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Lug 11, 2018 - grillopensante, memories    1 Comment

Apprendistato

GrandmammaandJaneQuando si considera per bene tutto, è chiaro che a fare di me una scrittrice è stata, in primissimo luogo, mia nonna.

Mia nonna che, quando ero piccola piccola, non mi raccontava mai due volte una favola nello stesso modo: aggiungeva e modificava e ambientava nel nostro giardino, e nei boschi di pioppi lungo il fiume – e m’invitava a fare altrettanto.

Mia nonna che, all’epoca in cui cominciavo a voler fare “la commediografa”, alle matinées domenicali al Teatrino D’Arco, mi sussurrava che, un giorno, avrebbero rappresentato i miei lavori su quel palcoscenico.

Mia nonna che si divertiva a immaginare espressioni bizzarre ed errori di stampa messi in pratica alla lettera.

GrandmotherMia nonna che, in vacanza in montagna o al lago, ricamava storie sulle persone che incrociavamo. In albergo o sedute a un tavolino di caffé per l’aperitivo, in fila per la funivia o in platea prima che iniziasse un concerto, si guardava attorno senza parere, individuava un soggetto e poi… Questi qui vicino alla fioriera. Guarda com’è imbronciata la signora: cosa mai avrà combinato il marito? Oppure la famigliola straniera qui davanti: perché sono venuti in vacanza in Italia? O com’è che il signore con il cane bianco è sempre da solo e non scambia mai una parola con nessuno? Ed eravamo capaci di passare ore a immaginare vite, pensieri, piani, gusti, occupazioni e whatnot per gli sconosciuti che ci capitavano attorno – sulla base di una maglietta, di un’espressione, di un accento, di una postura, di un pezzettino di conversazione…

E allora non lo sapevo, naturalmente, ma era tutto esercizio, tutto apprendistato. Era una mentalità che assorbivo – quella di osservare, interpretare e raccontare. La mia meravigliosa nonna amava leggere e amava le storie in questo modo attivo – anche se non scriveva. Probabilmente è un gran peccato che non lo abbia mai fatto, perché aveva la forma mentis giusta, oltre a vaste quantità di grazia e immaginazione e flair narrativo, e un tocco di senso dell’assurdo… Però, non so quanto intenzionalmente, ha dato l’imprinting alla sua unica nipote – del che, come per infinite altre cose, non le sarò mai abbastanza grata. Di sicuro scrivo per merito suo – ma forse, in un certo senso, scrivo anche un po’ per conto suo?

E voi, o Lettori? Che primo apprendistato avete seguito, sulla via della scrittura, della lettura, della musica, di…?

Mag 9, 2018 - angurie, grillopensante    Commenti disabilitati su Spaventi, Paure, Brividi & Terrori

Spaventi, Paure, Brividi & Terrori

scary-reading-illo-450x313Mi è capitato di discutere di paure visive e paure per iscritto, e A. considerava che spaventarsi davvero leggendo è qualcosa di raro e abbastanza singolare – a differenza dello spaventarsi davanti a un film.

E io ho dovuto dissentire.

Non ho difficoltà ad ammettere che è inverecondamente facile levarmi il sonno, ma farmi paura per iscritto è forse persino più facile che farlo per immagini.

Il dizionario Treccani definisce la paura come

Stato emotivo consistente in un senso di insicurezza, di smarrimento e di ansia di fronte a un pericolo reale o immaginario o dinanzi a cosa o a fatto che sia o si creda dannoso,

e immagino che noi oggi si ricada in un caso particolare di pericolo immaginario… Voglio dire, da bambina credevo davvero che una guerra nucleare potesse scoppiare da un giorno all’altro*, mentre adesso ho una visione un pochino più sana della possibilità, ma non per questo ho smesso di evitare come la peste le storie post-apocalittiche. Quindi si direbbe che il pericolo immaginario vada definito in modo piuttosto lato: non è solo questione di credere a un pericolo che di fatto non esiste (o almeno non troppo), ma anche di perdere il sonno su un pericolo puramente ipotetico.

ghoststoriesD’altra parte, per dire, non credo assolutamente ai fantasmi e le storie di fantasmi mi piacciono molto – ma guai a leggerle dopo il tramonto. E sottolineo leggerle. E qui siete anche autorizzati a sghignazzare alle mie spalle, se vi va, ma siamo arrivati al punto in questione.

