci sono altri colori che questi quattro, in tutto il Tamerlano.

Naturalmente, la prima cosa a cui viene da pensare è l’assedio di Damasco. Il primo giorno Tamerlano usa una tenda e bandiere bianche, per significare che ci sarà clemenza per gli abitanti se la città si arrende. Il secondo giorno, tenda e bandiere diventano rosse: Damasco può ancora arrendersi e avere i suoi civili risparmiati, ma non i difensori. Dal terzo giorno in poi, tenda e stendardi neri: non ci sarà più quartiere per nessuno.

E poi bandiere rosse, bianche e nere, e sabbie gialle, e laghi neri di pece, e sangue in quantità (parliamo di una tragedia elisabettiana, dopo tutto), e oro, e colline innevate, e sole, e giaietto, e cavalli candidi… A parte una menzione di zaffiri (che però, secondo Ellis-Fermor, vuole in realtà riferirsi ai diamanti – neri nel tardo ‘500), “nulla indica che Marlowe non fosse daltonico a tutto lo spettro dei colori, con l’eccezione del rosso e del giallo.” Ma ovviamente non si tratta di daltonismo selettivo, bensì di una scelta deliberata.

Ora, scrivere una tragedia intera in uno schema di colori così ristretto richiede guts, perché non bisogna considerare solo i colori citati espressamente, ma anche quelli evocati: troppa insistenza sul cielo o sulle piane erbose, ed ecco che compaiono dell’azzurro e del verde e si finisce fuori tavolozza. Ma Kit Marlowe era un genio, non conosceva la modestia (né letteraria, né otherwise), e a 23 anni era molto padrone dei suoi mezzi – non ancora dei mezzi teatrali, magari, ma quelli poetici: bianco, nero, giallo e rosso, nient’altro.

Mi pare che sia stato Prosper Merimée a descrivere il Trovatore di Verdi come un impasto di oro, fiele e sangue: non posso fare a meno di pensare che la definizione si adatti perfettamente anche al Tamerlano, cromaticamente e non solo.

Mi domando se qualche regista abbia mai messo in scena Tamerlano tenendo conto di questi colori, e tendo a immaginare di sì. Sappiamo che il costume del primo Tamerlano, Ned Alleyn, era decorato di “merletti color rame”. E il rame è una sfumatura di rosso… chissà? Ma in realtà, nel ‘500 il concetto di regia non era quello odierno, ed è lecito dubitare. E tuttavia non è possibile che nessuno ci abbia mai pensato negli ultimi quattro secoli e qualcosa. Anche perché in Inghilterra Marlowe è ancora abbastanza rappresentato.

Ad ogni modo, l’effetto è stupefacente. Viene voglia di sperimentare: scegliere tre o quattro colori e usare solo quelli e le loro sfumature, in tutte le descrizioni, tutte le figure retoriche, tutta l’imagery… Hm. Meglio cominciare con un racconto.

Un racconto breve.

 

Ago 9, 2010 - grillopensante    3 Comments

Calvin, Hobbes e la Scrittura

Potrebbe sembrare che qui mi tiri, come suol dirsi, la zappa sui piedi, ma sto lavorando sul mio paper per un convegno di Archeologia Sperimentale cui interverrò a settembre, e quando mi sono imbattuta in questo non ho resistito. Traduzione mia.

calvinhobbes.jpg 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Esiste davvero qualcuno a cui non piacciono Calvin & Hobbes? 

Parabole Web: L’Internet Marketing Come Narrativa

Cominci con lo scaricare un e-book gratuito di blogging strategies e, prima di accorgertene, ti ritrovi la casella di posta zeppa di offerte di ogni possibile genere. Del viagra e dei rolex taroccati, misericordiosamente, si occupa l’antispam – ma l’Internet Marketing e dintorni lo lascio arrivare, e in parte lo leggo, perché sono affascinata dal fenomeno. Lo sono sotto due aspetti: in primo luogo, anche questa è scrittura, con le sue tecniche e i suoi principi narrativi – but more of that later; in secondo luogo, sembra esserci un’infinita quantità di gente che vive (o spera di vivere, francamente non ne ho idea) vendendo marketing ai marketers. L’immagine è quella di un mercato di venditori di vitamine in cui ciascuno si rinforza con le vitamine altrui per produrre e vendere le proprie vitamine.

