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Feb 11, 2013 - grillopensante    4 Comments

Cavalli Di Un Altro Colore

Per varie ragioni , mi ritorna in mente un lavoro che ho fatto anni fa: una serie di traduzioni dall’Italiano all’Inglese per il progetto di un codice sinestetico condiviso. L’idea era di associare a una dozzina di colori altrettanti suoni, altrettanti odori e altrettanti simboli in braille, per costruire una specie di linguaggio che rendesse i colori accessibili ai ciechi dalla nascita. 

Parte dell’interesse della faccenda consisteva nell’esplorazione della quantità e varietà di significati che lo stesso colore può assumere presso diverse culture, ma la cosa più affascinante erano i diversi modi in cui si usano i colori nel linguaggio.

E di conseguenza nella scrittura.

Ci sono associazioni logiche, per lo più legate a fenomeni naturali, che restano un po’ le stesse a tutte le latitudini. Tutti, o quasi, associamo il verde alla rinascita e il nero al buio.

Poi ci sono associazioni di significato di tipo culturale: il rosso, colore “peccaminoso” in Occidente, diventa il colore della purezza in India (e mi domando se la cosa abbia a che fare con le virtù purificatrici del fuoco…); il giallo significa coraggio in Giappone e codardia nel mondo anglosassone; il bianco è il colore delle spose e degli angeli, ma in Oriente significa lutto e morte. E il nero, il nostro colore del lutto, in Cina è associato ai bambini maschi. È chiaro che ognuno di questi significati ha ragioni culturali e antropologiche, qualcuna antica come lil fuoco purificatore, altre recenti come i celebri sorci verdi.

E poi ci sono le associazioni del tutto personali. Per Federico Garcìa Lorca il tramonto ha anche il colore dello zucchero; quando da bambina studiavo pianoforte, mi sono formata la convinzione che l’accordo DO-MI-SOL fosse giallo oro; la nonna di una mia amica diceva che i colori della primavera sono il bianco e il nero, come il petto e il dorso delle rondini…

Il che significa che ci sono infiniti modi di usare il colore e i colori per iscritto. Una sfaccettatura in più nella cangianza infinita del linguaggio. Il mare di Omero era color del vino, nel Tamerlano di Marlowe non compaiono altri colori che bianco, rosso, nero e oro; per Dick Heldar, la felicità è vedere l’azzurro nel bianco della neve al chiaro di luna, per Rimbaud la lettera E era verde come il turbante dell’emiro che la illustrava sul suo abecedario di bambino, per Skrjabin il Fa è rosso, il Si azzurro e il La bemolle violetto…

Il che è affascinante, ma significa anche che ci sono ben pochi modi di sapere quali associazioni il nostro uso dei colori susciterà nel lettore.

Neppure quando scriviamo per lettori della nostra stessa cultura, della nostra stessa lingua, del nostro stesso condominio… Ciascuno, ma proprio ciascuno, ha la sua tavolozza.

Per questo, confesso ero un po’ più che perplessa a proposito del codice sinestetico universale: tutti, credo, annodiamo spontaneamente delle associazioni di questo genere, e per i motivi più disparati. La E di Rimbaud era bianca per motivi del tutto arbitrari e personali, e però era legittimamente bianca, così come la mia E, che è verde, e come il Mi azzurro di Skrjabin, e il mio Mi giallo oro…

Ljerka Ocic, questa fantastica organista croata che si occupa molto di didattica musicale, sostiene che le associazioni sinestetiche sono del tutto naturali e altrettanto personali: non tutti le effettuano spontaneamente, ma chi lo fa, associa in base a poche costanti culturali e molti fattori imprevedibili, come l’emiro di Rimbaud. Ma allora, mi domando: com’è possibile elaborare un codice sinestetico, senza che le sue associazioni siano legate all’esperienza di qualcuno e completamente arbitrarie per tutti gli altri?

Alla base del progetto c’era, se ben ricordo, l’idea che il nome associato al colore risultasse un’etichetta puramente arbitraria ed estranea per chi non aveva esperienza diretta dei colori – ma non posso fare a meno di pensare che l’associazione del verde al simbolo di una punta di freccia (in realtà una conifera stilizzata), o dell’azzurro al profumo dei fiori del tiglio non fosse meno estranea e meno arbitraria. Significava, alla fin fine, sostituire un linguaggio con un altro linguaggio…

Non so, e forse mi perdo qualche passaggio, perché sono la persona meno visiva del creato, e i colori li trovo quasi più facilmente nei suoni che in quel che vedo – ma here’s a question: è davvero possibile, è davvero utile, è davvero desiderabile codificare e uniformare le associazioni sinestetiche?

 

Iconoclastia Spicciola

Qualche giorno fa ho preso dell’iconoclasta.

Ammetterete che non capita tutti giorni – almeno non in questo secolo – che una persona (diciamo che si chiami B.) vi guardi con astio e vi dica: “Sai che cosa sei tu? Un’i-co-no-CLA-sta!”

E il motivo per cui B. mi ha dato dell’iconoclasta è che mi sono rifiutata di stracciarmi le vesti perché P.D. James ha scritto un seguito giallo di Orgoglio e Pregiudizio.

