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Il Vino Color del Mare

ruotacoloriIeri sera, dopo le prove, si scriveva in gruppo… No, non con la stessa gente delle prove. Altro gruppo, altro posto – seppure in rapida successione. E si scriveva, per l’appunto, in gruppo, e il tema contingente erano i cinque sensi. Esercizi in materia di udito, vista e compagnia cantante.

Naturalmente è venuto il momento dei colori – ma, alas, è venuto tardi, poco prima che dovessimo disperderci nella notte buia e tempestosa…

“Liste,” ho raccomandato oracolarmente a titolo di congedo. “Liste di ogni genere – e anche liste di colori. Col che non intendo giallo, verde, rosso, azzurro, violetto e arancione… Intendo colori particolari, sfumature o combinazioni che significhino qualcosa per voi, nomi belli ed evocativi*…”

Perché, a dire il vero, mi  vado convincendo viepiù che la percezione dei colori sia una faccenda complessa e stratificata – con un aspetto fisico, uno culturale e uno individuale, at the very least – e trasmetterla per iscritto è un mestiere molto più intricato che scrivere “il mare è azzurro”…Omero

Che poi, a ben vedere, il mare non è nemmeno sempre azzurro – o blu, o verde, o grigio. O non sempre lo è stato, se dobbiamo dar retta a Omero. Vi siete mai imbattuti in οίνοψ πόντος? Il mare dall’aspetto di vino, il mare che a vedersi è come il vino, il mare color del vino**… Che cosa intendessero davvero i Greci omerici con questo bizzarro accostamento, è oggetto di pensieri, dibattiti e rimuginamenti da almeno quattro secoli.

E dapprima ci fu chi scrollò le spalle dicendo che dopo tutto Omero era cieco, poor fellow: che ne sapeva lui di che colore avessero il mare e il vino? Ma noi, gente smalizata, sappiamo che il Vecchio Aedo Cieco è faccenda leggendaria, Né siamo troppo disposti a credere che la pietra macinata che all’epoca si aggiungeva al vino potesse renderlo bluastro – perché il vino, quando compare di per sé nell’Iliade e nell’Odissea, è descritto rosso o nero. Quanto all’idea che un’invasione d’alghe o delle ceneri vulcaniche potessero rendere rossiccio qualche tratto di mare, è plausibile in sé – ma si tratta di possibilità molto locali e temporalmente limitate: quella mezza dozzina di οίνοψ πόντος avrebbe davvero attraversato i millenni se avesse avuto senso soltanto per i quattro gatti che avevano visto il mare rossiccio per una stagione? E nemmeno la teoria di un daltonismo diffuso presso i Greci omerici è terribilmente convincente – però è la prima a ipotizzare che, in qualche modo, quei Greci vedessero i colori in modo diverso da noi…

Gladstone2A elaborarla per primo fu William Gladstone***, notando il limitato numero di colori nei poemi omerici e il loro curioso uso, e immaginando che la percezione cromatica fosse una faccenda evolutiva: più avanzata è la civiltà, più colori riconosce e nomina. I Greci al dì d’Omero, semplicemente, non erano ancora arrivati al blu.

Il che è interessante, ma non ancora abbastanza.

Una quindicina d’anni fa, Michel Pastoureau suggerì, in sostanza, che ai Greci di Omero mancasse la categoria concettuale del Blu: in fondo, in natura, non è che se ne trovi molto al di fuori del cielo e del mare – il che non è poco, ma entrambi potevano essere percepiti come vuoti. Hence, il blu non era un colore, ma un vuoto.

Ma la spiegazione più completa e più affascinante dei colori d’Omero l’ho trovata imbattendomi nel lavoro di Mark Bradley, che insegna Storia Antica a Nottingham, e che sostiene che la percezione cromatica di Omero non è arretrata – è del tutto diversa. Omero non ragiona, come facciamo noi da Newton in qua, in termini di colori teorici. Per “lui” i colori sono la buccia esterna delle cose. Il tavolo non è marrone, ma color legno – e, cosa ancor più affascinante, il colore del legno si porta dietro connotazioni non visive che partecipano della natura del legno stesso: consistenza e solidità, ad esempio.

Una sorta di… credete che possiamo chiamarla sinestesia concettuale? WineDarkSea

Ed ecco che il mare ha il colore del vino: entrambi sono scuri e di colore intenso, e traslucidi all’occasione; entrambi sono liquidi; entrambi sono tanto attraenti quanto pericolosi – e mortali se ci si spinge oltre limiti non chiaramente identificiabili… οίνοψ πόντος non ha poi molto a che fare con la ruota dei colori: è una faccenda di idee, attrazioni, consistenze, paure. Una faccenda sofisticata e intricata. Una di quelle cose che non sappiamo più in senso stretto – ma possiamo intuire attraverso i millenni.

Perché il passato è un paese differente, dove fanno le cose in un altro modo. E hanno, si direbbe, colori differenti.

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* Perché ammettiamolo: come resistere a nomi come cinabro, cremisi, oltremare, ocra, verderame…? Il retro di una scatola di colori è una lettura.

** Wine-dark sea, tradusse, a mio avviso molto felicemente, Henry Liddell – il babbo dell’Alice originale. Non so, ha il ritmo e il colore giusto, non vi pare?

