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Parli Del Diavolo…

Vi ricordate le Serate in Giardino di Casa Andreasi?

Bene, mercoledì scorso Giovanni Pasetti ha aperto le danze con Shakespeare e Marlowe, gemelli diversi – da Faust ad Amleto. Tecnicamente, se vogliamo, non è stata proprio una serata in giardino: c’era un’umidità da nuotarci, e così le signore di Casa Andreasi hanno saggiamente deciso di spostarci tutti nella bellissima sala conferenze… e confesso secondi fini nel dirvelo, casomai, in occasione dei prossimi appuntamenti, foste tentati di lasciarvi scoraggiare dal tempo.

Hamlet-and-the-ghostOra, mercoledì la conferenza è stata gradevolissima e, tra molte altre cose, ha toccato un confronto molto interessante tra le due opere nel titolo – e di conseguenza i rispettivi autori. A partire da diavoli e fantasmi che – ne abbiamo già parlato – per gli Elisabettiani non erano necessariamente due cose diverse.  Ciò che, come ci ha fatto notare il professor Pasetti l’altra sera, consente di far confronti tra l’esperienza di Faust con Mefistofele e quella di Amleto con il Fantasma.

In realtà io trovo che di parallelismo non si possa parlare, se consideriamo che Faust il diavolo va a cercarselo con ogni pervicacia, mentre Amleto l’ectoplasma se lo ritrova tra capo e collo suo malgrado – e non è un ectoplasma qualsiasi, ma uno che sostiene di essere il suo defunto genitore… ma questo non impedisce di osservare la diversità di atteggiamento.

Di fronte al diavolo, l’uomo di Marlowe vuole discutere di teologia (e il diavolo è ben felice di accontentarlo), mentre l’uomo di Shakespeare… Be’, gli uomini di Shakepeare in realtà sono diversi, e incarnano tutti i dubbi Elisabettiani in proposito: Bernardo e Marcello hanno paura, Orazio reagisce con protestantissimo disprezzo mentre Amleto, essendo Amleto, dubita. Dubita se quello che ha di fronte sia un diavolo protestante o un fantasma cattolico. Dubita se dandogli retta ci sia da finire abbrustoliti. E continua a dubitare per un pezzo, e passa un sacco di tempo a cercare conferme di altra natura – ragioni di vendetta che non abbiano troppo a che fare con la terrificante apparizione.

Di fronte al diavolo, Faust chiede Come? Amleto chiede Che cosa?

Faust vuole sapere. Amleto, cui la conoscenza viene sbattuta in faccia, era più tranquillo quando ignorava. mephisto_erscheint_faust

Faust, che il diavolo se l’è cercato per fargli delle domande – e al diavolo le conseguenze – incarna il lato indagatore del Rinascimento. È tutti i matematici, gli esploratori, i pensatori, gli sperimentatori, gli scienziati, i filosofi…  Amleto incarna l’umano tremar di ginocchia davanti a un mondo che sussulta e cambia, la vertigine di fronte agli squarci in quel che si era sempre creduto.

Faust è un cercatore insaziabile, un Ulisse cinquecentesco, un avventuriero della mente. Amleto è, molto più semplicemente, un uomo pieno di dubbi.

Entrambi pagheranno un prezzo molto alto per avere dato retta al diavolo – e, di nuovo, lo studioso di Marlowe paga un prezzo teologico, mentre il principe di Shakespeare paga un prezzo umano.

E d’altra parte, Faust è l’opera di un giovane alquanto tranchant, con più fuoco e teoria che compassione per l’essere umano medio, mentre Amleto è l’opera di un uomo maturo e disilluso…

Due facce della stessa medaglia, a ben vedere – e in una quantità di modi, ad enesima riprova di come quel che si chiama lo Spirito dei Tempi non sia mai una cosa sola. Mai un uomo solo. Mai uno spirito solo.

 

Gente Nei Guai II – Bilancio

GnGIeri sera ho terminato Gente Nei Guai II, il mio corso avanzato di scrittura narrativa.

Ottima esperienza e ottimo gruppo: una decina di aspiranti scrittrici piene di entusiasmo, sempre pronte a sperimentare, con un’infinita capacità di fare domande stimolanti. Mi mancheranno.

Abbiamo fatto parecchie cose, in queste settimane – alcune piuttosto sofisticate – e abbiamo discusso molto di scrittura, di libri, di narrazione, di tecnica, di bizzarrie… È stato piacevole, molto stimolante e anche istruttivo.

Istruttivo per me, intendo. Be’, anche per loro, mi auguro, ma è stato un passo interessante nella mia esperienza d’insegnamento. Gente Nei Guai, dopo tutto, è un progetto in fieri, che cresce su se stesso. Dapprincipio è stato l’occasione per sistematizzare e organizzare i miei rimuginamenti in fatto di scrittura, poi un po’ per volta ho sviluppato un metodo, scoprendo by trial and error che insegnare scrittura non somiglia granché a dare lezioni private d’Inglese…

No, sul serio.

GnG non è mai stato uguale due volte – un po’ perché è un corso duttile ed esiste in diverse versioni, dalle 6 alle 10 lezioni, un po’ perché molto dipende dal gruppo che ci si trova davanti, un po’ perché ripetere la stessa cosa senza variazioni può essere rassicurante, ma diventa rapidamente piuttosto noioso, e un po’ perché di volta in volta faccio delle scoperte. Scoperte in fatto di metodo, principalmente, e di esercizi che funzionano, e di cose che non sono ovvie o interessanti allo stesso modo per tutti.

Scoperte di questa volta? Vediamo un po’…

1) Questa in realtà non è una scoperta recente, ma mi convinco viepiù della sua importanza: gruppi piccoli, per favore. Otto o dieci persone sono l’ideale, dodici ci stanno ancora, quindici sono troppe, più di quindici assolutamente ingestibili. E sì, a volte arriva la richiesta: uno di più, due di più, per favore, è un peccato mandarli via… E allora si accetta. L’ho fatto una volta e me ne sono pentita amaramente: non si crea l’atmosfera giusta, non si riesce a interagire con i singoli… non va bene.