Prendiamo un film come The Others, storia di fantasmi se mai ce ne fu una e your mileage may vary, ma personalmente la trovo anche piuttosto angosciante. Sì, sì, lo so: sono una mozzarella. E tuttavia non ho perso notti di sonno per The Others, mentre una storia relativamente innocua come Oh, whistle and I will come to you, my lad di M.R. James, letta di notte, mi costrinse anni orsono a varie notti insonni e con la luce accesa. In età adulta. E anche The Others l’ho visto dopo il tramonto, ma in qualche modo – in qualche modo, su di me la suggestione della parola scritta è più forte di quella delle immagini.**No ILL

O quanto meno, non è meno forte. Credo di avere già parlato della mia seria fobia nei confronti dei R-, le orribili bestie con otto zampe, di cui davvero non so indurmi a scrivere il nome per intero – salvo forse in Inglese… Per qualche motivo spider, senza quell’orribilmente suggestivo gruppo -gn, suona abbastanza asettico perché possa indurmici. Ma persino leggere la parola per intero è abbastanza al di sopra delle mie possibilità, e tendo a saltare pagine e capitoli interi nei romanzi in cui compaiano bestie a otto zampe, e a quattordici anni, per attraversare l’infestatissimo Bosco Atro, dovetti ricorrere all’aiuto di qualcuno*** che mi leggesse il capitolo in questione ad alta voce, e tuttora non posso toccare la parola r-, stampata o scritta, più di quanto possa toccare una fotografia. Persino sentirne parlare mi mette molto a disagio.

E se da tutto ciò vi siete fatti l’idea che soffra di una forma ridicolmente accentuata di fobia, non so darvi torto, ma il punto è e resta che la parola ha su di me lo stesso potere dell’immagine – quando non addirittura di più.

NightmaresImmagino che sia perché, rispetto all’immagine, la parola scritta lascia più spazi bui da riempire – con il mio personale genere di paure? In fondo l’immagine è quello che è, e tende a mostrare più di quanto suggerisca… È quel che non so (e di conseguenza sono libera d’immaginare nel peggiore dei modi) che mi spaventa.

E per di più, mentre sono perfettamente capace di venirmene via da un film che mi dà la pelle d’oca, quando si tratta di libri non ho altrettanto buon senso, e continuo a leggere pur sapendo che poi avrò gli incubi…

Per cui sì, è più facile che mi spaventi con un libro che con un film, e negli anni ho imparato: niente apocalissi e postapocalissi, thank you very much, e meno distopie che sia possibile; niente horror, niente che contenga r- e fantasmi solo prima del tramonto. Poi ci sono sempre gli incidenti, le deviazioni inaspettate e la gente sadica, ma nel complesso la strategia difensiva funziona.

E voi? Ve ne siete mai rimasti insonni a occhi spalancati nel buio, chiedendovi perché diavolo avete dovuto leggere proprio quel libro? O, senza arrivare a questo – e più interessante – vi spaventate per iscritto, o no?

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* E scoprire a dieci anni che è molto più facile farsi prendere sul serio se si dichiarano paure un nonnulla più generiche…

** Del perché invece scrivere di fantasmi dopo il tramonto non mi faccia nessun effetto particolare, magari parleremo un’altra volta.

*** La mia meravigliosa nonna, per la cronaca – che, vedendomi abbandonare di colpo un libro che avevo divorato con inverecondo entusiasmo, e scoprendone il motivo, mi propose: “E se te lo leggessi io, finché non siamo fuori dal bosco?” E così fece – censurando tutto quel che non andava bene e conducendomi in salvo fuori da Bosco Atro. La mia eroina.

Apr 16, 2018 - grillopensante, posti    Commenti disabilitati su Plunk!

Plunk!

stift griffen,carinzia,austria,aspettativeUna decina d’anni fa, in una giornata di temporali e arcobaleni, mi capitò di imbattermi in Stift Griffen, una piccola abbazia benedettina nella Carinzia orientale.

Griffen era – e suppongo sia ancora – un posto incredibile, vecchio di quasi otto secoli, sperduto tra i boschi. Una delle due chiese – quella barocca – e il cimitero sono ancora in uso, ma gli edifici monastici sono parzialmente in rovina. In un’ala è installato un gasthaus, nel cortile crescono dei noci secolari e tutt’attorno ci sono giardini inselvatichiti e un frutteto murato. Nella luce del pomeriggio temporalesco, pocp meno di dieci anni fa, il contrasto tra la coloratissima facciata barocca, la mole severa della chiesa romanico-gotica e le finestre vuote incorniciate dalle volute di stucco sgretolato, la combinazione di secoli, bellezza, isolamento, rose inselvatichite e rovina mi diedero i brividi. stift griffen,carinzia,austria,aspettative

Non era possibile visitare nulla, allora – in Austria il concetto di “troppo tardi” ha tutto un altro significato – e me ne venni via in un tripudio di arcobaleni, scrosci di pioggia e raggi obliqui, con la meravigliosa sensazione di essermi imbattuta in un gioiello naufragato fuori dal tempo. E mi ripromisi di tornarci. Why, una volta a casa scrissi persino una cosa ambientata a Griffen – un piccolo atto unico buttato giù in tre giorni sull’onda dell’entusiasmo.