*** Sì, quel Gladstone. Primo Ministro inglese – e grecista di tutto rispetto nel tempo libero.

 

Gen 20, 2017 - grillopensante, scrittura, tradizioni    Commenti disabilitati su Divina Scrittura

Divina Scrittura

La scrittura essendo stata la pietra miliare che è stata nella storia dell’umanità, non è sorprendente che molte mitologie le assegnino un’origine divina o mitica. Spesso una stessa divinità è associata alla conoscenza e alla scrittura – il mezzo per preservare e tramandare la conoscenza stessa. Altre divinità presiedono alla scrittura e all’arte, ma ci sono anche accostamenti più bizzarri e sovrapposizioni.

Nabu.pngIn Mesopotamia troviamo una certa abbondanza, il che non è sorprendente: a Nidaba, dea sumera della scrittura e dell’insegnamento, scriba e cronista degli dei, protettrice e divina istruttrice degli scribi, che spesso concludevano i loro documenti lodandola, si accosta prima e poi sostituisce il babilonese Nabu, dio della saggezza, oltre che della scrittura, incaricato, tra l’altro, di scrivere il fato di ogni uomo su una tavoletta d’argilla. In una funzione paragonabile a quella delle Moire/Parche/Norne, Nabu decreta la durata della vita di ciascuno, con la differenza che mentre nel mondo greco-romano e in quello germanico il destino individuale è filato, in ambito mesopotamico esso è scritto. Ma ancora non basta. Altro dio, altra sfumatura: i Nabatei, popolo di mercanti, assegnano al loro dio Al-Kutbay la protezione della scrittura, della conoscenza, ma anche del commercio e della profezia.Seshat.jpg

Divinità simili abbondano anche in Egitto, a cominciare da Thot, altro saggio scriba superno, inventore dei geroglifici e, non a caso, interprete della volontà di Ra presso gli uomini, iniziatore di tutte le scienze e delle arti oratorie, protettore della scrittura e della lettura, misuratore cosmico. Anche Thoth, come Nabu, originava da una divinità femminile equivalente e più antica: la protettrice della conoscenza Seshat, che aveva gli stessi attributi e le stesse funzioni, più una: quella di segnare (anche se non propriamente scrivere) la durata della vita del faraone. Ci vollero intere dinastie perché Thoth soppiantasse Seshat, che in seguito venne indicata come sua figlia o consorte.

Queste divinità (o quanto meno le loro versioni maschili) vengono associate in età ellenistica a Hermes/Mercurio o Apollo. Poco importa che Atena/Minerva sia la dea della saggezza e della conoscenza: la creazione della scrittura è attribuita ad altri abitanti dell’Olimpo legati alla poesia, al commercio, ai messaggi, alle menzogne… però, significativamente, a donare la scrittura agli uomini non è nessun dio, bensì il titano filantropo Prometeo, che per emancipare gli uomini li provvede del fuoco e dell’alfabeto. Poi, in ambito greco-romano abbiamo anche divinità specificamente deputate ad occuparsi di letteratura: Calliope per la poesia epica, Euterpe ed Erato per la poesia lirica ed amorosa, Melpomene per la tragedia, Talia per la commedia, ma tra tutte, soltanto Calliope ha tra i suoi attributi uno strumento di scrittura: una tavoletta.

Ganesha.jpgNel pantheon indù, la bellissima Saraswati è la dea della conoscenza, della prosa, della poesia e della musica – divinità letteraria se non proprio della scrittura. Suo fratello Ganesha dalla testa d’elefante è il protettore delle lettere, colui che gli scrittori invocano prima di scrivere. Considerando che è anche il dio degli inizi e degli ostacoli, non saprei immaginare divinità più appropriata.

Poi si potrebbero considerare il celtico Oghma, nerboruto ed eloquente creatore di alfabeti, i nordici Odino, dio della conoscenza universale e della poesia, e Bragi, dio dell’eloquenza e della poesia, narratore, bardo, cantastorie, e l’Irlandese Brigid, signora delle fiamme e della poesia… Prometeo.jpg

È affascinante vedere come poesia, conoscenza ed eloquenza siano legate alla tradizione orale nelle religioni nordiche e alla scrittura in quelle mesopotamiche e mediterranee. E ancora più affascinante forse è vedere come solo i Greci, questi magnifici antropocentristi, abbiano fatto della scrittura non un dono degli dei ma una conquista dell’umanità e un passo della sua emancipazione.

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Dic 7, 2016 - grillopensante, libri, libri e libri, Storia&storie    Commenti disabilitati su Oh, Questa Tosse…

Oh, Questa Tosse…

ViolettaSarà forse perché da mezza settimana tossisco come un mantice che sono spinta a ruminare di tubercolosi in letteratura? Ovviamente non ho la TBC – solo l’ennesima bronchite – ma bisogna dire che l’effetto sonoro sia quello, perché la famiglia mi chiama Violetta…

In realtà la famiglia potrebbe chiamarmi con un sacco di altri nomi – e adesso procedo a dimostrarvelo – ma è innegabile che la prima eroina tisica che viene in mente sia lei: la donna perduta Marguerite Gauthier, la Signora delle Camelie di Dumas figlio, cambiata in Violetta Valery all’opera (suppongo per comodità prosodico-musicale?), che si redimerebbe volentieri al fianco del bravo ragazzo Alfredo, ma poi ci si mettono di mezzo una sorella pura siccome un angelo e la tosse fatale per procurare il tipo di finale strappalacrime che tanto bene funziona* a teatro – lirico e di prosa.