Ma non sono fatti miei, io mi occupo di scrittura, e adesso ci arriviamo, perché la sales letter, questo ubiquo e irrinunciabile strumento con cui qualcuno cerca di vendere qualcosa a qualcun altro è diventata praticamente un genere letterario, con le sue convenzioni e le sue formule narrative. A parte la maggiore o minore capacità dell’estensore, la storia tende a seguire una di due strade.

Il sottogenere A), che potremmo chiamare Parabola Salvifica, funziona così:

1) Salve, sono XXX, un ex impiegato/una mamma single/un universitario/una persona media. [E qui stabiliamo l’illusione di un contatto personale. Spesso c’è anche una foto.]

2) Un tempo ero come te, facevo un lavoro che odiavo, sgobbavo tutto il giorno senza soddisfazioni, non avevo mai tempo per la mia famiglia e/o non guadagnavo abbastanza. [Rifletti, o Lettore, sulla tua infelice situazione]

3) Ma poi mi sono licenziato/sono stato licenziato/ho avuto un periodo difficile/ho avuto un figlio. [Ecco il cambiamento, o Lettore – e il cambiamento è cosa buona.]

4) Ero depresso/disperato/incerto/spaventato, ma poi ho scoperto il prodotto/l’idea/la tecnica/la forma d’arte/la terapia che ha cambiato la mia vita. [E che cambierà la tua, o Lettore! ]

5) La mia vita è cambiata! Pur non avendo competenze specifiche, ho creato dal nulla un’attività che mi consente di mantenere la mia famiglia e concedermi piccoli lussi (oppure ho ritrovato la pace interiore/la fiducia in me stesso/la gioia di vivere).

6) Pensa a come sarebbe bello se anche tu potessi vivere felice, concederti viaggi ai Caraibi o cene nei ristoranti eleganti, dipingere ombrelli giapponesi, passare un sacco di tempo con i tuoi bambini, guadagnare senza fatica! [E identifica i tuoi desideri con questi esempi concreti, please! ]

7) In fondo basta poco, pochissimo: il prodotto YYY cambierà la tua vita come ha cambiato la mia. [E ancora nessuna menzione di prezzo.]

8) Non vorresti una vita migliore? E in più ti garantisco che, se non sarai più felice/più ricco entro due mesi, ti rimborserò fino all’ultimo centesimo. [Perché io sono una persona seria, e ci metto la faccia, ecc…]

9) Ricapitoliamo: ti offro tutta una nuova vita, giusto? Quella dei tuoi sogni, giusto? E te la offro (insieme a numerosi omaggi collaterali) per soli 37 $… [Ti sembra ancora troppo? ]

10) Ma siccome sei tu, e per oggi soltanto, facciamo 15 $ e non se ne parli più!!

E poi c’è il sottogenere B), Segreto Rivelato:

1) Salve, sono YYY e da (numero più o meno plausibile) anni mi guadagno da vivere su Internet. [qui può esserci la storia della vita oppure no, dipende: c’è l’ex manager che quindi “sa”, e c’è l’ex ballerina classica che “non sa”, ma è la prova che non serve un’educazione specifica…].

2) Tu e io sappiamo bene che il problema principale con l’Internet Marketing è [problema del giorno: traffico, lista di sottoscrittori, conversione in vendite… va a ondate]. Il motivo per cui il 90% di chi tenta di far soldi in rete fallisce è la mancata conoscenza dei meccanismi del problema del giorno.

3) Lo so che la rete è piena di tecniche, guru, manuali, ricette miracolose… ma siamo franchi: le abbiamo provate tutte (spendendo un sacco di soldi e perdendo un sacco di tempo) e non funzionano.

4) Ma io ho scoperto/programmato/trovato/inventato La Soluzione. Dimenticati le faticose/costose/complesse tecniche della concorrenza: qui c’è il prodotto che ti permetterà di potenziare il tuo internet business [e vivere la vita che hai sempre sognato, ma questo non è sempre presente in modo esplicito.

5) La mia Soluzione fa questo, questo, questo e quest’altro, e prepara un ottimo caffè. Tutto automaticamente, tutto senza fatica: io ho impiegato X anni e Ymila dollari per arrivarci – tu puoi fare presto, approfittare della mia curva di apprendimento e non pensarci più.

6) Non vorresti che la tua attività prosperasse cieli interi al di sopra della concorrenza? E in più ti garantisco che, se non funziona entro due mesi, ti rimborserò fino all’ultimo centesimo.

7) Ricapitoliamo: ti offro La Soluzione ai tuoi problemi, giusto? E te la offro (insieme a numerosi omaggi collaterali) per soli 37 $…

8) Ma siccome sei tu, e per oggi soltanto, facciamo 15 $ e non se ne parli più!!