2) Un workshop mirato durante la prima lezione. Freewriting a tempo, con e senza musica, per esempio. Oppure la costruzione collaborativa di una trama in tre atti. Qualcosa che possano mettere in pratica subito, e discuterne i risultati. Rompe il ghiaccio alla meraviglia, migliora l’atmosfera generale, supera in un balzo unico la fase guardinga e spiana la strada per futuri workshop, senza che nessuno si vergogni a leggere ad alta voce ciò che ha scritto.

3) Spazio per la discussione. Non sto parlando di incoraggiare le domande – ça va sans dire: le domande sono il sugo di questo genere di corso. Poi ci sono gruppi che ne hanno di più e gruppi che ne hanno di meno, ma questo è fisiologico. Quello che intendo è la discussione di aspetti meno pratici del processo di scrittura. Perché si scrive quel che si scrive? Perché si preferisce il lieto fine oppure no? Che genere di storie si vogliono raccontare? Che cosa si cerca nelle storie? Qualche genere di consapevolezza nello scrivere non è una brutta cosa – e l’argomento forse è più adatto a un corso avanzato, ma ho costatato che incontra interesse.

4) Attorno a un tavolo, grazie. La scoperta dell’acqua calda? Maybe, ma negli anni mi è capitato un po’ di tutto: dal ferro di cavallo al tavolone quadrato, alle sedie in cerchio fino alla platea… E invece, l’ideale sembra essere un tavolo non troppo grande quanto basta perché tutti possano sedersi e appoggiarsi comodamente per scrivere, e guardarsi in faccia e parlare senza dover strillare. Motivo di più per mantenere il gruppo entro dimensioni limitate.

5) “Ma è difficile!” Me lo sono sentito ripetere diverse volte. Ebbene sì, è vero: è difficile e nessuno dice il contrario. Richiede pazienza, lavoro, discplina, rigore, infiniti tentativi ed esperimenti, e la consapevolezza che non si finisce mai d’imparare. Ma se non fosse così, ne varrebbe davvero la pena? Come dice McNair Wilson, Certo che è difficile – deve essere difficile! È arte.

Ecco. Per ora basta. Gente nei Guai torna in autunno, a Porto Mantovano, probabilmente sia nella versione base che in quella avanzata.

Gruppi nuovi, gruppi che ritornano. Sarà interessante. Non vedo l’ora.

 

Feb 10, 2014 - grillopensante, Vitarelle e Rotelle    Commenti disabilitati su Scrivi Ciò Che Conosci?

Scrivi Ciò Che Conosci?

E un po’ è colpa di questo post su strategie evolutive…

E sì, una volta o l’altra parleremo anche d’ispirazione – ma oggi, abbiate pazienza, vorrei scoprire brevemente l’acqua calda. Dopo tutto è lunedì, bear with me.

Perché Scrivi Ciò Che Conosci lo troverete in tutte maiuscole con assillante frequenza più o meno ovunque si parli di scrittura – e non so voi, ma a me è sempre venuto da chiedermi se sia davvero una buona idea. Perché francamente, se posso/devo scrivere soltanto di ciò che conosco, mi troverò più o meno chiusa da qualche parte. Mi precluderò un sacco di interessanti possibilità da esplorare. Dovrò rinunciare in via di principio a scrivere di tutto quello di cui non ho avuto esperienza personale, tutto quello che non conosco già.

Ecco, a mio timido avviso, è proprio qui il punto, proprio qui il fraintendimento. E non so se questo sembrerà terribilmente eterodosso o terribilmente banale, ma dubito che chiunque abbia formulato la prescrizione avesse in mente proprio di relegare ogni singolo scrittore ai campi che conosce già.

Per quanto si scriva “Scrivi Ciò Che Conosci”, niente mi leverà dalla testa che si debba leggere all’altra maniera: Conosci Ciò Che Scrivi.

Fa’ i compiti. Studia. Documentati. Capisci quel che c’è in ballo. Prendi ragionevolmente sul serio quello di cui scrivi e i lettori che lo leggeranno.

Almeno quanto basta ai fini della storia. Conosci – e poi scrivi.

Per cui, no: non è una preclusione, è un invito ad esplorare e a fare sul serio – e in questa luce mi piace molto di più.

Ecco. Vi avevo detto che sarebbe stato breve e che avrei scoperto l’acqua calda, giusto?

Gen 20, 2014 - grillopensante, Vita da Editor    Commenti disabilitati su Piccolo Manuale Di Conversazione Italiano-Aspirantese

Piccolo Manuale Di Conversazione Italiano-Aspirantese

Perché, per esempio, “Scrivo per me stesso/a” non significa affatto che chi lo dice scriva per se stesso/a… oh, no.

Sciaguratamente spesso, quando viene rivolta a un editor, la frase si traduce con “Queste sono le spontanee effusioni del mio cuore, e come tali non sono criticabili per il sovrano disprezzo di tutti i principi della buona scrittura.” E nei casi più truci, tende a significare altresì, “Tu, o editor, sistemami gli errori di battitura e, semmai – ma senza farlo pesare troppo – la sintassi. Ogni altro suggerimento, osservazione, intervento, sarà ascritto alla tua insensibilità e crassa mentalità commerciale.” Perché loro scrivono, you know, per se stessi…

Noterete come il dubbio che rivolgersi a un editor non sia precisamente il più inequivocabile sintomo dello SPSS abbia l’aria di non sfiorarli affatto. E non vale nemmeno la pena di farglielo notare. Lasciateli fare e, non oltre il secondo contatto, arriverà qualche forma della domanda classica: se credete che… no, per dire, ma insomma, senza ambizioni – per carità! – ma se credete che sia pubblicabile.