E quindi, quando nella Bohème Mimì comincia a tossire, capiamo presto che sarà bene preparare i kleenex prima del finale: lo sappiamo tutti che le soffitte sono fredde e malsane, e qualcuno dovrà pur lasciarci le penne. Il candidato ovvio è la tenera fanciulla – di nuovo tra le braccia del tenore, di nuovo dopo un rapido e musicale episodio di quella cosa romantica – la spes tisica, l’ultimo colpo di energia che coglie(rebbe) il malato prima della morte.

Vi dirò, credevo che fosse proprio vero, ma mi si dice che la spes tisica potrebbe essere una delle tante leggende romantiche che circondano il mal sottile. Opera e romanzi hanno costruito l’idea che si tratti di una fine poetica, il genere di cose in cui qualcuno d’interessante si fa pallido, tossisce assai, s’indebolisce, perde un po’ di sangue dalla bocca (cercando sempre di nasconderlo in un fazzoletto che poi viene scoperto), tossisce ancora, può svenire una volta o due – ma questo è opzionale – ha l’impressione di star meglio e poi reclina la testa sulla spalla… Scene di dolore da parte dei superstiti affranti, buio, sipario, applausi.Smike

Più o meno così, ne I Miserabili, muore Fantine, ragazza perduta e madre di Cosette, provvedendo il protagonista di una figlia adottiva. In Dickens mi vongono in mente un paio di casi maschile, Richard Carstairs in Casa Desolata, e il povero Smike, cugino illegittimo di Nicholas Nickleby. Richard in realtà è uno di quei personaggi un nonnulla irritanti – ma a voler vedere, Smike è piuttosto simile a Fantine nella quantità di sventure che i rispettivi autori accumulano sul capo di ciascuno, con la tisi a titolo di ciliegina sulla torta – e per essere cinici, non c’era nessuna utilità per Fantine viva o per Smike vivo. Direi che si possono diagnosticare tranquillamente due casi di tbc narrativa…

Curiosamente, la faccenda si fa più cupa con Kipling, in Rewards And Fairies, che dovrebbe essere una raccolta di racconti per bambini. Ma Philadelphia, giovane figlia di un gentiluomo inglese in tempi di guerre napoleoniche, non sa che la sua tisi è incurabile e che diventerà presto difficile da sopportare. I due piccoli protagonisti, Una e Dan, intuiscono la verità dalle mezze parole e dall’angoscia del giovane medico francese prigioniero di guerra che di Philadelphia è innamorato e che non può fare nulla per lei – se non lasciarla nella sua illusione di guarire presto da quella tosse così fastidiosa.

RalphE si capisce che nessuna malattia sarebbe davvero interessante dal punto di vista letterario se non tendesse ad avere conseguenze fatali. Diciamola tutta: a chi importa un bottone della bronchite? Henry James appiccicava spesso la consunzione ai suoi personaggi, perché era stato traumatizzato dalla morte dell’amatissima e poco più che ventenne cugina Minnie Temple, e perché una lenta condanna è sempre un device narrativo pieno di possibilità. Così Milly Theale, la protagonista de Le Ali Della Colomba, deve parte del suo fascino e metà dei suoi problemi al fatto che sta morendo di tisi. E la candida, irreprimibile, socialmente disastrosa Daisy Miller diventa una figura tragica quando comincia a tossire, per il contrasto tra la sua natura esuberante e la sua caducità. Poi c’è Ralph Touchett, il cugino di Isabel Archer in Ritratto di Signora. Ralph è innamorato di Isabel, ma non si fa avanti perché è malato. Quando Isabel è colta dal dubbio di poterlo ricambiare, è un filino tardi – ma poco importa: noi lettori, meno distratti di Isabel, lo abbiamo trovato interessante per tutto il tempo.

Un altro che con il mal sottile andava a nozze era Dostoevskij: I Fratelli Karamazov, I Demoni, l’Idiota, Delitto e Castigo… qualcuno che tossisce c’è sempre. Ma d’altra parte, la TBC gli aveva portato via la madre e (forse) un fratello. Semmai è sorprendente che Charlotte Bronte, con la sua vicenda famigliare, faccia un uso così limitato della malattia. O forse, dopo avere perduto per tisi Branwell, Emily e Anne nel giro di pochi anni, non aveva più nessun desiderio di parlarne nei suoi romanzi. L’unico caso di consuzione di Charlotte lo troviamo in Shirley (scritto in buona parte durante la malattia di Emily): Caroline Helstone si ammala, ma poi si riprende, guarisce e prospera. E forse non è un caso che Caroline fosse un parziale autoritratto?KeatsSevern

Perché capitava anche di guarire, ma non succedeva spessissimo: per un Goethe, che sembra dover morire ragazzo e poi sopravvive e campa altri sessant’anni abbondanti, sono tanti a morirne. Malattia da poeti, si direbbe, se contiamo Catullo, Keats (e suo fratello), Rostand, Novalis, Leopardi (che aveva cantato la tisica Silvia), Eluard, Elizabeth Barret Browining, Schiller, Robert Burns, Guido Gozzano. E malattia da romanzieri, anche: mi vengono in mente Stevenson, Dashiell Hammet, Gorkij, Stephen Crane, Balzac, Checov, Kafka, Orwell, Maupassant, ma sono certa che ce ne sono molti altri. E i musicisti: Pergolesi, Stravinskij, Chopin**… E come potrebbe non essere un male romantico, quando ne muoiono tanti artisti?