E per un anno strologai su Griffen, sognai ad occhi aperti di Griffen, desiderai di tornare a Griffen. E cercai di documentarmi su Griffen – cosa non facile perché non si trova nulla in materia, se non qualche accenno in Tedesco, giusto abbastanza per scoprire che l’abbazia era stata fondata nel XIII Secolo e soppressa dal solito Giuseppe II nel 1786. Meditando addirittura di organizzarmici una writing week , feci persino qualche ricerchina sul gasthaus nel cortile del monastero. Già m’immaginavo a scrivere sotto i noci secolari, a passeggiare per il giardino al crepuscolo, a cenare in una stube rivestita di legno scuro con i trofei di caccia alle pareti, ad ascoltare il rumore della pioggia dalla mia stanza enorme e freddina, immaginando il monastero vuoto e buio e desolato tutt’attorno*…  Feci qualche ricerchina, dicevo, e scoprii che il gasthaus è un ristorante per vaste comitive.

stift griffen,carinzia,austria,aspettativeE a questo punto voi la vedete arrivare, la palata incombente,  vero?

Io no. Io mi precipitai di nuovo a Griffen l’estate – non per restarci, solo per visitarla finalmente, e magari prenotare una stanza per l’inizio di settembre. Mi ci precipitatai come ci si precipita a un ricongiungimento, guidando per quattrocentocinquanta chilometri in una mattinata, trascinandomi dietro mia madre (“devi, devi, devi vedere…”), ricostruendo la strada a memoria, immaginando i miei personaggi nello scenario, pregustando meraviglie all’altezza dell’impressione vecchia di un anno e accuratamente indorata nel ricordo.

Immaginatemi che ritrovo la stradina nei boschi, costeggio il muro del frutteto e quello del cimitero, svolto nel cortile con i noci secolari e…

…E lo trovo invaso di turisti in lederhosen e macchine fotografiche – un gruppo arrivato in pullman, ciabattante e rumoroso al modo di chi avesse già tracannato una certa quantità di birra.

Plunk!stift griffen,carinzia,austria,aspettative

E questo era il rumore delle mie dorate attese e della mia Griffen immaginaria che cadono al suolo. Oh sì. abbiamo visitato le due chiese – quella barocca, con le lapidi medievali perse tra le dorature e le statue di legno drammatiche e variopinte, e quella medievale, tutta bianca, nuda, piena di luce e di polvere – ed erano bellissime. Quando non arrivavano gli schiamazzi dei touristen, il silenzio era denso come il latte. Peccato che non succedesse granché. E abbiamo passeggiato per il giardino overgrown, dove non ricordavo che sorgesse un orribile retrocucina di legno, tutto luci al neon e sfoghi di ventole.

“Sei sicura di volerci stare una settimana?” ha chiesto mia madre.

E a quel punto avremmo potuto fuggire, e invece siamo entrate nel gasthaus attraverso un atrio con il pavimento di linoleum e le porte Anni Settanta, dove l’aria sapeva di risciacquatura di cucina. E nel bar c’erano questi mobili di legno chiaro molto cheap – figuratevi peggio-che-Ikea con tappezzerie dai colori fluo – e la radio locale che trasmetteva musica da discoteca, e un’anziana signora in ciabatte e grembiule che, quando le abbiamo chiesto limonata, ha chiesto se l’aranciata andava bene e poi ci ha servito succo di albicocche.

Plunk! Plunk!

“Das Stift ist sehr schoen,” le ha detto mia madre – e so che cosa stava cercando di fare. Sperava che la signora si lanciasse in lai su quanto è difficile gestire un posto come quello, su come il gasthaus si è dovuto adattare alle comitive per sopravvivere, su come rimpiange i tempi in cui tutto era austero e solitario**…

Invece no. La signora ha guardato mia madre con blank eyes e ha borbottato di sì, e che bevessimo pure con calma che non c’era fretta.

Invece la fretta c’era e siamo fuggite via. Nel recuperare l’automobile sotto i noci secolari, ho intravisto un portone che sembrava dare su qualche tipo di cortile interno. Non mi sono nemmeno avvicinata – metti mai che dentro ci fosse una sala con il karaoke…

Ecco. È stato doloroso – e ben mi sta. Avevo trovato un posto perfetto, ne avevo un ricordo emozionante, ci avevo ricamato su, ci avevo persino ambientato una storia… Non potevo lasciare le cose come stavano? Dovevo proprio tornarci e distruggere la mia Griffen immaginaria? Come dicevo, ben mi sta, perché dovrei saperlo: mai, mai, mai tornare nei Posti che abbiamo caricato di troppe aspettative. Mai.

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* How very gothic, isn’t it?

** Col che non voglio farvi credere che sarei capace di capire in dettaglio un discorso del genere in Tedesco… Ma mi sarei accontentata di intuirne vagamente il senso, se la signora l’avesse detto.