Tendenzialmente La Parabola è destinata al profano, mentre il Segreto è presentato come l’unico dettaglio che manca all’iniziato in cerca di successo. Poi ci sono variazioni  più o meno ingegnose sul tema e combinazioni diverse a seconda del prodotto e del target. Non tutte hanno l’aria di essere state ideate da gente sveglissima.

 Oggi mi sono ritrovata nella casella l’ennesimo enneafarmaco del traffico web: Non avrai più bisogno di SEO, backlinks, articoli e social media – che comunque non funzionano! Avrai la mia meravigliosa, facilissima, brillante e micidialmente efficace Soluzione, la imposterai una volta e poi sarai sommerso da più traffico di quanto tu possa gestirne! E La Soluzione è tua per 37, anzi per 27, anzi no: facciamo per 15 $, insieme a questi favolosi, utilissimi libri omaggio che ti permetteranno di padroneggiare SEO, backlinks, articoli e social media!

Er… mi sa tanto che o a lui o a me è sfuggito qualcosa, vero?

Facciamo Che…

Forse è il più diffuso, il più universale e il più amato tra i giochi infantili, quello che porta in mondi più lontani, quello che conosce le varianti più disparate e personali: facciamo che io ero Questo, e tu eri Quello, e il salotto era un castello… Giocare a fingere. Con o senza bambole, soldatini o animali di pezza, ricreando le avventure di una storia sentita raccontare o inventando di sana pianta, riproducendo la maternità, il lavoro, la guerra, i rapporti sociali – sempre in qualche specie di equilibrio tra prove tecniche di mondo e il what if più sfrenato.

Chi non ha mai – ma proprio mai – giocato a fingere che… alzi la mano e non si aspetti di essere creduto.

In definitiva, i rapporti tra questo gioco e la letteratura sono stretti: una storia raccontata partendo da un’ipotesi iniziale, la sospensione dell’incredulità, e tutte le possibilità aperte entro le regole del gioco. Narrativa embrionale, e il legame è ancora più evidente nell’espressione inglese make-believe che, a differenza del corrispondente italiano “fare finta” non è associata a connotazioni di menzogna e d’inganno, ma pone l’accento sulla sospensione dell’incredulità da parte del soggetto.

Quindi non è sorprendente che in letteratura si trovino esempi di make-believe, tanto narrati quanto praticati da narratori più o meno in erba- semmai c’è da stupirsi che non ce ne siano di più.

Nella letteratura per fanciulli, il MB è moneta corrente, con vari tipi di significato. Louisa Alcott ne fa un uso frequente e diversificato. In Piccole Donne, le quattro sorelle March riproducono una versione semplificata del viaggio di Christian, il protagonista del Libro del Pellegrino di Bunyan, partendo dalla cantina (Città della Distruzione) e salendo fino alla soffitta ribattezzata Paradiso. Il gioco è chiaramente educativo, e non è chiaro se sia stato ispirato dal padre ecclesiastico o semplicemente ideato dalla vulcanica Jo, ma la scena in cui viene rievocato serve a caratterizzare tanto le quattro ragazze quanto il tipo di educazione che hanno ricevuto. Sotto i Fiori di Lillà, comincia con una lunga scena di MB, la festa di compleanno della bambola in cui due sorelline ricreano i riti di un piccolo mondo sicuro e bene ordinato. L’arrivo del piccolo protagonista – un orfanello fuggito da un circo – scombinerà gioco, realtà e senso di sicurezza. Il racconto Dietro la Maschera presenta una versione più adulta e più inquietante del gioco: in una grande casa di campagna inglese, un gruppo di giovani gioca ai quadri animati con dei vecchi costumi teatrali. Apparentemente l’istitutrice scozzese si lascia coinvolgere un po’ troppo nella finzione con il bel fratello della sua allieva, qualcuno crede al gioco, qualcuno recita, qualcun altro finge – ma non tutto è come sembra.

Più spesso, tuttavia, il MB appare in vesti meno sofisticate. E’ il caso di Momo, di Michael Ende, i cui piccoli protagonisti si lanciano in un’epica avventura immaginaria, fingendo che un vecchi anfiteatro abbandonato sia una nave oceanografica. L’episodio non ha un ruolo narrativo particolare (a parte forse stabilire le posizioni di vari ragazzini all’interno del gruppo), ma la scrittura rende bene l’entusiasmante straniamento di quei prodigiosi pomeriggi che durano un lampo e un secolo insieme. 