E allora a voi verrà in mente Cecily Cardew con il suo diario, e citerete a mezza voce “Sono soltanto i pensieri e le impressioni di una fanciulla – e, come tali, sono destinati alla pubblicazione.”

E l’Aspirante leverà le sopracciglia e, se sarete irritati o divertiti a sufficienza, ripeterete la citazione e… l’Aspirante non avrà idea.

“Cecily Cardew,” direte voi.

“L’Importanza di Chiamarsi Ernesto.”

“Ah…”

“Oscar Wilde.”

“Ah sì, Dorian Gray…”

E allora voi, colti da dubbio, inizierete a sondare le abitudini di lettura dell’Aspirante, ottenendone in cambio una delle seguenti risposte:

a) Non leggo granché/ non mi piace molto leggere/ non ho mai avuto tempo per leggere, però mi piace scrivere.”

b) Ah sì, leggo (molto).

La prima significa proprio quel che sembra – e, se accettate il lavoro, tenderà a saltar fuori ogni volta che vi scapperà una citazione, un esempio o un riferimento letterario. In certuni casi potrebbe persino esserci una punta d’orgoglio, della varietà quel-che-ho-imparato-l’ho-imparato-dalla-vita-non-dai-libri.

La seconda risposta potrebbe significare molte cose – e conviene approfondire. Potreste scoprire che l’Aspirante legge davvero (molto), oppure che crede di leggere (molto) sulla forza di uno, due, tre libri l’anno. Potreste sentirvi sciorinare una lista di Libri del Momento degli ultimi due-dieci anni – con o senza particolare riferimento a quelli che implicano patenti di coscienza civile e/o buon cuore e/o correttezza politica. O potreste scoprire che l’Aspirante divora indiscriminatamente tutto quel che appartiene a un genere specifico (non necessarissimamente quello in cui scrive), ma non ha mai letto altro in vita sua…

E poi, e poi… No, questo non è un manuale esaustivo – né pretende di avere un valore universale. Più che altro potete considerarlo un segnale di pericolo potenziale. Perché magari l’Aspirantese somiglia all’Italiano, e magari in molti casi le cose stanno proprio così – ma state in guardia: non è detto che le parole dell’Aspirante significhino quel che hanno l’aria di voler significare.

Non è detto affatto.

 

 

 

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Cinque Pensieri Di Fine Corso

ja09_books_creative_writingIeri sera ho terminato una versione in sei lezioni di Gente Nei Guai a Porto Mantovano.

Mi è spiaciuto congedarmi dai miei quattordici studenti – un gruppo vivace, simpatico e motivato – ma c’è di buono che probabilmente proseguiremo a primavera con un corso avanzato. E sarà interessante, perché – ripeto –  si tratta di un ottimo gruppo.

Dopodiché, ogni corso è, per forza di cose, una faccenda a sé – ma  ho costatato una volta di più alcune costanti, di cui vi metto a parte.

I. Fino a quindici partecipanti va tutto bene. Di più e, anziché un gruppo, vi ritrovate una classe – il che può andare ragionevolmente bene finché parlate voi, ma non funziona granché per la discussione e  gli esercizi pratici. Può essere un problema, perché a volte gli organizzatori hanno tante richieste, e supplicano di accettarne ancora uno, e ancora uno, e per favore un altro… Ma vale la pena di esercitare fermezza: il corso ne guadagnerà.

II. Non c’è nulla da fare: l’impatto con la tecnica sconcerta sempre, almeno un pochino. C’è chi è curioso, c’è chi si sorprende nello scoprire l’esistenza di tecnica&teoria in un campo in cui non se li aspettava, c’è lo scettico blu, certo (in gradi variabili) che la Scrittura, in quanto Arte e Ispirazione, non possa sottostare a regole… Ad ogni modo, l’impatto è quasi sempre quello del millepiedi di Kipling. Questa volta, l’ho detto, avevo un ottimo gruppo di gente che partiva già bene e gente che ha fatto progressi drastici nel corso delle sei settimane, ma è sempre di soddisfazione veder sperimentare le tecniche, di settimana in settimana, e raccogliere un certo numero di “Ehi, funziona!”

III. La mortalità è inevitabile. A parte i malanni di stagione e gli imprevisti, qualcuno si perde sempre per strada – e su un gruppo limitato le sedie vuote si vedono molto. Le prime volte andavo in crisi – col tempo ho imparato che non è possibile accontentare tutti. Ci sarà sempre qualcuno che dopo tutto si annoia, o che decide che la tecnica non è la sua tazza di tè, o che non apprezza le vostre teorie… Di nuovo, questo gruppo sembrava intenzionato a farmi felice, e la scarsissima mortalità (al netto dell’influenza e degl’impegni di lavoro) si è manifestata solo all’ultima lezione. Però capita – e bisogna tenerne conto. Una cosa che si può fare è interrogare i superstiti attorno a metà corso – sentire impressioni, mugugni e desiderata. Non per questo si cambia la natura del corso, ma è sempre possibile correggere il tiro.