In realtà non è affatto una bella fine, come si evince per esempio dalla dolorosissima e protratta agonia del Duca di Reichstadt/Re di Roma, lo sventurato figlio di Napoleone e Maria Luigia d’Asburgo, descritta da Francesca Sanvitale ne Il Figlio Dell’Impero.

Eppure…. Per diversi secoli la tisi è stata la Malattia, quella che colpiva indiscriminatamente in tutte le classi sociali*** , che condannava con scarse possibilità di appello, che uccideva lentamente, che si cercava di curare nei sanatori (La Montagna Incantata). Ma a differenza di quel che è accaduto in secoli diversi per la peste, per il colera, per la lebbra, per il cancro e per l’AIDS, invece di generare un alone di paura, orrore generalizzato e stigma sociale, la consunzione ha goduto di una sorta di nobilitazione artistica: la tisi era il male degli innamorati, dei ribelli, degli artisti, degli sventurati giovani e belli, di chi era caro agli dei… Clark Lawlor ha dedicato a questo fenomeno tutto un ponderossissimo e vagamente perplesso saggio. Letteratura e musica hanno ingentilito, quando non addirittura mitizzato, la percezione del mal sottile – al punto che il Giovane Poeta Languente e la Fanciulla Consuntiva sono diventati icone letterarie, e una tosse insistente (per non parlare di un fazzoletto macchiato di sangue) è un topos letterario inequivocabile. In un romanzo, a teatro o al cinema nessuno tossisce per caso: bastano un paio di colpi, e potete scommettere con ragionevole certezza che il personaggio non vivrà a lungo.

Ciò che, tra parentesi, mi rende al momento molto lieta di non essere il personaggio di un libro…

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* Dipende: nell’ultima Traviata che ho visto, Violetta era un pezzo di figliola e Alfredo un po’ esilino, tanto che all’ultimo atto prudenza registica ha voluto che la fanciulla collassasse tra le braccia non del tenorino, ma del più solido medico curante.

** In realtà, molti anni fa, un alunno di mia madre propose la sconcertante teoria alternativa che il poveretto fosse morto perché George Sand lo teneva sveglio di notte a comporre i Notturni.

*** Ciò che si riflette puntualmente in letteratura, con la malattia che colpisce del pari, seppure per diversi motivi, la ricca e bellissima Clarissa, lo scrittore middle class Edwin in New Grub Street e l’operaia Bessie di North and South.

Tutto Inventato

governessMillenni fa, quando davo ripetizioni private, la mia allieva preferitissima, vispa liceale quindicenne senza alcun vero bisogno di ripetizioni, pensò bene di sconvolgermi annunciando trucemente che non le interessava studiare Latino, non le piaceva e non ne vedeva l’utilità, visto che di sicuro nessuno l’aveva mai parlato.

Io, al momento appollaiata su una scaletta in cerca di un vecchio libro di versioni, scoppiai a ridere.

“No, dico davvero,” insisté R. “Non vorrai farmi credere che qualcuno fosse tanto idiota da parlare questa roba con le declinazioni, vero?”

“Un sacco di gente parla roba con le declinazioni,” dissi io. “Ancora adesso: il Tedesco ha le declinazioni, il Russo ha le declinazioni…”

“Be’, è diverso. Quelle sono lingue che la gente parla. Il Latino no.”

“Adesso no, magari*, ma fino a nemmeno tantissimo tempo fa… lo sai che il Quartiere Latino di Parigi si chiama così perché ancora nel Settecento…”

” È inutile, non sforzarti. Tanto non ci credo che lo parlassero davvero. E non credo nemmeno alla storia, se è per questo.”Ladder

E qui per poco non caddi dalla scaletta. Come, non credeva alla storia? Non credeva che fossero successe le cose raccontate nei libri di storia. E secondo lei, perché le avrebbero raccontate, allora? Oh, chi lo sa? Magari si erano messi d’accordo. Ma chi? E Perché? Oh, chi lo sa? Per far fare bella figura a Roma, per esempio. E quindi c’era una Roma? Boh, magari sì. E cosa facevano questi Romani, mentre non facevano quello che dicono gli storici? E chi lo sa? Di sicuro non quelle cose troppo ovvie e troppo prevedibili che dicono i libri. Ovvie e prevedibili?! Sì, come Cesare, che va in Senato anche se gli dicono di non andarci, e poi lo accoltellano…

D’accordo, la piccola R. aveva detto qualcosa a caso perché non aveva voglia di cercare cognovi sul vocabolario, e si era ritrovata in pasticci più grossi, come la necessità di difendere un’affermazione a cui non aveva pensato granché… E però non posso fare a meno di pensare che la sua insofferenza nei confronti della storia e del Latino fosse in parte sincera.

idesofmarch15Considerando che R. era sveglia e studiosa, una di quei ragazzini a cui piace andare a scuola, l’idea era e resta un po’ scoraggiante. Non da oggi penso che insegnare la storia come una serie di date, nomi e fattori economici sia deleterio. Come è possibile appassionarsi alla complessità multiforme dei processi che ci hanno resi quelli che siamo, mandando a memoria il progressivo diffondersi della patata sul continente europeo?