Provvidenza 2, Peste 0

PSvotoParlavasi di romanzi storici… oh, right: da queste parti ne parliamo spesso – ma, di recente, se ne parlava qui. E, nei commenti, con B. si strologava sui Promessi Sposi – che piacciono a entrambe, ma a B. più che a me. E mugugnavo, come di consueto, per la conversione dell’Innominato, per Santa Lucia Perfettissima Mondella, per il Cardinale Borromeo – e per l’onnipresente Provvidenza&Carità…

Tutto vero, ha risposto B. – ma soprattutto:

per me la cosa più inaccettabile ed inverosimile resta la sopravvivenza alla peste dei nostri. Considerando come l’epidemia falcidiò la popolazione europea, lo trovo assai improbabile…

A ben pensarci, da un punto di vista medico e statistico, B. ha tutte le ragioni: proprio loro due devono sopravvivere separatamente e poi ritrovarsi giusto in tempo per la pioggia salvifico-batttesimale? Improbabilino anzichenò – e tuttavia…

Non ricordo se abbiamo già parlato della Hermiston Theory di Stevenson… forse un accenno a proposito del Capitan Fracassa? Ad ogni modo, a proposito del suo incompiuto Weir of Hermiston, Stevenson sosteneva che, per andare a finir male, una storia deve cominciare a finir male dalla prima pagina.

rlsNon perché le sciagura debbano cominciare a capitare a pagina 1 – ma perché, nel raggiungere la fatidica paroletta di quattro lettere, il lettore deve scuotere malinconicamente il capo e dirsi che sì, in realtà non poteva finire diversamente… C’è dunque una specie di forza di gravità, nelle storie, che inizia presto a rotolare a valle, verso un certo tipo di finale?

L’editore Charpentier e la moglie di Theophile Gautier sostenevano di sì: come poteva un libro scintillante e gaio come Le Capitaine Fracasse finire con un desolato suicidio nella cripta di famiglia? Era orribile, sosteneva Mamade Grisi. Avrebbe sconcertato i lettori, diceva Charpentier. Stevenson non era ancora nato, all’epoca, ma di lì a qualche decennio l’avrebbe pensata allo stesso modo.

Come poi questo dovesse applicarsi a Hermiston non è chiaro, perché il romanzo è rimasto incompiuto… Il protagonista Archie Weir, malinconico sognatore d’animo gentile, sembra appartenere alla schiera di coloro che non sono equipaggiati per prosperare… Se dovessi dire come inizia a finire questo libro, direi: maluccio. Roderick Hudson

Quella gente come Lord Jim, come James Sands, come Daisy Miller e Roderick Hudson*, come Enjolras e compagnia, come Johnny Nolan: li incontriamo e, senza nemmeno accorgercene, cominciamo subito a farci un’idea. Qualche capitolo, e ne siamo certi: non può finir bene. Doomed people. Mi viene in mente la volta in cui, qualche decennio fa, leggendo il primo capitolo della prima stesura di un mio romanzo, un amico arrivò al punto in cui entrava in scena uno dei protagonisti e, dopo una riga di descrizione, profetizzò: “Hm. Questo qui muore giovane.” Ed essendo una fanciulla ingenua e acerba, spalancai gli occhi in tutta sorpresa – perché era assolutamente vero…

Ma d’altra parte, non è soltanto questione del personaggio: è la storia nel suo complesso, è l’atmosfera, sono le idee su cui la storia è costruita. Poteva Sigognac, dopo varie centinaia di pagine di scanzonate avventure, lasciarsi morire tra le tombe degli antenati? Poteva Lord Jim, dopo aver dato tante disastrose prove di non saper venire a patti con la realtà, invecchiare felice insieme a Jewel? Ed ecco allora che torniamo ai Promessi Sposi: poteva Manzoni, dopo averci assicurato ad nauseam, che la Provvidenza bada alle sue pecorelle, lasciar morire di peste Renzo o Lucia – o entrambi?

PSFinePoi va detto che in tutto ciò c’è probabilmente una vasta quantità di senno di poi, e che un lettore smaliziato sa riconoscere i segni molto presto, e che non è sempre stato così – e che, stando ai famigliari, Stevenson aveva in mente un lieto fine per Archie e Christina…**

Ma a quest’ultimo particolare non so se credere. Può lo scrittore che teorizzava il finale triste da pag. 1 aver pensato di far prosperare Archie Weir? Ne sarei un pochino delusa – allo stesso modo in cui, pur sopportandola pochino, sarei molto sconcertata di veder morire di peste Lucia Perfettella.

Voi che ne dite, o Lettori? Ci sono storie che secondo voi non potrebbero finire altrimenti? E storie che invece dovrebbero?

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* Isabel Archer, on the other hand…

** Mi par di ricordare che a qualche punto la BBC ne abbia tratto uno sceneggiato. Sarei curiosa di sapere come finisce.

Bugiarda, Ipocrita – e Impaziente

JaneLiarSi era a lezione e si discuteva dei motivi che spingono un autore a scrivere una specifica storia. A un certo punto…

Allieva – Per raccontare la propria esperienza umana, per comunicare ciò che si ha dentro.

Io (che sono cinica) – Sì, anche questo. Soprattutto qui da noi, dove impera l’autobiografismo narrativo.

Un’altra Allieva – All’estero non è così?

Io – Nel mondo anglosassone, per esempio, da meno a molto meno.

Allieva – Ah, ma questo è perché gli Inglesi sono ipocriti!

Ecco che ci risiamo

Ho levato un sopracciglio e chiesto se allora solo l’autobiografia è sincera e tutta la narrativa non autobiografica è per sua natura menzognera e ipocrita. L’allieva cui non piacciono gli Inglesi non è stata molto chiara in proposito, e degli altri, qualcuno era decisamente contrario all’idea, qualcuno dubbioso. Poi purtroppo la discussione ha virato in altra direzione, e siamo passati oltre.