Un esempio particolarmente significativo si trova in Puck of Pook’s Hill, di Kipling: nel crepuscolo della sera di Mezz’Estate, Una e Dan recitano una versione adattata di Shakespeare, e la recitano all’aperto, in un cerchio delle fate. Non è chiaro se stiano giocando al teatro o ad essere i personaggi, ma di certo, in un modo che accomuna significativamente gioco, letteratura e incantesimo, Puck in persona obbedisce alla convocazione e compare ai due ignari bambini.

Ho un ricordo molto vago di un libro per ragazzi degli Anni Ottanta – di cui mi sfuggono titolo e autore sicuramente italiano. La storia non era particolarmente memorabile, ma conteneva una scena interessante: entrando di nascosto nel giardino di una casa abbandonata per recuperare un pallone, due ragazzini sorprendevano due coetanee che, con gonne lunghe e bigiotterie sottratte alla mamma, giocavano “a regina e principessa”. “Ma che cosa fanno?” chiedeva uno dei due sbalordito. “Giocano a recitare,” era la risposta. “Le bambine lo fanno spesso.”* Il che sembrava voler implicare una distinzione dei ruoli: calcio per i bambini, make-believe per le bambine. Nell’ultimo capitolo, a mistero risolto, le bambine dichiaravano di avere perso interesse nel giocare “a regina e principessa”, ma non pare che la maturazione di un ragazzino implicasse parimenti il superamento del calcio.

Nella maggior parte dei casi, il MB è associato all’infanzia, ma l’associazione non è sempre particolarmente lieta. Per citare due esempi che più diversi non potrebbero essere, gli eroici sogni ad occhi aperti del futuro Lord Jim (e sostengo con fermezza che, per un bambino solitario, i sogni ad occhi aperti valgono come MB) si riveleranno profezie ironicamente crudeli, e Peter Pan, un ininterrotto, particolarmente magico MB per i fratelli Darling e i Bambini Smarriti, è una storia di irrecuperabilità e di perdita dell’innocenza.**

Quando poi all’aspetto deliberatamente ludico si sostituisce l’imitazione del mondo adulto, la faccenda può assumere colori più sinistri. I Ragazzi della Via Pal di Molnàr e i personaggi de La Guerra dei Bottoni di Pergaud “giocano” alla guerra in modo molto realistico, con tanto di feriti veri e addirittura un morto, in una delle scene più lacrimevoli della storia della letteratura. De Il Signore delle Mosche di Golding non cominciamo nemmeno a parlare, volete? Nei Promessi Sposi, che per fanciulli non sono, alla piccola Gertrude non vengono mai date altro che bambole vestite da monaca, giusto perché non si faccia idee balzane. In Jane Eyre, la piccola (e a dire il vero insopportabile) Adèle viene energicamente scoraggiata dal danzare, perché la madre assente, francese, ballerina e poco seria***, è tutto fuorché un modello da imitare.

Questo MB in chiave negativa sembra una scelta bizzarra da parte di Charlotte Bronte, considerando il ruolo che il MB aveva avuto nella sua formazione personale e letteraria (e che ancora aveva nella vita delle sue sorelle). La profonda e duratura passione dei quattro ragazzi Bronte per i loro regni immaginari e le loro generazioni di personaggi si spingeva al limite dell’ossessione, e nei diari di una Emily ventisettenne si trova questo episodio :

Anne e io abbiamo fatto il nostro primo lungo viaggio da sole e insieme. Siamo partite da casa lunedì 30 giugno, abbiamo dormito a York, siamo arrivate a Keighley Martedì sera, abbiamo dormito lì e siamo tornate a casa a piedi mercoledì mattina. Il tempo era incerto, ma ci siamo divertite moltissimo – tranne per qualche ora a Bradford – e durante il viaggio abbiamo giocato ad essere Ronald Macelgin, Henry Angora, Juliet Augusteena, Rosobelle Esraldan, Ella e Julian Egramont e Catherine Navarre e Cordelia Fitzaphnold. Fingevamo di essere fuggite dal Palazzo dell’Istruzione per raggiungere i Realisti, al momento in rotta davanti ai Repubblicani vittoriosi. (traduzione mia)

Ed ecco che ritorniamo al punto di partenza: make-believe e letteratura. Tutta la produzione poetica di Emily Bronte è basata sul regno immaginario di Gondal che aveva creato insieme ad Anne, e la trama di Cime Tempestose è di derivazione altrettanto gondaliana. Il legame è meno forte nei romanzi di Anne, ma la Jane Eyre ha la sua origine in diverse eroine di Angria, bruttine e indipendenti. Se dico che quei giochi, quei sogni ad occhi aperti e quelle irrealtà condivise hanno fatto delle sorelle Bronte le autrici che sono diventate, non credo di esagerare molto. Se il make-believe è narrativa embrionale, la narrativa si può considerare make-believe adulto – e il viaggio a York di Emily e Anne ci dimostra che fra la distanza tra i due è molto ridotta.