E d’altra parte, me ne rendo ben conto, le ore e i programmi sono quelli che sono, e offrire una panoramica generale è il meglio che si può fare. Chi si interessa approfondirà poi all’università o per conto proprio…

Eppure… che non ci sia un modo diverso? Che non si possa da un lato stimolare l’interesse e consentirgli di svilupparsi, e dall’altro offrire gli strumenti intellettuali per farlo?

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* In realtà, di recente, un’amica di mia madre mi ha raccontato di una serata lontana, in una discoteca della Swinging London anni Sessanta, in cui conversò lungamente in Latino con un giovane ingegnere tedesco…

Ago 17, 2016 - considerazioni sparse, grillopensante, teatro    Commenti disabilitati su La Maschera di Rame (Atto I)

La Maschera di Rame (Atto I)

Red-Masquerade-Eye-MaskParlando di cappelli, avevo accennato alla maschera, nevvero?

Ebbene, eccoci qui: oggi maschera.

Dunque, dovete sapere che il Coro è una sorta di voce narrante. Una. “Non un coro: il Coro,” mi sono divertita a rispondere a più di un perplesso nel corso degli ultimi mesi.  “Come un Coro Greco ma non un Coro Greco. Un Coro Elisabettiano. Una persona sola.”

È una soluzione  antica e blasonata per la necessità di cucire insieme eventi, tempi o faccende diverse, riassumere e spiegare senza averne troppo l’aria, et caetera similia. E SiW, mescolando fette di almeno tre drammi storici e due sonetti, di un legante aveva proprio bisogno. Non dico che non si sarebbe potuto fare diversamente – ma ho fatto così: un Coro.

E del Coro non sono troppo insoddisfatta. Come poi sia finita a recitarlo io è un’altra faccenda – ma tant’è. E presto, prestissimo, è stato chiaro che volevamo una messa in scena sobria e minimale: tutti in costume rigorosamente nero, con un elemento di colore a distinguere il Coro. Perché il Coro non è un personaggio in senso stretto e, come si diceva, non è qualcuno: è qualcosa. Qualcosa di onnisciente, atemporale e più che un po’ crudele, che osserva, racconta e talvolta muove i personaggi. Quindi andava distinto in qualche modo. p187983_1

Il mio primo pensiero era stato una stola. Una stola color rame, molto lunga, da potersi indossare e usare in molti modi diversi mano a mano che il Coro attraversava le sue varie funzioni… E per un po’ abbiamo provato così, ed è parso che andasse ragionevolmente bene – finché, una sera, G. la Regista mi guarda per bene, aggrotta la fronte e mi chiede che cosa intendo usare come elemento speciale del Coro.

Io alzo una stola e un sopracciglio, e G. storce il naso.

“Quella roba lì da mezza sera? Hmf.”

58f928516d69d368489c0fd4796121b4Ora, tra una cosa e l’altra sono quasi venticinque anni che faccio teatro con G. e ho imparato a non dire quasi mai cose come “Ma se ancora ieri hai detto che andava bene!” Tuttavia mi sono affezionata alla mia stola, e potrei dar voce all’Obiezione Che Non Si Fa, se G. me ne lasciasse il tempo.

Ma non me lo lascia. “No, sai che cosa ti ci vuole? Una maschera. Una di quelle maschere greche meravigliose. Non sei un coro, tu?”

Spiego che no, non sono un coro – sono il Coro. E comunque sono il Coro Elisabettiano, e non un Coro Greco… G. dice “sciocchezze”; io dico “niente affatto”; G. dice “procurati una maschera greca”; io dico “nemmeno per idea”; G. dice che sono sempre stata troppo cerebrale per il mio bene e piena di resistenze (o qualcos’altro allo stesso effetto) e che comunque lei vuole una maschera greca – e le prove non finiscono proprio nello spirito migliore, e me ne vengo a casa di umor ribelle. Una maschera greca – figuriamoci…! Untitled 5

O quanto meno, parto di umor ribelle. Epperò, più guido e sbollisco il nervosismo, più l’idea della maschera mi pare degna di considerazione. Di certo è più significativa di una stola. Rimuginon-rimuginoni me ne arrivo a casa, e dissotterro una bautta comprata a Venezia, mezza bianca e mezza nera. “Ecco il Coro!” penso tra me – e l’indomani ne metto a parte G. per telefono.

“Banale,” è il verdetto. Cercati una maschera greca.” Fuoco e fiamme: sono forse un Coro Greco, io? E qui potete immaginare una ripetizione pressoché verbatim della discussione di due paragrafi più sopra. Una maschera greca, forsooth!