Però, reitero: ecco che ci risiamo, con l’idea che scrivere consista nell’aprirsi le coronarie e versare il contenuto sulla pagina. E quando non è così, allora si scrivono bubbole irrilevanti nella migliore delle ipotesi, e deliberate menzogne nella peggiore.

Qui, a dire il vero, eravamo a mezza strada: lo scrittore che “inventa” le sue storie è (britannicamente) ipocrita. Non so se riuscirò ad approfondire la faccenda – e potrei sbagliarmi – ma per ora sono costretta ad assumere che l’ipocrisia consista nel nascondere la propria vera natura dietro uno schermo di finzione non autobiografica…?

Il che, in teoria, non incide sulla qualità della narrativa in questione. Ora, di nuovo, non ho indagato – ma dubito che la signora in questione voglia sostenere che tutta la narrativa anglosassone (e/o non autobiografica) sia inferiore a quella italiana (e/o autobiografica). O almeno lo spero vivamente. E, una volta chiarito questo, riecco la sciaguratamente radicata idea che l’autobiografia goda di qualche genere di superiorità morale, di un grado di sincerità preclusa all’invenzione narrativa.

JaneEyreConfessione (autobiografica!): questo piccolo scambio mi ha riportata indietro di qualche decennio, all’asilo – dove, nelle rare occasioni in cui mi azzardavo a coinvolgere qualche altro implumino nei miei make-believe o a raccontare qualcuna delle storie che immaginavo, le suore mi punivano perché ero bugiarda. E sì, ricordo almeno un’occasione alla Jane Eyre, in cui fui piazzata in piedi in mezzo alla stanza. “La vedete? Lei dice le bugie!”

Inutile dire che in quell’asilo non rimasi a lungo – e che ne dite? magari sono i postumi di questo trauma infantile a rendermi così spinosetta e reattiva sull’argomento?

Perché devo confessare: in realtà, se la discussione che dicevo si è arenata è stato per colpa mia. “Spero di non sconvolgere nessuno dicendo che gli scrittori inventano,” ho detto, con più sarcasmo di quanto fosse il caso. Il che ha divertito la maggior parte della classe, ma non è stato dialetticamente carino da parte mia. Avrei dovuto invece argomentare che in realtà nessuno scrive a prescindere da se stesso e che, specularmente, la sincerità assoluta non esiste da nessuna parte, men che meno in narrativa – ma non l’ho fatto.  E ho sbagliato.

Cercherò di riparare alla prima occasione, riprendendo la discussione se appena sarà possibile e se i tempi ristretti del corso lo permetteranno – perché è giusto e perché l’argomento merita di essere discusso sul serio, non risolto con una battuta.

 

 

Nov 27, 2017 - grillopensante, teatro    2 Comments

Mito e Psiche: Ifigenia (e un bilancio…)

man_122_01Stasera si concludono i Lunedì 2017 – con qualcosa di diverso: il professor Alberto Cattini parlerà di mito e cinema, mostrando e commentando spezzoni dell’Ifigenia di Cacoyannis (nell’originale Greco, con sottotitoli in Inglese).

Quindi, in realtà, il ciclo Mito e Psiche propriamente detto è giunto a termine la settimana scorsa con Antigone – ed è di questo che parliamo oggi: un bilancio di un’esperienza nuova per i Lunedì. Ed è il momento delle confessioni: per dirla proprio tutta, benché questa formula nuova ci intrigasse, non eravamo certissimi della risposta. Le letture drammatizzate ovviamente sono il pilastro dei Lunedì – ma analisi e dibattito a seguire? Ci chiedevamo come potesse prenderla il pubblico che, d’abitudine, non parla volentieri… Se avete mai presentato un libro o tenuto una conferenza, odds are che conosciate quegli imbarazzantissimi momenti che seguono la conclusione: il “Ci sono domande?” di rito cade in un silenzio cavo ed echeggiante, voi guardate il pubblico e il pubblico guarda voi – e il moderatore, se c’è, annaspa, mormora qualcosa su quanto siete stati esaurienti, e poi si affretta a salutare e concludere. Ecco, non è che vada sempre così – anzi! Però succede. E se succede alle conferenze e alle presentazioni, quando si è a teatro potete elevare la possibilità che succeda a potenza indefinita.

E di questo la direttrice artistica aveva avvertito i membri di Freudiana Libera Associazione: non solo poteva succedere – ma non era affatto improbabile che succedesse, e tanto più per l’argomento: le tragedie greche non sono esattamente light and happy fare…

E invece?

Invece! Se siete stati anche a uno solo dei Lunedì in queste cinque settimane passate, avrete constatato che è andata diversamente: il caro, vecchio Teatrino sempre pieno come un uovo, un’attenzione rapita durante le letture, e poi, abilmente stimolato dagli amici di FLA, un dibattito fitto e vivace. Citerò, per tutti, la discussione sulle implicazioni di Antigone – psicanalitiche, sociali, storiche, giuridiche, etiche e filosofiche… una meraviglia!