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* Insisto nel dire che non era memorabile. Se ricordo questo passaggio così dettagliatamente è perché – no doubt – il mio subconscio sapeva fin d’allora che un giorno avrei tenuto un blog letterario…

** Se poi si accetta l’ipotesi secondo cui Peter Pan sarebbe basato sul fratello maggiore di Barrie, morto a tredici anni, e che la madre orbata si consolava dicendosi che il suo bambino morto sarebbe rimasto bambino per sempre, il tutto diventa ancora più allegro.

*** In un qualsiasi ordine di gravità.

 

 

 

Ago 4, 2010 - grillopensante    Commenti disabilitati su Ricordando Elvira Sellerio

Ricordando Elvira Sellerio

E’ mancata ieri la signora Elvira Sellerio, fondatrice dell’omonima casa editrice siciliana.

La signora dei piccoli libri blu, delle storie inconsuete e talvolta desuete, delle scelte non convenzionali e dei saggi raffinati. La signora che si era licenziata da un ufficio pubblico per diventare editrice e aveva investito la sua liquidazione nell’impresa. La signora che ha fatto tanto per riscattare la storia tragica della Sicilia attraverso la letteratura e la cultura – riuscendo a non chiudersi in un recinto insulare.

Si è sempre respirata un’aria di ideale e mestiere ben conciliati, attorno al lavoro editoriale di Sellerio, professionalità ed etica dell’editoria e della scrittura, necessità vitale e gioia della lettura. Dicono che la signora Elvira amasse ripetere una citazione di Borges: chi non legge è un masochista, perché si priva del diritto alla felicità. Si sentirà la sua mancanza.

Piccolo ricordo personale. Anni e anni fa, mandai a Sellerio una prima versione de La Mela Rossa. Non una prima stesura – la prima versione nella migliore stesura di cui allora ero capace. Ero molto giovane e acerba del mestiere, e quella Mela era, nella più benevola delle ipotesi, ingenua assai. Allora non sapevo ancora che le case editrici si dichiarano interessate per telefono e respingono per lettera, per cui l’arrivo della lettera di rifiuto fu un’emozione… ma a differenza delle altre volte, non era una formula prestampata su carta intestata. La lettera era scritta a macchina, da parte di una persona che aveva letto il libro per davvero e non l’avrebbe pubblicato, ma mi spiegava quali erano i punti deboli e gli aspetti promettenti e mi incoraggiava a continuare. Per la piccola universitaria piena di fuoco sacro e dubbi misti assortiti, quella lettera firmata (a biro) “Elvira Sellerio” fu una felicità: d’accordo, non c’ero ancora – nemmeno da lontano – ma avevo meritato il tempo, l’attenzione e l’incoraggiamento di un’editrice in persona. Ero sulla strada.

Ho un debito di gratitudine nei confronti della signora Sellerio, che mi ha dedicato il tempo di dirmi che avevo tanto da imparare, ma valeva la pena di farlo. Il suo era un modo di fare editoria di cui si sentirà la mancanza.

Lug 23, 2010 - cinema, grillopensante    5 Comments

La Vita Sessuale Delle Stelle Marine

Erwin Panofsky, che era uno storico dell’arte americano di origine tedesca, scrisse che negli Anni Venti e Trenta l’élite intellettuale tedesca considerava il cinema una sorta di piacere colpevole, nella migliore delle ipotesi:

Nessuna meraviglia quindi che le classi “alte”, quando con cautela cominciarono ad avventurarsi in questi primi cinematografi, lo facessero non in vista di un normale e magari serio divertimento, ma con l’atteggiamento fra imbarazzato e condiscendente con cui ci si può immergere, in allegra compagnia, nella pittoresca confusione di Coney Island o in una fiera di paese; ancora fino a pochi anni fa, negli ambienti socialmente elevati o fra gli intellettuali era consentito dichiarare apprezzabili solo film austeri e istruttivi tipo La vita sessuale delle stelle marine o film dai “bei paesaggi”, ma nessuno avrebbe mai confessato di divertirsi a quelli narrativi.*