E… Sipario! Fine dell’Atto Primo. Luci di sala, intervallo, brusio, calicetti di vin bianco nel foyer.

Come andrà a finire? G. e la Clarina troveranno un accordo? Coro Greco o Coro Elisabettiano? Ci sarà una maschera affatto? Non perdete il prossimo appassionante episodio de… La Maschera di Rame.

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Ago 10, 2016 - gente che scrive, grillopensante    Commenti disabilitati su Vita, Letteratura, Letteratura, Vita

Vita, Letteratura, Letteratura, Vita

Ed ecco un’altra osservazione interessante: rispetto alla letteratura, la vita è molto più irregolare, incoerente, variabile, piena di tediosi dettagli. E adesso un pensiero bizzarro: magari la  vera vita – vale a dire il suo modello di costruzione, l’insieme delle sue unità di misura – è la letteratura, mentre la cosiddetta vita è soltanto un abbozzo, una via d’approccio, uno schema generale e, nella migliore delle ipotesi, una prima stesura. Parola d’onore: a volte la letteratura sembra la bella copia, e la vita una brutta copia – e nemmeno la più utile che si possa immaginare.
Vyacheslav Pyetsukh, The New Moscow Philosophy.

nmp_cover_v10E questa, abbiate pazienza, era la mia traduzione impromptu di una traduzione inglese, perché non mi risulta che VP sia stato tradotto in Italia.

Specificato ciò, il concetto è intrigante, seppure non nuovissimo. Ricordo di avere letto molti anni fa un racconto di Karen Blixen (mi piacerebbe ricordarmi quale, ma è passato davvero tanto tempo e il libro era in prestito) in cui un personaggio sosteneva che l’umanità non è l’oggetto della creazione divina, ma solo un mezzo. Essa esiste perché al suo interno nascano, facciano esperienza, e lavorino poeti e scrittori – il cui mestiere è quello di distillare tutta quella materia informe e caotica in personaggi letterari, prodotto finale della creazione.

letteratura, vyacheslav pyetsukh, karen blixen, balzac, tolkien, tennessee williamsE qui si potrebbero citare in ordine sparso Tolkien, secondo cui gli scrittori sono gente con il complesso della subcreazione; e Balzac con la sua convinzione che la letteratura dovendo essere non vera, ma verosimile, non possa permettersi le bizzarrie, le incoerenze e le coincidenze che abbondano nella vita; e Randy Ingermanson, che definisce il dialogo letterario come pesce già sfilettato – senza parti inappetibili; e Sweet, secondo cui la vividezza dell’arte sbaraglia sempre la realtà; e tutti gli innumerevoli scrittori che ripetono all’infinito come in letteratura non trovino posto la casualità, mancanza di senso e generale insipidezza di quella che Pyetsukh chiama “la cosiddetta vita”.

Lvyascheslav pyetsukh,karen blixen,tolkien,balzac,tennessee williamseggevo di recente di un’autrice alle prese con un dilemma: un personaggio storico di cui le piacevano nome, personalità e occupazione: prese individualmente, le tre cose erano perfette per il suo romanzo – ma non stavano bene combinate insieme. Così ha diviso il signore in questione in due: da un lato nome e occupazione per il protagonista, dall’altra personalità e intolleranza religiosa per un altro personaggio. È un piccolo caso da manuale, perché a differenza della vita, la letteratura non spreca un nome da romanzo per un puritano di mezza età senza la stoffa del protagonista. Il fatto che il nome in realtà appartenesse al puritano? Fa nulla.

Fa nulla, perché per tutti gli scrittori – in maggiore o minor misura, più o meno consciamente – vale quello che Tennessee Williams fa dire a Blanche in A Streetcar Named Desire:

Non cerco il realismo, cerco la magia. Sì, sì, ecco che cosa cerco di dare alla gente: la magia. E sì, deformo i fatti, ma io non dico la verità – dico quel che dovrebbe essere la verità.

E d’altra parte, persino il realismo più estremo interviene sulla realtà – non foss’altro che fissandone una visione specifica, in un dato StreetCar Blanchemomento, in date condizioni, attraverso un dato punto di vista. Il che, probabilmente, non vale soltanto per la letteratura, ma per tutte le forme d’arte. Vera vita? Non lo so. Creazione divina indiretta? Poetico e un po’ stiracchiato. Necessità profonda? Absolutely.

Ago 3, 2016 - grillopensante, Shakespeare Year, Storia&storie, teatro    Commenti disabilitati su Chiavi di Lettura

Chiavi di Lettura

chiaveanticaEcco, e quindi domani è il gran giorno, e Shakespeare in Words va in scena…

Ma oggi non vi racconto nulla del dietro le quinte. Oggi vi metto a parte di una piccola epifania shakespeariana occorsa qualche settimana fa, all’indomani del fallito colpo di stato in Turchia.