E quindi possiamo dire che Mito e Psiche ha fatto centro, con la sua combinazione di grande teatro, temi senza tempo e invito a pensare. Di emozioni e di ragione. Di ascolto e di discussione. Credo che lo chiamerò un esperimento riuscito.

E per questo, grazie, o Pubblico. È stato magnifico vedervi così numerosi, entusiasti e partecipi; sentirvi sviscerare ciò che è ancora vero dopo venticinque secoli, e ci parla ancora direttamente… A noi è piaciuto davvero tanto – e speriamo che sia stato così anche per voi.

A questa sera per Ifigenia, allora – e ai prossimi Lunedì!

 

 

Nov 22, 2017 - grillopensante, teatro, Vitarelle e Rotelle    Commenti disabilitati su Sorprese

Sorprese

compleat female stage beauty, jeffrey hatcherAvete visto un film chiamato Stage Beauty? Ebbene, in principio c’era il play di Jeffrey Hatcher, che s’intitola Compleat Female Stage Beauty, ed è notevole*.

Siamo, dovete sapere, a Londra nel 1661, e il neo-restaurato Carlo II è andato a teatro per un >Otello messo in scena da una compagnia in voga. A sipario chiuso, per dir così, il capocomico Tom Betterton discute i regali commenti con la sua stella, Ned Kynaston, e un paio di ospiti…

BETTERTON […] E il Re mi dice: “Bravo, Betterton, bello spettacolo, brividi e spaventi, sabato torniamo a vederlo. Però vi chiedo: si può fare un po’ più allegro?” “Allegro?” dico io. “Sì,” mi fa Carletto, “Un filo più gaio.” E io m’inchino e gli faccio, tutto mellifluo: “Forse Vostra Maestà preferirebbe vedere una commedia?” E lui: “Oh no, assolutamente Otello – però fatelo allegro.” E io: “Be’, Vostra Maestà, c’è il fatto che Mr. Shakespeare finisce con Desdemona strangolata, Emilia pugnalata, Iago arrestato e Otello che si sbudella. Ci suggerite di cassare tutto quanto?” E lui dice: “Cielo, no! Fateli fuori tutti – solo, fatelo più allegro.” Che vuol dire una critica così?**

E mentre il diarista Pepys se ne esce con l’idea di non far morire Desdemona del tutto, è il Duca di Buckingham a centrare il punto, sostenendo che in realtà il Re ha espresso una teoria registica più che rilevante:

VILLIARS Vuole sorprese. È stato via, e i teatri sono stati chiusi per diciotto anni. Adesso è tornato, i teatri riaprono e che cosa trova? Tutto come allora. La poesia l’approva, le idee le approva, amore e morte e tragedia e commedia vanno bene  – però sorprendetelo!

E ci vorranno due atti prima che Kynaston, Betterton, il Re, la sua amante Nell Gwynne, le prime attrici donne, il pubblico, il Duca e Pepys giungano ciascuno alla propria conclusione in fatto di “sorprese”.

Ma il sugo della faccenda, per quanto riguarda la particolare questione delle sorprese, è già tutto lì, e non si applica soltanto alla regia: il Re non vuole storie diverse – why, non vuole nemmeno la stessa storia modificata***. Vuole la vecchia storia, raccontata in modo originale.iliade, compleat female stage beauty, strutture narrative, temi, narratologia

Perché in realtà la quantità di storie – di strutture – che si possono raccontare, dice Hatcher, è limitata. E infatti, ventotto o ventinove secoli dopo siamo ancora qui a raccontarci di gente che vendica amici caduti in battaglia, individui specializzati nell’ingannare spettacolarmente il nemico e donne per amor delle quali accadono guai su larga scala. Però abbiamo eliminato gli dei impiccioni, meschini e prepotenti, Elena e Briseide mute&passive e i grossi cavalli di legno imbottiti di soldati.

Non è affatto facile, e non è questione di rivestire le vecchie storie in abiti moderni. C’è una ragione se non tutte le regie d’opera attualizzate**** funzionano, e la si trova nel fatto che non basta eliminare scene dipinte, crinoline e pose da monumento in piazza… Il senso della faccenda risiede tutto nell’esplorarle daccapo, queste vecchie storie, e rigirarle per farne uscire significati nuovi. Significati rilevanti per noi – adesso.

eneide, compleat female beauty, jeffrey hatcherQuando George Bernard Shaw e Ursula K. Le Guin riscrivono l’Eneide, ciascuno dei due riprende la storia che Virgilio aveva a sua volta ripreso dai miti precedenti. Però Virgilio ne aveva fatto la celebrazione del fato di Roma, una grandezza così ineluttabile che nemmeno gli dei potevano opporsi, Shaw sposta tutto nei Balcani ottocenteschi per fare della satira sulla retorica della guerra e sulla “buona società”, e Le Guin esplora il punto di vista di una Lavinia che è molto meno un pegno politico di quanto si possa pensare…
Quando Robert Carsen sposta Die Walküre in un Novecento diviso tra paesaggi devastati dalla guerra e i cupi saloni di un’élite in disfacimento, ne fa una storia di conseguenze sfuggite a ogni controllo.