IV. I compiti a casa sono di quelle cose. Prima di tutto, evviva la posta elettronica, che semplifica indicibilmente la vita. In genere se ne preoccupa un numero limitato di partecipanti. Il resto si divide tra quelli che fanno gli esercizi ma non ve li mandano per un motivo o per l’altro, e quelli che proprio non ci provano nemmeno. Tra i diligenti, poi, ci sono inevitabilmente quelli che fraintendono l’esercizio. Per quanto crediate di esservi espressi chiaramente, rassegnatevi: succederà. Un po’ – specialmente all’inizio – perché non sono abituati a pensare alla scrittura nei termini tecnici che voi intendete. Un po’ perché qualcuno è talmente ansioso di impressionarvi con il racconto/romanzo/poema in pentametri trocaici che ha nel cassetto, che ve ne contrabbanderà  una fetta – qualche volta tout court, qualche volta fingendo che sia l’esercizio. Aggiungere “Non Speditemi Cose Che Avete Già Scritto – Svolgete L’Esercizio” può funzionare oppure no. Così come porre dei limiti, come un massimo di parole per esercizio, o un giorno entro cui spedirvi i lavori… Potete provarci – ma spesso vi ritroverete più che altro una fenomenologia dell’interpretazione elastica…

V. Alla fin fine, un sacco di buone domande, settimana dopo settimana, è quello che rende davvero felici. Non volete davvero una platea zitta e prigioniera – non siete a teatro. Quando cominciano a volerne sapere di più, a cercare approfondimenti, a chiedere titoli, a discutere sul serio, a trarre conclusioni (che non sono necessariamente le vostre), allora significa che il corso sta funzionando.

E lo ripeto un’ultima volta e poi chiudo: o Portesi, mi avete resa davvero felice sotto tutti gli aspetti – e con un’abbondanza di domande. Se tutto va bene, ci vediamo a primavera.

 

Ago 7, 2013 - grillopensante    6 Comments

Troppa Immaginazione

Il piccolo John Masefield, nell’Inghilterra del secondo Ottocento, era un ragazzino che cresceva felice e leggeva molto. Poi rimase orfano, e la sua tutrice, una zia che pareva uscita da un romanzo di Dickens, lo spedì sulla Conway, la nave scuola della Marina Mercantile, “per curarlo dalla mania dei libri”.

Perché il piccolo John aveva “troppa immaginazione.”

E a lui il mare piaceva anche, ma proprio non aveva il fisico per le durezze del servizio. Sarebbe potuta finir male. Invece John diventò sottufficiale, fece un primo viaggio transoceanico, rischiò di lasciarci le penne, la zia lo costrinse a imbarcarsi di nuovo e lui, dopo un altro viaggio complicato, disertò a New York.

Non è un corso d’azione che mi senta di raccomandare in via generale, ma John conservò la sua passione per i libri e il suo eccesso di immaginazione (due tratti che tendono ad andare di pari passo), si mise a scrivere e, col tempo, diventò poeta laureato d’Inghilterra.

A leggere la sua biografia, è chiaro che la Conway e i bassifondi di New York erano ambienti più congeniali e incoraggianti di quello famigliare…

Ora, che sarebbe successo se, say, gli istruttori navali avessero visto un potenziale sociopatico nel ragazzino sempre occupato a leggere e a inventare storie – e avessero deciso di salvarlo da se stesso?

Forse nulla – ed è probabile che una passione che sopravvive a un’orrida zia di quel calibro sia in grado di sopravvivere a tutto – o forse invece non avremmo mai avuto le Salt-Water Ballads, Dead Ned, e un’eclettica quantità di altri libri in una quantità di generi, in prosa e in poesia…

Ma  se, anziché sul cadetto quindicenne, qualcuno avesse deciso di praticare lo stesso genere di salvataggio sul piccolo John quando aveva tre o quattro anni?

E ve lo chiedo – e me lo chiedo – perché l’argomento è riemerso in modo vario ed allarmante nei commenti a questo post.

Ma andiamo con ordine. Forse ve l’avevo raccontato o forse no, ma il fatto è che qualche mese fa le maestre hanno bandito dall’asilo il compagno immaginario del mio figlioccio di nemmeno quattro anni. La scusa è stata un piccolo incidente con un altro bambino, ma pare che le maestre non aspettassero altro, a giudicare dal tono di trionfo con cui hanno annunciato alla madre perplessa che il distacco da Otto il Leprotto era un passo fondamentale nella crescita del pargoletto.

La madre perplessa ha sconcertato queste zelote della realtà precoce obiettando che Otto è parte della famiglia – ma d’altra parte anche lei è cresciuta sentendosi dire che aveva troppa immaginazione…

Come me, del resto. Ho ricordi infelicissimi di un asilo in cui saper leggere era un’anomalia da punire, e i giochi d’immaginazione un’attività illecita al pari della menzogna… però stiamo parlando di trentacinque anni orsono, e mi azzardavo a sperare che le cose fossero cambiate.

Devo ammettere che le ricerche sui compagni immaginari che avevo fatto in vista di Bibi e il Re degli Elefanti non erano state spaventosamente incoraggianti – rivelando come avevano rivelato l’esistenza di orde di mammine angosciate dagli amici immaginari e, a monte di questo, di un diffuso atteggiamento pedagogico ostilissimo.

Poi però, dopo avere raccontato la storia di Otto il Leprotto nel presentare la prima di Bibi ad aprile, una maestra mi aveva avvicinata per dirsi indignata davanti a tanta chiusura mentale – ed ero tornata a sperare.

Poi però ancora, nei commenti al post di cui parlavamo prima, Cily raccontava delle maestre d’asilo che vogliono mandare dallo psicologo la sua bambina che ha, you guess it, “troppa immaginazione.”

E quindi non si trattava di un caso isolato…

E allora vengono in mente tante altre cose, come il bambino che non vuole animali di peluche in regalo perché “non fanno niente e sono noiosi”, e gli adulti che non leggono, e gli studenti di ogni ordine e grado che non sanno astrarre, e il Dizionario dei Luoghi Immaginari che, come dice Davide Mana, in Italia è un quarto di quanto sia altrove, e la generale snobbishness  nei confronti della narrativa d’immaginazione, e le anziane signore che guardano la De Filippi perché “sono fatti veri”, e i giovani (e meno giovani) scrittori che sfornano soltanto storie autobiografiche ai limiti dell’asfittico* o fantasy che saccheggiano modelli culturali altrui, e i lettori che chiedono all’autore quanto ci sia del suo vissuto, e le fascette con la scritta “Da una Storia Vera”…

E tutto ciò è molto triste, ma non può meravigliare poi tanto in un posto in cui le maestre d’asilo vengono addestrate a predicare che l’immaginazione non è nemmeno un capriccio o un lusso, bensì una tendenza pericolosa da curare, reprimere o, potendosi, eliminare del tutto.