Stavamo provando il terz’atto del Giulio Cesare, e in particolare la scena III, in cui Bruto e poi Antonio parlano alla folla – e all’improvviso… folgorazione! La Roma di Shakespeare e la nostra Istanbul… JC3

Fateci caso, se domani sera venite a teatro: gli ufficiali kemalisti/Bruto, con l’atto di forza e, a titolo di giustificazione, tutta una serie di gelide e astratte virtù civiche – che si tratti della laicità o della prevenzione degli ipotetici mali dell’ambizione di Cesare. E poi Antonio/Erdogan entra in scena, perché chi dovrebbe e potrebbe impedirglielo, non lo fa – e arringa la folla (dai rostri nel Foro o attraverso un cellulare) puntando alla paura dell’ignoto, alle emozioni, all’avidità, chiamando a raccolta, incitando alla violenza… E la folla risponde agli argomenti di Antonio/Erdogan, più viscerali e più concreti, e si scatena: grida, minacce, sangue versato, linciaggi nelle strade…

E lo so che è una lettura molto parziale sia di Shakespeare che della situazione turca – ma i paralleli ci sono, e ce ne siamo serviti per lavorare su motivazioni e dinamiche all’interno della scena in questione. È parte della grandezza di Shakespeare: non perché leggesse il futuro nella sfera di cristallo, ma perché sapeva cogliere certi aspetti della natura umana che, apparentemente, non cambiano granché da Roma antica all’Inghilterra elisabettiana alla Turchia del XXI secolo. Se ne può concludere che non trascurare la comunicazione non è affatto sufficiente: bisogna anche saperne padroneggiare i meccanismi. Un’idea adatta a un uomo che, quattrocento anni e rotti orsono, è uscito dalla bottega di calzolaio di suo padre per diventare forse il poeta più citato, studiato e rappresentato al mondo. E se ne può concludere anche che i poeti morti non sono poi così morti, dopo tutto – qualcosa di cui in Italia, ogni tanto, abbiamo bisogno di ricordarci.

E possiamo anche trovarci un buon motivo per venire a teatro, domani sera, a vedere Shakespeare in Words, l’Immortalità delle Parole. Vi aspetto a Ostiglia, domani sera.

 

 

E lo sport?

BallA me, ad essere sinceri, il calcio non piace. Però è difficile ignorare gli Europei in corso, e le partite della Nazionale le guardo persino io. E mentre le guardo, rimugino su faccende che strettamente calcistiche non sono – but still. Non ricordo più dove ho letto che le cronache sportive sono l’ultimo rifugio del linguaggio epico – ma concordo abbastanza.  Provate a pensare alle telecronache di calcio, piene di attacchi, di sciabolate, di spalti in delirio, di cannonate… E di certo lo sport è un sostituto socialmente accettabile della guerra per lo sfogo degl’istinti aggressivi, giusto?

Nondimeno mi pare che in Italia il romanzo sportivo proprio non prenda. Negli Stati Uniti lo Sports Novel è un sottogenere, anche se non il più prolifico del mondo, piuttosto concentrato su baseball e football americano, con occasionali incursioni in altri sport. Confesso di essermi chiesta, quando l’ho scoperto, come si riesca a rendere avvincente una scena di baseball per iscritto, ma non ho mai trovato il coraggio di leggere qualche baseball novel per sincerarmene.

Naturalmente ci sono molti film di argomento sportivo, e anche molti anime (la mia generazione è cresciuta con i cartoni animati sulla pallavolo), ma pochi romanzi. Tutto considerato, è abbastanza sorprendente, data la quantità di conflitto e di dramma che circonda lo sport sotto tutti gli aspetti. Dalle corse delle bighe tra Verdi e Azzurri nell’antica Bisanzio in qua, le rivalità, i destini dei campioni, gli intrighi, il denaro, il peso politico degli sport non sono mai diminuiti: tutta roba che si presta dannatamente ad essere raccontata, con o senza trame secondarie gialle o sentimentali, con o senza bildungsroman incorporato…. che diamine, lo sport si presta ad essere incorporato praticamente in qualsiasi genere.

Prendiamo per esempio il pattinaggio artistico. Rimpiango molto il tempo in cui Plushenko e Yagudin si contendevano lo scettro. Rivalità epica, feroce, di quelle che meriterebbero davvero un romanzo:

Nonostante quello che ho scritto qui sopra a proposito del baseball, mi rifiuto abbastanza di credere che una partita sportiva per iscritto non renda. Pur non essendo un’appassionata di sport, mi rendo conto a livello istintivo che, sulla carta e sotto la penna giusta, una partita può avere la stessa carica drammatica di una battaglia. E che Yagudin e Plushenko, col mondo che li circonda, gli allenamenti durissimi, la pressione delle gare, i problemi di alcool (Yagudin) e di salute (entrambi), sono due personaggi perfetti.hippodrome

Persino il linguaggio, dicevamo, esiste già. E allora? Se un libro pieno di battaglie all’arma bianca, ciascuna protratta per molte pagine e descritta nei minimi dettagli, è considerato commestibile e appetibile per il pubblico (e di fatto è letto in sufficiente abbondanza), perché lo stesso non vale per un libro pieno di partite? Perché, considerato l’enorme appeal popolare dell’argomento nessuno scrive romanzi incentrati sullo sport?

Chi segue lo sport non legge libri? Non è un luogo comune, questo? E, quand’anche fosse vero, non potrebbe magari il tifoso-non-leggente medio leggere un po’ di più se trovasse romanzi di stile accessibile e di buona qualità letteraria su un argomento che già lo appassiona?