Quando uno scrittore a scelta conduce il suo protagonista attraverso un viaggio inziatico, non fa altro che riprendere una struttura che, nei suoi tratti essenziali, significa per noi quello che significava per la gente che ascoltò per la prima volta la storia di Ulisse…

Dopodiché, se è bravo, lo scrittore a scelta saprà intrecciare attorno alla struttura vecchia come le colline strati su strati di significato, e idee nuove, e sfumature inattese. Saprà girare il prisma in modo che prenda e rifletta la luce in angolazioni che prima non c’erano e che sono significative per i suoi lettori – adesso. Significative e sorprendenti, perché poi è di quello che si tratta. È quello che vuole il Re d’Inghilterra/lettore/spettatore/melomane: ritrovare la vecchia storia e trovarci dentro qualcosa che non si era aspettato di trovarci.

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* Anche il film è tutt’altro che male, sia chiaro. Peccato che i ragazzi del marketing o abbiano pubblicizzato come “il nuovo Shakespeare in Love“. In realtà è anything but

** Traduzione mia.

*** Del che, tutto sommato, penso che riparleremo…

*** Orrida, orrida, orrida parola…

Nov 17, 2017 - grillopensante    Commenti disabilitati su Quel Che Non C’è

Quel Che Non C’è

OldMissMC’è questa adorabile anziana signorina, tutta dedita al ricamo, al giardinaggio e alle opere di bene. Poi, a riprova del fatto che la gente è piena di sorprese, si scopre che è anche una ferrarista sfegatata e non si perde una serie poliziesca americana, con una predilezione per i gialli procedurali. Più sono truci, più piacciono alla Signorina M.

“Sono più rassicuranti del telegiornale,” mi ha spiegato. “Nei gialli le cose orribili non restano impunite, i criminali pagano per il sangue che hanno versato, gli sforzi della polizia sono raramente inutili e i tribunali emettono sentenze giuste ed efficaci.”

E allora mi è venuta in mente questa citazione di Thomas Berger: Perché gli scrittori scrivono? Per creare qualcosa che non c’è.”

È vero, questo può significare una compulsione a raccontare una storia che non è ancora stata raccontata, ma in un altro possibile senso si applica anche alla Signorina M. e all’immemoriale significato della narrativa: i narratori offrono all’umanità modelli morali e cautionary tales, in cui la violazione delle regole di convivenza è punita, e gli errori hanno un prezzo. L’ottica di queste narrazioni ha subito variazioni notevoli nel corso dei millenni, e fiumi d’inchiostro sono stati versati per mostrare i molti modi in cui la punizione delle violazioni può mancare il bersaglio, essere trascurata, manipolata o fraintesa.

E tuttavia secoli e secoli di elucubrazioni filosofiche, sperimentazioni letterarie e occasionali bouts di nichilismo morale non impediscono alle anziane signorine – e a tutti noi, se siamo sinceri fino in fondo – di trovare un senso di appagamento nel vedere l’Assassino arrestato dal Poliziotto, trovato colpevole dalla Giuria e condannato dal Giudice alla giusta pena.

Why do writers write? Because it’s not (always) there.

Nov 8, 2017 - gente che scrive, grillopensante, pessima gente, Vitarelle e Rotelle    Commenti disabilitati su Perfidi, Cattivi, Malvagi E Delinquenti

Perfidi, Cattivi, Malvagi E Delinquenti

Questo sarà un post un tantino sconclusionato. Abbiate pazienza e fate conto che abbia dormito poco e che stia rimuginando per iscritto.Villains

Il fatto è che abbastanza spesso, parlando di libri e personaggi, salta fuori il discorso dei malvagi, questa essenziale popolazione letteraria, questa collezione di gente di assoluta indispensabilità narrativa e, spesso e volentieri, di notevole fascino.

Perché in realtà, se per avere una storia abbiamo bisogno di gente che vuole qualcosa e non riesce ad averla, che ne sarebbe delle storie, a chi interesserebbe degli eroi, se non ci fossero gli antagonisti a rendere tutto complicato e avventuroso?

E non so se sia una deformazione molto allarmante, ma non so fare a meno di pensare che sarebbe possibile raccontare a lungo di un Innominato non convertito – mentre Renzo&Lucia, senza l’Innominato &. C. a metter loro i bastoni tra le ruote, sarebbero interessanti come il piano di un tavolo di formica.

Per contro, quando è promosso a protagonista, il Villain tende ad occupare la scena con irresistibile prepotenza. Avanti, così al volo, ditemi chi sono i “buoni” in Riccardo III o ne L’Ebreo di Malta o nel Filippo… Nella migliore delle ipotesi dovete pensarci su – e forse non siete nemmeno certi che i “buoni” ci siano affatto.