 Si direbbe che certe cose non cambino poi troppo e, quando ho letto questo passaggio, la mia prima intenzione è stata quella di farci sopra un rant sullo snobismo che circonda la letteratura (e il cinema) di genere. Perché snobismo c’è, inutile negarlo, ed per di più è prodotto in gusti misti assortiti. Ci sono quelli che si stracciano le vesti al solo nominare Dan Brown, J.K. Rowlings o Stephenie Meyer, ululando alla crassa ingiustizia di un mercato che stravede per questa robaccia malscritta e ignora i capolavori – ma poi scopri che non c’è un’anima che non abbia letto almeno un volume di Harry Potter e/o Il Codice Da Vinci.

Ci sono quelli per cui una storiellona d’amore con elementi soprannaturali scritta da un autore (o meglio un autrice) africano, asiatico o sudamericano è sempre poetica, profonda ed emozionante, mentre la stessa storiellona scritta da un(‘)occidentale – specie se statunitense – è sicuramente robaccia commerciale. 

Ci sono quelli che, quando dici che non ti piacciono la Allende, Pasolini o la Barbery** cominciano a considerarti un esemplare di un’umanità inferiore.

Ci sono quelli che accampano le scuse più diverse per spiegare come mai sono così bene informati su quello che succede in Twilight o in Angeli e Demoni (dal diffusissimo “volevo capire che cos’ha di così speciale” a “qualcuno doveva pur accompagnare le bambine”, fino all’Oscar per la Migliore Stella Marina: “no, non l’ho visto: me l’ha raccontato mia madre!”)

Ci sono quelli che vanno al cinema “per il messaggio”…

Ecco, questo era più o meno quello che intendevo scrivere a proposito di Panofsky e delle sue stelle marine.

Poi ho fatto una brusca frenata e un rapido esame di coscienza. Posto che penso davvero tutto quel che ho scritto fino a qui, posso dire di non essere una snob in fatto di cinema e libri? Mi sa tanto di no. Mi compiaccio della mia apertura e maturità perché riconosco a Dan Brown di conoscere molto bene il suo mestiere, ma poi tempesto contro Nicholas Sparks e Richard Bach. Ho letto tutti i libri di Harry Potter e ho visto anche tutti i film; è vero che non tutti mi sono piaciuti, ma nessuno mi ci ha mai costretta, e la scusa dei meccanismi narrativi è diventata logora dopo i primi due o tre, vero? M’infurio per lo snobismo che circonda la letteratura (e il cinema) di genere e poi tendo a glissare sulle mie letture fantasy. Fatico ancora un po’ ad ammettere di non avere mai finito L’Idiota e di essermi annoiata a morte con Ulysses

Insomma, predico meglio di quanto razzoli: se dovessi cercare un metodo nella faccenda, direi che non ho la minima difficoltà ad ammettere avversioni anche inconsuete e omissioni deliberate e motivate. Quando si tratta di discutere le mie lacune e miei piaceri colpevoli, invece, divento improvvisamente assai timida e sviluppo una memoria selettiva.

D’altra parte, sono abbastanza convinta di essere in buona compagnia. Chi può dichiarare with a straight face di non avere stelle marine nell’armadio alzi la mano e si abbia la mia invidiosa ammirazione – oppure la mia lieve incredulità, a scelta.

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* E. Panofsky, Lo Stile E La Tecnica Del Cinema, (1936). Si trova tradotto in Italiano in Tre Saggi Sullo Stile, edito da Electa.

** Tre scelti a caso e in ordine sparso.

Ah, e no: non so se La Vita Sessuale Delle Stelle Marine esista davvero o se Panofsky l’abbia inventato di plinco. Una rapida ricerca in rete non ha rivelato nulla.

Giu 25, 2010 - grillopensante, sport    Commenti disabilitati su Italia Slovacchia 2 – 3

Italia Slovacchia 2 – 3

Oh, cribbio! Quando i nostro hanno fatto il secondo goal, credevo proprio che ci si riuscisse ancora… Si direbbe che mi sbagliassi. Mi si dice che i nostri hanno giocato inqualificabilmente male per i tre quarti del tempo; mi si dice che forse quel goal che non si capiva bene se fosse entrato o no in realtà c’era, ma fa lo stesso*; mi si dice di starmene buona che non ne capisco niente, ed è proprio vero.