Giro la domanda…

 

Mar 23, 2016 - grillopensante    1 Comment

Che Cosa Stiamo Facendo

FlamevSuccedono cose terribili.

Succedono ancora e ancora, e – semmai fosse rimasto qualche dubbio – è sempre più chiaro che continueranno a succedere.

Certi giorni non è facile sedersi e scrivere di storia, di libri, di teatro… Certi giorni viene da chiederselo: che cosa stiamo facendo?

C’è qualche conforto in risposte come questa di Charles De Lint, citato su Karavansara, secondo cui quel che facciamo nello scrivere storie è accendere piccole luci nell’oscurità.

L’immagine mi piace. E aggiungo che quel che si spera sempre è che le fiammelle accese inducano qualcuno a pensare. Non a pensare qualcosa in particolare – il lettore può condividere oppure no, ma non è questo il punto. Si spera che qualcuno ogni tanto, dopo avere letto, si faccia qualche domanda, porti a casa un dubbio nuovo, vada a cercare notizie di un autore o di un personaggio, legga un libro mai sentito nominare prima, si trovi d’accordo o non lo sia per nulla, discuta, si arrabbi, contesti, accenda altre fiammelle…  Si spera di far pensare e di pensare. Anche in mezzo alle cose terribili.

È questo. È questo che stiamo facendo. O che almeno cerchiamo di fare, scrivendo, parlando, facendo teatro. Raccontando storie.

Quello Che Vedevano

Osserviamo il mondo e ci domandiamo se stiamo vedendo quello che vedevano i nostri antenati nel passato irraggiungibile. Se i colori siano ancora gli stessi. Se qualcosa, a parte gli alberi, le nuvole e il mare, abbia esattamente lo stesso aspetto di un tempo. Se nulla sia rimasto uguale a com’era un tempo.

CummingE questa era Laura Cumming, in The Vanishing Man – meraviglioso, meraviglioso libro su Velàzquez e su John Snare, il libraio inglese cui, a metà Ottocento, un ritratto del pittore spagnolo scardinò la vita. Lo ripeto un’altra volta: è un libro meraviglioso, splendidamente scritto e pieno di idee e di pezzetti luccicanti come quello qui sopra. Osserviamo il mondo e ci domandiamo…

Non ditemi che non vi è mai capitato. Un paesaggio, un edificio, una stanza, una strada… Con i quadri va relativamente bene. Se sono ben conservati, se sono ancora là dov’erano o se abbiamo un’idea di come fossero esposti, non è difficile guardarli e pensare che li stiamo guardando – vedendo – allo stesso modo. I Caravaggio in San Luigi dei Francesi, per esempio. Sì, d’accordo, noi possiamo accendere la luce con una monetina – ma otherwise siamo come gli osservatori nei secoli passati. Per i paesaggi ci vuole più fortuna e forse più immaginazione. Ho ricordi di una sera a Cortona, e di un albergo la cui terrazza dava sulla valle del Trasimeno. E al tramonto, quando la luce d’oro e un nonnulla di foschia confondevano a sufficienza  i segni e il rumore del XXI secolo, ci si poteva azzardare a pensare che Annibale non avesse visto nulla di troppo diverso. Gli edifici… Confesso che in fatto di edifici l’esercizio mi mette una certa dose di angoscia. Immaginate di essere un antico Romano, di ritrovarvi per un meccanismo qualsiasi nel 2016 – e di vedere quel che resta dei Fori a Roma, di Aquileia, dei templi colossali di Baalbek… Immaginate la desolazione e l’angoscia di non trovare altro che rovine. E dovevano sembrare eterni, i templi. Fatti per resistere intatti ai millenni, per ripetere all’infinito “qui è passata Roma”.

Quindi guardiamo il mondo, ci domandiamo se stiamo vedendo quello che vedevano i nostri antenati – e per lo più la risposta è no. E specularmente ci viene da domandarci che ne sarà, tra un millennio o due – o anche solo tra qualche secolo – di quel che adesso ci Baalbeksembra inscalfibile e definitivo. Dà un certo qual senso d’impermanenza, vero?

E però ci sono le parole.

Le parole ci permettono di sapere che per Omero il mare era color del vino, e che i cani riconoscevano i padroni dopo tanto tempo… E così quando vediamo il mare scurirsi, quando vediamo un cane svegliarsi di botto perché il padrone è in fondo alla strada – ecco, allora sì che stiamo vedendo quel che i nostri antenati vedevano. E d’accordo – non è come se le parole non si sgretolassero, non cambiassero colore, non andassero perdute – ed è sempre possibile che siamo noi a non vedere più con gli stessi occhi. A non guardare. A non capire. Ma le parole, quelle che sopravvivono, offrono sempre una finestra – o quanto meno un ponte attraverso i secoli e i millenni. Poesia, miti, narrativa, trattati, lettere, teatro, memorie, saggi, preghiere, tutto quel che è scritto, tutto quel che sopravvive ci restituisce i paesaggi, gli edifici, i quadri, i posti, le persone… Qualche volta ci lascia vedere quel che era nell’irraggiungibile passato, e qualche volta ce ne fa riconoscere il colore nel mondo che osserviamo.

 

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