Ecco, c’è questa ossessione nei confronti della realtà. La realtà è migliore. La realtà è sana. La realtà è onesta. La realtà sì, che… E poco importa quanto spesso sia soltanto una pretesa di realtà: l’importante è rivendicarla, agganciarcisi come patelle a uno scoglio, esibirla.

Poi, si capisce, l’immaginazione è inutile, malsana e anche un po’ disonesta. Chi credi d’imbrogliare con le tue storie farlocche ambientate a Costantinopoli, o scrittore che non hai mai messo piede in Turchia? E, per contro, non venirmi poi a raccontare che non condividi gli orridi pregiudizi e il fanatismo religioso del tuo protagonista quattrocentesco! O che conosci la grammatica meglio del tuo scaricatore di porto impermeabile ai congiuntivi…

E vien da domandarselo: ma tutta questa gente ossessionata dalla realtà sarà passata per le mani dello psicologo all’asilo, per farsi asfaltare la capacità d’immaginare alcunché?

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* E, per limitata competenza, esito un nonnulla a pronunciarmi in materia – ma sbaglio nell’avere l’impressione che anche vaste fette del cinema italiano siano afflitte da una tendenza all’autobiografismo piccino picciò?

E Vedi Di Mentirmi Per Bene

Non è come se fosse la prima volta che ne parliamo, ma in questi giorni varie cose sono capitate a farmi rimuginare di nuovo sulla questione di arte & verità – che messa così suona terribilmente pretenziosa, ma abbiate pazienza mentre rimugino.

Varie cose, vi dicevo.

emilio salgari, odissea, carlotta sabatini, strategie evolutiveUna è stata una discussione con un attore che, in occasione di una rappresentazione all’aperto, voleva assolutamente scagliare davvero la freccia di Ulisse – you know, quella che passa attraverso gli anelli di dodici asce in fila. Ora, a parte l’atroce pericolosità di scagliare frecce in direzione casuale in un luogo affollato, a parte il fatto che l’attore in questione, pur appassionato d’arcieria, dubito sia capace di centrare una dozzina di anelli, il mio punto era un altro*: non c’era affatto bisogno della freccia. Il suo mestiere d’attore non è scagliare frecce vere, bensì far vedere al pubblico una freccia che non c’è.

Come ha detto G. La Regista in un momento d’ispirata esasperazione: “Quello che voglio da voi è solo verità nella finzione!”

Perché quello che succede sul palcoscenico è, signore e signori, finzione dipinta con colori di verità. Non è vero nemmeno per un momento – se non dentro il cerchio disegnato dal buon vecchio patto narrativo: raccontatemi una storia e, per il tempo che voi impiegate a farlo meglio che potete, tutti fingeremo che sia vero.

Ma l’efficacia e la bellezza della rappresentazione non hanno nulla a che vedere con quanto c’è di vero nell’interpretazione degli attori o di autobiografico nel testo.

Ci siamo fin qui?

O quanto meno dovremmo esserci – ma è un fatto che molti, troppi lettori** sono divorati dall’ansia di quel che c’è di vero in ciò che leggono e, specularmente di identificare l’autore con quel che scrive. emilio salgari, odissea, carlotta sabatini, strategie evolutive

Guardate Salgari che, per tutta la vita, ha millantato una captaincy di marina mercantile – mai conseguita, ma molto adatta all’autore di tante avventure marinare. “Navigò per sette anni… visitò quasi interamente tutti gli oceani,” recita la sua nota biografica nel catalogo dell’editore Cogliati per il 1898 – ed è tutto falso.

Questo rende per caso i romanzi di Salgari meno avventurosi o meno marinari? Ovviamente no, ma il grado e i viaggi fittizi, oltre ad appagare grandemente Salgari stesso, servivano al marketing editoriale, a sdoganare personaggio e libri. A tanti lettori, un Salgari terricolo sarebbe parso meno Salgari del supposto capitano di gran cabotaggio…

E per contro, leggete il guest post di Carlotta Sabatini su strategie evolutive, e le sue considerazioni amarognole su come sia facile essere etichettati in base a quello che si scrive – perché se si scrive narrativa erotica è chiaro che si è cattive ragazze, e se si scrivono romanzi storici è chiaro che si condividono i pregiudizi dei propri personaggi d’altri secoli. E quando voi provate a far notare che scrivere non consiste nell’aprirsi le coronarie e versarne il contenuto sulla pagina, di sicuro qualcuno inizierà a guardarvi con qualche grado di disapprovazione. Perché se è vero che non condividete le superstizioni medievali del vostro narratore in prima persona vissuto nel XIII secolo, allora dovete essere bugiardi. Avete mentito. Avete ingannato il lettore.  

E a questo proposito, badate anche… ok, badate a tutto il post, perché è interessante e istruttivo – ma badate in particolare all’elenco delle motivazioni per cui si scrive, soprattutto la voce n° 2:

perché proviamo piacere (fidatevi, sono un’esperta) nel mettere delle idee nella testa degli altri, e giocarci, giocare con loro, attraverso quelle idee

E a dire il vero, anche se non sappiamo di trovarci gusto, anche se non ci consideriamo consapevolmente dei manipolatori***, è quello che facciamo: usiamo mezzi tecnici al fine di produrre un effetto nel lettore. È, se ci pensate bene, l’essenza del nostro mestiere di narratori, perché potremmo limitarci a dire che il nostro protagonista va in battaglia e ne esce vivo per miracolo, ma per quello basta il sussidiario di terza elementare. Da narratori, quel che facciamo è descrivere la battaglia attraverso gli occhi del nostro protagonista – completa di colori, odori, rullar di tamburi, deflagrazioni, urla, schizzi di sangue e quant’altro. E per farlo usiamo tecniche descrittive per far immaginare la battaglia al lettore nel modo più vivido possibile.