Bisogna dire che, occupati ad essere magnanimi, candidi come ermellini e di gran cuore, per secoli i Buoni si sono trovati preclusi tutti quegli interessanti sentieri come ambizione, vendetta*, omicidio, arroganza, propensione all’intrigo, sete di potere, avidità o pura e semplice malevolenza – con tutti i tormenti annessi.

QuilpAncora a metà Ottocento, un relativamente inesperto e affannato Dickens se la cavava creando distribuzioni manichee che nemmeno all’opera, e non è che i lettori lo rincorressero nelle strade per riavere i loro soldi. Il nano Quilp è di una malvagità quasi barocca nella sua gratuità, nerezza e magniloquenza, ma ai nostri cinici occhi d’oggidì c’è un che di redeeming quality nel suo accanimento contro l’angelica, mite e moritura Little Nell. E non riusciamo biasimare del tutto Fagin e Sikes perché vogliono disfarsi dell’impenetrabilmente candido Oliver Twist, vero?

Or at least, I can’t. E quando dico queste cose alle conferenze le anziane signore in prima fila cominciano a guardarmi male, ma resta il fatto che Quilp e Fagin, pur non essendo il genere di malvagi con cui si simpatizza, sono personaggi più vividi, più interessanti e di molte spanne più divertenti dei rispettivi piccoli protagonisti. Il gusto con cui Dickens li ha scritti è evidente in ogni parola, a dispetto della semi-burattinesca bidimensionalità di un Quilp.

Nel caso di Fagin magari la faccenda è un po’ più complessa, ma di sicuro Dickens non stava facendo nessuno sforzo per rendere simpatico il personaggio – di certo non più di quanto Shakespeare volesse fare lo stesso con Riccardo III (che pure ha un suo notevole fascino), o Daphne Du Maurier con la terribile Mrs. Danvers. felipeii

Lo sforzo di comprendere il punto di vista del Villain è tutta un’altra faccenda. Mi verrebbe da citare il passaggio di Filippo II dal nigerrimo tiranno filicida e sadico di Alfieri al sovrano tormentato di Schiller, ma si potrebbe legittimamente sostenere che, se a Filippo cresce un’anima, è perché per Schiller (e ancora di più per Verdi all’opera) la vera malvagità va cercato all’indirizzo della Santa Inquisizione.

Comunque Filippo è tecnicamente un antagonista per il quale siamo autorizzati – se non addirittura invitati – a dispiacerci: un Atlante triste che porta sulle spalle il peso della Spagna tutta, un padre e marito con molte ragioni di dolersi, e guardate come va a finire la prima volta che si concede un affetto… Sarà anche un riprovevole e cieco tiranno, ma è un riprovevole e cieco tiranno in buona fede.

E c’è il fatto che narratori e lettori si smaliziano: da un lato si affermano gli eroi imperfetti e gli antieroi, al centro le distinzioni morali si fanno nebulose e dall’altro lato il Malvagio Perché Sì non basta più. Averla a morte con l’eroe e/o voler conquistare il mondo diventano manifestazioni di motivi più a monte e nuovi clichés si cristallizzano attorno all’antagonista. Trauma infantile, tragica vedovanza, guerra nel Vietnam, famiglia sterminata, rivalsa sociale, a volte anche le migliori intenzioni…

BarabasMurrayAbrahamQualche tempo fa, in un articolo sul Telegraph, Philip Hensher lamentava la scomparsa del buon vecchio Villain tradizionale, quello che trovava un gran gusto nell’essere malvagio, quello per il quale nuocere all’eroe era uno scopo sufficiente in sé stesso, quello cui la nobiltà d’animo del protagonista dava travasi di bile e/o crisi di cachinni.

Oh dove, si domandava Hensher, dove sono finiti i Richard, i Barabbas, gli Jago, i Quilp, le Mme de Merteuil? E si rispondeva che la genia è estinta, sepolta sotto valanghe di umana comprensione e political correctness…

Mah, non saprei.

Dopo tutto, il really villain Villain resiste e prospera nella narrativa per ragazzi e in svariati generi. E considerando i torti che subiscono Barabbas e Shylock, considerando la lealtà feroce e mal ripagata di Redgauntlet, o considerando il fratello e la sorella di Mme Defarge, mi sembra difficile vedere nel Malvagio Con Un Buon Motivo qualcosa di diverso dal discendente di una lunga stirpe.

E comunque state leggendo il blog della donna che ha un debole per Richard, per Jago, per Rupert von Hentzau, per il Conte di Luna, per Steerforth, per Silver, per il Satana di Milton – e ha sempre trovato che avessero tutti delle ottime ragioni per quel che facevano. O quanto meno, del tutto plausibili. O, se non sono del tutto plausibili, fa lo stesso. Che diamine, stiamo parlando di letteratura, e i Malvagi, diciamocelo, si dividono in due categorie: gli altri, e quelli con tanto fascino da chiuderci il buco nell’ozono.

E talvolta dirottarci un libro.

E voi? Come vi ritrovate, in fatto di Villains?

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* Be’, quella magari non sempre – ma per secoli i vendicatori non sono andati a finire particolarmente bene, nemmeno quando si supponeva che avessero tutte le ragioni. Amleto, per dire…

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