Sarà, però sono delusa. Voglio dire: se si fosse perso dopo avere giocato strabene contro qualcuno che giocava strameglio, allora sarebbe un’altra cosa. Cervantes ha un bel dire che la sconfitta è il blasone delle anime ben nate, ma avrei preferito che le anime ben nate in questione ci avessero messo un po’ più d’impegno, prima di prendere, incartare e portare a casa questo specifico blasone. Temo che stavolta nemmeno la mia inclinazione a simpatizzare con gli sconfitti funzionerà troppo.

Ci pensavo ieri, mentre guardavo la fine del primo tempo (durante il secondo c’era troppo movimento per strologare): come ogni specie vivente, siamo geneticamente programmati per tentare di prevalere, poi abbiamo elaborato, a bocconi e spizzichi, tutte queste sovrastrutture culturali che ci portano a idealizzare gli sconfitti.

StervendeGalaathoofd.jpgSe volessi dimostrare la potenza di questo modo di pensare, partirei dal fatto che la Storia appartiene – per assioma – ai vincitori. Prendiamo un esempio a caso: Annibale. Non sopravvive nessuna fonte cartaginese, e quelle giunte fino a noi sono quasi tutte di parte romana. Nondimeno, l’immagine di Annibale che ci arriva, pur filtrata attraverso gli occhi dei suoi nemici, è quella di un grand’uomo. E non è solo questione del paio di millenni di distanza: non ricordo più dove ho letto che tra gli intellettuali Romani della generazione di Plinio il Giovane era un po’ una moda tenere un busto di Annibale in casa, una sorta di tributo cavalleresco ante litteram al grande nemico sconfitto.

Tutti ci commuoviamo sulle Termopili, su Masada e su El Alamein, tutti ammiriamo i Finlandesi sconfitti nella Guerra d’Inverno, i difensori di Costantinopoli e di Forte Alamo, i Polacchi repressi a turno da Austriaci, Russi e Tedeschi, tutti simpatizziamo con i Giacobiti e i Vandeani, tutti adoriamo Don Quixote e Cyrano di Bergerac, tutti troviamo che Napoleone, Riccardo III e Alessandro trovino la loro massima grandezza (o una forma di redenzione, a seconda dei punti di vista) nella sconfitta.

Millenni di etica della guerra e poi di Cristianesimo, più diversi secoli di letteratura, hanno modellato un’immagine di grandezza della sconfitta, una visione eroica che si estende poi anche allo sport. Vorrei ricordarmi meglio la storia di un atleta olimpico che, dopo avere battuto di misura un avversario che rispettava, fece tagliare in due la sua medaglia e ne inviò metà allo sconfitto. Come dire? In pratica, l’onore delle armi.

Quello che avrei voluto veder meritare dai nostri calciatori ieri pomeriggio, anche se non capisco nulla di calcio.

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* Sì, confesso che questa cosa non la capisco proprio: come può fare lo stesso se un pareggio avrebbe potuto tenerci in gara? Ich nicht verstehe.

Dubbio Atroce

Ma secondo voi, quella gente che non capisce un bottone, che non afferra nulla di quel che voi ripetete quattordici volte, sempre più lenti e sempre più didattici, quella gente che vi fa una domanda e, quando voi rispondete, vi chiede di nuovo quello che vi ha già chiesto, questa gente come fa a vivere? Proprio a menar la vita quotidiana, intendo. Lo chiedo perché ho avuto occasione di disperarmi telefonicamente con un esemplare della specie, del tutto tetragono al pur non siderale concetto che una correzione di bozze e un editing sono due cose ben distinte…

E, mentre cercavo inutilmente di far passare il concetto, mi è venuto da domandarmi: ma come farà quest’essere umano così ottuso a districarsi tra le piccole complicazioni di ogni giorno? Se non afferra una cosa semplice come la differenza tra gli errori di battitura e la struttura del suo romanzo, come diavolo fa a capire le istruzioni del forno a microonde e la politica al telegiornale? Non sto parlando di metafisica, si vive benissimo anche senza metafisica, ma le piccole, semplici cose di ogni dì

E poi, forse, una vaga idea ce l’ho. Ho un anziano parente, non troppo in salute, non proprio un’aquila di mare – completamente incapace di astrarre: voi fare un’osservazione di carattere generale, e lui deve riportarla immediatamente alla sua esperienza, e se non c’entra nulla, tanto peggio per il carattere generale. Nulla lo convincerà mai che le cose non si riducono mai a un aspetto solo, facile da classificare una volta e poi inamovibile. E francamente, a volte mi chiedo perché seguito a provarci, quando è chiaro che per lui l’illusione della semplicità è molto più confortante dell’intuizione della complessità…

Quindi magari è così anche per la creatura con il romanzo da editare: editing = concetto estraneo, inafferrabile e un tantino allarmante (“Ma non mi cambia mica la storia, vero?“); correzione di bozze = prassi rassicurante, conosciuta e innocua (“Per le virgole e gli errori di battitura, faccia come crede“), e dunque: è una correzione di bozze, deve essere una correzione di bozze, intendo fermamente che si tratti di una correzione di bozze e null’altro!