Mezzi usati per ottenere un effetto.

Manipolazione.

emilio salgari, odissea, carlotta sabatini, strategie evolutiveNello stesso modo in cui un pittore manipola lo sguardo dell’osservatore con le linee, i colori e la prospettiva. Che diamine: l’occhio di cielo nella Camera Picta non è vero. Non c’è nessun putto arrampicato sulla balaustra, nessun cesto di verzura in bilico su un bastone… Vogliamo dire che Mantegna è un bugiardo manipolatore perché vuole che crediamo a una finestra circolare aperta sull’azzurro spazio e popolata di gente che guarda giù?

Però se uno scrittore dice questo genere di cose ad alta voce, si guadagna ulteriore disapprovazione – bugiardo e manipolatore…

Ma, chiedevo in un commento in coda al post di cui si diceva, se non si vogliono menzogne ben confezionate, se non si è disposti ad essere manipolati, se non si è pronti a farsi amabilmente condurre attorno, perché perché perché diavolo leggere narrativa, andare a teatro, andare al cinema?

Per passare il tempo, suggerisce sogghignando il padrone di casa – ed è una risposta legittima, seppure un nonnulla triste.

Ma mi vien da pensare che per passare il tempo siano ottimi anche il tennis, il piccolo punto, i francobolli e il ballo latinoamericano. O, se si è ansiosi di verità inadulterata, l’enciclopedia Treccani****…

A parte tutto il resto, non vi pare che ci sia qualcosa di sbagliato nel cercare affannosamente la verità nella narrativa che si fonda su un patto riassumibile in “E vedi di mentirmi per bene”? 

 

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* Col che non voglio dire che non fossi preoccupata della possibilità di un omicidio colposo in scena. Lo ero eccome – solo che, essendo tutte, ma proprio tutte le mie meschinissime competenze in fatto di arcieria derivate dall’uno o dall’altro romanzo, è stato subito chiaro che in materia non avevo un briciolo di standing.

** Lettori e theatre goers, ma per snellezza parleremo di lettori.

*** Personalmente ci trovo un gran gusto e mi considero una manipolatrice per mestiere – ma si sa che sono cinica…

**** Niente battute, grazie. Sono certa che anche la Treccani possa sbagliare all’occasione – ma lasciatemi la mia ingenua fiducia nel fatto che l’estensore medio e sano di mente non estenda lemmi deliberatamente menzogneri e manipolatori.

Apr 29, 2013 - grillopensante    5 Comments

Finali – Un’Altra Volta

Vi ricordate di questo post? Ci si parlava di lieto fine, e di come sia un passatempo cui non indulgo facilmente – perché in linea generale non mi ci riconosco.

Ebbene, in seguito è capitato che Davide Mana riprendesse l’argomento sul suo blog– no, non strategie evolutive, ma l’altro. Quello in Inglese, che si chiama Karavansara*.Se non ci avete mai fatto un salto, è il momento di provare: ne vale decisamente la pena.

Ma fatelo dopo, magari. Per il momento, il punto è che nel suo post su Karavansara, Davide approfondiva la questione del lieto fine e del finale aperto. Perché ogni storia è per forza di cose una sezione, un segmento, una carotatura di una storia più vasta, e si potrebbe dire che nessuna storia finisca mai davvero. Ma, dice Davide, in un certo senso ogni finale aperto è una sorta di lieto fine provvisorio. Le cose sono quel che sono, ma per il momento abbiamo salvato il mondo/rotto l’assedio/conquistato la città/salvato la principessa e va bene così. Domani è un altro giorno… er, no. Wrong story.

E poi neanche troppo sbagliata, a ben pensarci: il finale di Via col Vento è aperto. Un finale triste – per oggi. Dopodiché tutti sappiamo che razza di donna sia Rossella, e già la vediamo asciugarsi gli occhi, pizzicarsi le guance per apparire meno pallida e partire alla riconquista di Rhett Butler con la determinazione di un furetto. Per cui si potrebbe quasi dire che non esiste finale aperto veramente tragico. O finisce bene o, se finisce male, è comunque un male aperto a correzione.

Dopodiché, devo confessare di avere sempre qualche perplessità nei confronti dei finali aperti. È vero, lasciano spazio a sviluppi, ma non permettono quel senso di chiusura e di compimento che, da buona occidentale (in parte inconsapevolmente) tirata su ad Aristotele, mi piace trovare alla fine di una storia. Mi piace che i sipari si chiudano del tutto. Mi piace avere la certezza che ai miei personaggi non capiti nulla di veramente brutto – come mediocrità, demenza senile, disastri nucleari… E per definizione, ogni lieto fine è un finale aperto, per cui…

Ma sto divagando. Quel che volevo dire è che poi Davide ha sollevato la questione del perché. Non tanto del perché scrivere finali tragici, quanto del perché scrivere affatto con la prospettiva pressoché fissa** di un finale tragico. Diceva Davide (e spero che mi perdoni la traduzione):

Ma limitarsi a dire “la vita fa schifo e poi si muore”, e fermarsi lì suona vuoto – almeno per me.
Quel che resta fuori è che si può reagire, si può fare qualcosa prima di morire, e si può fare la differenza. Il singolo potrebbe persino fare la differenza semplicemente cercando di fare la differenza – il che è grandioso.
Se neghiamo tutto questo – se neghiamo all’individuo la possibilità di fare la differenza, di trovarci gusto e di farne trovare agli altri – perché disturbarsi a scrivere?

Già, perché?