Resta da vedere come concilieremo il bisogno di sicurezza insito nelle pieghe più profonde dell’umana natura e il bisogno di materiale pubblicabile entro una scadenza insito nelle intenzioni dell’editore…

Giu 23, 2010 - grillopensante    2 Comments

La Responsabilità Della Penna

Venerdì scorso è morto José Saramago.

Di sicuro non era il mio scrittore preferito, ma d’altra parte di suo ho letto soltanto due romanzi, il metaletterario La Storia dell’Assedio di Lisbona e il – diciamo così – metastorico Il Viaggio Dell’Elefante. Di entrambi m’intrigava l’idea di partenza (rispettivamente un romanzo storico/ucronico nato da un “non” ballerino e una decorazione di legno vista in un ristorante austriaco), da entrambi sono rimasta piuttosto delusa, dal punto di vista tanto narrativo quanto stilistico. Però L’Assedio ha suggestive descrizioni dell’Alfama, il quartiere pittoresco e fatiscente attorno al castello di Lisbona, e L’Elefante ha, per l’appunto, un elefante al centro, e questi sono i miei migliori ricordi di Saramago.

Di sicuro non ho letto abbastanza da esprimermi sui suoi meriti letterari, e non ho intenzione di farlo. Quello che vorrei annotare è tutt’altro: in questi giorni la stampa ha parlato molto delle sue prese di posizione su argomenti di politica internazionale e religione. Potrei dire che non condivido nessuna delle “crociate” di Saramago, ma non è questo il punto. Quello che mi ha colpita è stato leggere delle sue obiezioni alle critiche espresse dalla Chiesa cattolica in seguito alla pubblicazione de Il Vangelo Secondo Gesù. Premetto in tutta onestà che di quelle obiezioni ho letto solo alcuni stralci fuori contesto, e quindi vorrei che il discorso andasse al di là del caso individuale di Saramago.

Se Saramago intendeva davvero negare il diritto della Chiesa a criticare il suo lavoro di narratore, allora trovo che avesse torto. Trovo che chiunque sostenga che qualcun altro non lo può criticare – sul piano letterario o ideologico – abbia decisamente sbagliato qualcosa. Il fatto di essere narratori e non saggisti non libera dall’assumersi la responsabilità di ciò che si scrive. Un romanziere esprime la sua visione del mondo, le sue opinioni e i suoi valori ad ogni passo, non importa sotto quale forma allegorica, simbolica o fittizia: nel momento in cui si esprime pubblicamente sulle grandi questioni del suo tempo, deve accettarne le conseguenze – il che comprende affrontare le critiche, difendere il suo lavoro e il suo pensiero. Non vale trincerarsi dietro una supposta zona franca della letteratura, non vale nemmeno dire che il tale o tal’altro interlocutore (nel caso di Saramago era la Chiesa) non ha il diritto di pronunciarsi sui meriti letterari di un’opera. Il fatto è che chiunque ha il diritto di pronunciarsi, di sollevare obiezioni concettuali, ma anche di muovere critiche sul piano letterario.

Di ogni parola che scrivo sono responsabile, nella forma e nel contenuto. Non importa se ho deciso di affidare il mio pensiero a una forma narrativa, di esporlo per allegorie, di illuminarlo attraverso storie di secoli passati: se il mio pensiero è in quelle parole e in quella forma (e, checché se ne dica, forma e contenuto non sono davvero scindibili), allora devo essere disposta a risponderne – e né le copie vendute né la popolarità né un Nobel mi metteranno mai al riparo da questo. Anzi, più sono celebre, letta, influente e premiata, maggiore sarà la mia responsabilità.

L’inchiostro stampato è una forma di potere che può essere usato in molti modi: se ne può fare un veicolo per le proprie opinioni, uno strumento per le cause in cui si crede, e questo è perfettamente legittimo. E’ altrettanto legittimo, però, reclamare l’intangibilità e indiscutibilità delle proprie espressioni?

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