Ecco, suppongo di essere una pessimista. Suppongo di avere maturato la convinzione che nessuno ottenga mai davvero quello che vuole. Che non vada a finire bene. Che ci sia sempre un prezzo dannatamente alto – e in genere diversissimo da quello che ci si aspettava – da pagare per qualsiasi cosa. Non è che i miei personaggi non si sforzino di fare la differenza. Ci provano come dannati, e ci trovano gusto – e il fatto che alla fine non funzioni non toglie nulla all’intensità dei loro sforzi. Anzi. Alcuni di loro sanno perfettamente di battersi per cause perdute, ma non per questo si siedono ad aspettare il compiersi del fato crudele. Quel che fanno conta in sé, nonostante le scarse probabilità di successo. E talvolta, per alcuni di loro, conta ancora di più proprio perché le possibilità di successo sono scarsine.

Quindi direi che mi disturbo a scrivere perché, pur essendo pessimista, sostengo fermamente che le scarse possibilità di successo non sono una ragione per smettere di reagire, fare qualcosa, fare la differenza, fare del proprio meglio – e trovarci gusto.

E – spero – farcene trovare ai lettori.

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Dopodiché, essendo gli scrittori quel che sono, questa faccenda è destinata ad avere uno sbocco teatrale, un’aggiunta a un play metashakespeariano (e, a voler vedere, anche metagautieriano) in cui si tratta di… be’, di lieto fine e di fine non così lieto…

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* Sì, con la maiuscola.

** Il che non è del tutto il mio caso. Ogni tanto scrivo anche qualcosa che finisce bene. Bibi, per esempio.

Apr 19, 2013 - anglomaniac, grillopensante    2 Comments

The T2C Project – Tempo Di Bilanci

E così mercoledì pomeriggio, dopo sei mesi di episodi settimanali, abbiamo archiviato Le Due Città alla UTE di Mantova.

E com’è andata? vi chiederete voi.

Mah, non straordinariamente bene, temo – ma parliamone.

Se vi ricordate, qualche dubbio sull’opportunità di scegliere proprio questo romanzo lo nutrivo. A quanto pare, non avevo tutti i torti.

Per cominciare, se contavo che, a titolo di motivazione per uscire di casa nel tardo pomeriggio, la curiosità nei confronti di un romanzo meno conosciuto potesse valere come il piacere di sentir rileggere qualcosa di già letto e arcinoto, mi sbagliavo di grosso.

All’inizio, a ottobre, le letture settimanali di T2C contavano un buon numero di partecipanti, che poi hanno cominciato a disperdersi e calare fino a ridursi a quattro o cinque prima di Natale. Un po’ mogi, avevamo deciso di “sospendere” tutto – il che era un modo carino per dire “abbandonare”. Era un pomeriggio piovoso (uno dei tanti, but more of that later), e noi cinque ci eravamo chiusi in biblioteca a celebrare un funeralino per il ciclo di letture. E quando siamo usciti in direzione aula magna per annunciare la sospensione, il primo della fila si è fermato di colpo. Io sono andata a sbattere contro di lui e, siccome Stelio è alto, non vedevo che cosa lo avesse bloccato sul posto.

“C’è gente,” mi ha detto.

E io ho ripetuto “c’è gente” alla persona che nel frattempo era venuta a sbattere contro di me, e via così, e quando siamo emersi tutti nell’aula magna abbiamo visto che “gente” significava una ventina di persone. Il che, in uno di quei semi-finali che solo nelle commedie americane, ha salvato le letture – ma il nostro pubblico non si è più allargato, e da gennaio in qua abbiamo letto per dodici, quindici o venti persone al massimo, a seconda delle giornate.

Vero è che abbiamo dovuto combattere con gli interessantissimi concerti dei Mercoledì del Conservatorio, e con il Club del Cinema, e con qualche conferenza, e poi con il tempo. Ah, il tempo. Voi non avete idea: ogni benedetto mercoledì pomeriggio, fino a un paio di settimane fa, il clima è peggiorato con micidiale puntualità giusto in tempo per scoraggiare qualsiasi zelo dickensiano. Non so se fosse lo spirito di Dickens, in un malguidato tentativo di fornire atmosfera, ma fatto sta ed è che abbiamo avuto nebbia fitta, pioggia, neve, nevischio, vento e gelo in ogni possibile combinazione. Dal punto di vista meteo, non ci siamo fatti mancare proprio nulla e, contando anche aprile, abbiamo avuto quattro mercoledì non troppo orribili su ventitre.

Ma a parte le circostanze esterne, c’è stato modo di interrogare un certo numero di transfughi, e le risposte alla domanda “Perché non vieni/e più?” sono state varie e istruttive:

– Perché il romanzo non mi piace.

– Perché mi piacerebbe anche, ma faccio fatica a seguire.

– Perché con tutti quei nomi stranieri non mi raccapezzo.

– Perché ho perso uno o più episodi e ritornando non riuscivo a riprendere il filo.

– Perché è una storia che non conosco.

Prima di scandalizzarvi, considerate che stiamo parlando dell’Università della Terza età, e quindi l’età media del pubblico non era precisamente adolescenziale.

E poi, come curatrice, ho fatto almeno due errori fondamentali. Tre. Be’, due più uno.

In primo luogo, la traduzione 1911 di Silvio Spaventa Filippi non è quel che ci vuole per riconciliare un pubblico moderno con Dickens, che già di suo era soprannominato Mr. Popular Sentiment ai suoi tempi – figuratevi oggidì, e in una traduzione che calca sciaguratamente la mano su ogni tratto sentimentale di una scrittura già alquanto gonfia, raggiungendo qua e là vertici ai limiti del purpureo.* A mia discolpa posso soltanto dire che, all’apertura del progetto, non c’era granché d’altro a disposizione. Un’altra traduzione più moderna è uscita alla fine dell’anno, quando era già tardi per chiudere la stalla: i buoi non solo erano scappati, ma avevano avuto il tempo di installarsi in Conservatorio per non muoversene più.

In secondo luogo, se dovessi rifarlo, non impiegherei due mesi ad accorgermi che il concetto di “lettura integrale” non è poi scolpito nel marmo, e che qua e là si può – e anzi, si deve – sfrondare. Se dovessi rifarlo, capitozzerei energicamente il Libro Primo, per concentrarmi sul secondo e sul terzo, che sono molto più interessanti e densi.

E adesso mi chiedo se il terzo errore, probabilmente quello fatale, non sia stato proprio la scelta de Le Due Città. Perché io posso nutrire tutta la predilezione del creato per questo romanzo, ma devo ammettere che è così inglese in concezione, così poco conosciuto, così intricato (seppur relativamente lineare per essere Dickens)… È inutile: alle letture della UTE si va per ritrovare le vecchie letture scolastiche, non per scoprire qualcosa di nuovo. Se il dubbio c’era – e c’era – adesso ne abbiamo avuto conferma. A ottobre sapevo bene di avere cambiato le regole del gioco, e mi domandavo: funzionerà?

La risposta, alas, sembra essere: non troppo.

dopodiché, devo dire che non dimeno l’avventura ha avuto la sua parte di soddisfazioni. I fedelissimi si sono appassionati davvero – così come i bravissimi lettori dell’Accademia Campogalliani, ed è stato bello vedere qualche scettico convertito a Dickens, qualche membro del pubblico occupato a fare proselitismo in famiglia, qualche signora con gli occhi lustri sul finale… E, bear with me, per due volte ho dovuto (con un certo batticuore) sostituire Francesca Campogalliani e cimentarmi nella lettura. Spero di non avere sfigurato troppo spaventosamente, ma di certo mi sono divertita un sacco a leggere Madame Defarge, Miss Pross e la Cucitrice – per non parlare del finale ad effetto.

Dopodiché mi piacerebbe poter dire che è stato istruttivo, che la prossima volta farò di meglio, che adesso ho le idee molto più chiare… ma non so troppo bene se mai si ripresenterà l’occasione di leggere ad alta voce Le Due Città – con una traduzione migliore e dei tagli più smaliziati – ma, Dickens a parte, temo molto che la mia carriera di curatrice di letture alla UTE sia franata a valle.

 

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* E non è che non lo sapessi anche prima di iniziare, ma pensavo che, se erano sopravvissuti alla lettura del Cuore, dovevano essere vaccinati contro qualsiasi livello di saccarina…

Apr 15, 2013 - grillopensante, teatro    2 Comments

Non Solo Per Bambini

Con la prima che incombe, si discute se Bibi & il Re degli Elefanti sia per bambini oppure no.

E, se lo chiedete a me, sono tentata di dire di no. At the very least, non è solo per bambini. 

bibi e il re degli elefanti, accademia teatrale campogalliani, teatrino d'arcoÈ vero, ci sono gli elefanti parlanti, e le pulzelle, e gente uscita dai libri – ma sotto il linguaggio, il tono e i colori della favola, Bibi è costruita attorno a una serie di domande dannatamente adulte. Da un lato, questioni di come si reagisce di fronte alla malattia, di come si convive con la paura, di cosa costituisce la forza dell’individuo. Dall’altro, il ruolo dell’immaginazione nella crescita. E in mezzo c’è l’idea che l’uno e l’altro siano legati in modo molto, molto stretto quando la malattia colpisce un bambino.

E c’è anche un omaggio ai compagni immaginari, che alle nostre latitudini sono a tutti gli effetti pratici una specie protetta… Ne avevamo già parlato, ricordate? Mi troverete sempre pronta a spezzare una lancia in favore dei compagni immaginari – e ce n’è bisogno, a giudicare dalla diffidenza che li circonda. È davvero così necessario affrettarsi a confinare l’immaginazione dei bambini? Qualche settimana fa le maestre hanno bandito dall’asilo il compagno immaginario del mio figlioccio di tre anni e mezzo… un’età davvero matura per acquisire un senso della realtà, don’t you think?

Ecco, in B&RdE si sostiene che l’immaginazione non è una fuga, ma una fonte di forza di fronte alla malattia.

Questioni adulte – raccontate in un modo abbastanza bifronte. 

Da un lato c’è la favola, con la piccola Bibi, il suo elefante e la Pulzella. Dall’altro c’è la storia della mamma di Bibi, terrorizzata e fragile davanti alla malattia di sua figlia, e anche davanti a quel mondo immaginario che Bibi si costruisce per difendersi da una sofferenza che non capisce.

Non so fino a che punto questo sia paradossale, ma l’aspetto più difficile da centrare è stato quello fiabesco. Scrivere per i bambini è stata una bizzarra esperienza sotto molti punti di vista. Avevo editato storie per bambini, e quindi me n’ero occupata non solo da lettrice, ma scriverne una ha richiesto una serie di affascinanti esercizi: bisogna ricordarsi molto bene della bambina che si era, e scrivere per lei senza dimenticarsi che sono passati decenni tra quella bambina e i piccoli lettori odierni. Bisogna ritrovare il senso di magia che si vedeva racchiuso nelle storie – non necessariamente nelle favole, ma nel fatto che pagine bianche e parole nere contenessero ogni possibile genere di personaggi, posti e vicende…

Mi conforta nell’idea di esserci riuscita almeno un po’ il parere di A., che ha cinque anni e, dopo avere visto B&RdE ha chiesto a sua madre se poteva avere anche lei Bogus come amico immaginario. Ma di solito, quando il sipario si chiude e le luci si accendono in sala, non ci sono solo i bambini con gli occhi sgranati. Ci sono anche gli adulti con gli occhi lucidi.

Perché nonostante sia una storia di bambini, e nonostante Bogus, la Pulzella e il Piccolo Lord, questa non è solo una storia per bambini.

 

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