Ora, non ho letto Death comes to Pemberley, o quanto meno non ancora, ma avrei mezza intenzione di farlo – e l’intenzione è mezza soltanto perché le recensioni non sono terribilmente incoraggianti. In tutta probabilità un tentativo lo farò. Ehi, si tratta pur sempre di Aunt Jane e P.D. James: non può non valerne la pena, almeno un pochino.

Quanto al considerarlo un sacrilegio, mi dispiace, o B., ma proprio non mi ci so indurre. E nemmeno a considerare DCtP nient’altro che una bieca operazione commerciale volta a speculare sulla generale passione per Lizzie Bennet… A parte tutto, credo che P.D. James non abbia bisogno di speculare su alcunché: lei è, you know, P.D. James.

Ma non mi stupirei di scoprire parecchia gente che la pensa come B. e grida all’iconoclastia, al sacrilegio e alla speculazione. Parecchia gente italiana – e badate, non ne faccio una gran colpa né a B. né ad altri. Il fatto è che siamo stati allevati nell’immobile e acritica venerazione degli Autori di Capolavori, nei confronti e a proposito dei quali non è concesso muovere lobo cerebrale…

Abbiamo già parlato in passato del modo in cui questo atteggiamento scolastico scoraggi l’entusiasmo per la lettura più di qualunque altra cosa, vero? Perché a parte tutto, se di fronte al Capolavoro possiamo soltanto annuire, abbacinati dalla sua marmorea e inscalfibile perfezione, se è peccato mortale esercitare anche la minima briciola di spirito critico in proposito, è ovvio che finiremo con l’annoiarcene presto…

Ma di questo abbiamo già parlato più di una volta, e non è questo il punto. Il punto, per tornare a P.D. James, è che di questa qualità marmorea dei Capolavori fa parte la certezza che sia sacrilegio riprenderne in mano i personaggi e la storia e farne qualcosa di diverso. Omaggio, parodia, pastiche, seguito, rivisitazione… quel che volete. E più è diverso il qualcosa, più è grave il sacrilegio. 

Guardate invece Shakespeare. Guardate il modo in cui nel mondo anglosassone si tiene vivo l’autore-monumento per eccellenza.

Shakespeare si rivisita in laboratori teatrali per gli studenti con difficoltà di apprendimento – e mi dispiace davvero molto di avere smarrito il link all’articolo su questo bellissimo progetto, ma lo ritroverò.

Shakespeare si sceneggia in Kill Shakespeare, un fumetto alquanto dark, in cui otto o dieci personaggi sopravvivono alla morte in scena e decidono di vendicarsi del loro autore.

Shakespeare si inclina a quarantacinque gradi, tinge di violetto e trasforma in To Be Or Not To Be: That Is The Adventure, ovvero un Amleto in versione libro-game, in cui si sceglie il proprio personaggio e si attraversa la tragedia – anziché limitarsi a guardarla o leggerla.

Shakespeare si mette in parodia all’insegna del nonsense come fa la Reduced Shakespeare Company

E credete che Oltremanica e Oltretinozza per questo ci si straccino le vesti? Ma nemmeno per idea. O meglio, ovviamente c’è chi lo fa, ma a Londra trovare i biglietti per The Complete Works of William Shakespeare (Abridged) della RSC è più complicato di una cerca medievale, e l’Amleto in versione Scegli-La-Tua-Tragedia, una volta avviato su Kickstarter, raccoglie mezzo milione di dollari (più o meno trenta volte la cifra prevista in origine), e Kill Shakespeare induce critici e studiosi di cose elisabettiane a tirarsi oggetti pesanti a proposito della qualità dei dialoghi…

Capite? That is the question: se il linguaggio pseudo-shakespeariano del fumetto sia abbastanza buono, non se  Del Col e McCreery abbiano profanato in qualche modo la Sacralità del Bardo.

Ecco, è questo il punto. Il punto è che Shakespeare è materiale estremamente vivo nel mondo anglosassone. È vivo anche perché trattarlo come tale non è peccato mortale. È vivo anche perché ci si fanno cose buffe, cose irriverenti, cose originali. E d’altra parte, si continua a farci cose buffe, irriverenti e originali perché è vivo…

E intanto Dante e Manzoni se ne restano venerati e marmorei, studiati a scuola e segretamente detestati – e difesi a spada tratta con malguidato e soffocante zelo. Una ventina d’anni fa il Giornalino pubblicò le deliziose parodie dantesche di Marcello Toninelli, e ricordo alti lai non del tutto dissimili da quelli accordati in tempi recenti agli spot danteschi della TIM…

Il che significa che qualcosetta ogni tanto tenta di muoversi, ma non, non, non abbastanza. Ci vorrebbe altro che qualche isolata parodia per liberare dalla polvere e dalla venerazione i nostri autori-monumento – e tenerli vivi…

 

La Notte dei Desideri

Ende.jpgNon sono mai stata una patita dell’ultimo dell’anno. Non dico di non essermi mai divertita a qualche festa o cena, ma non è il tipo di ricorrenza che aspetti di festeggiare. Per capirci, non è Natale. Un passaggio di data non è particolarmente emozionante, non porta con sé nessun senso di attesa o di sospensione… D’accordo, ne ha portata un filo la notte del 31 dicembre 1999, perché ci domandavamo se tutti i computer del mondo avrebbero saputo inghiottire il Bruco del Millennio senza eccessivi patemi. Tolto quello, però, ho sempre pensato che l’ultimo dell’anno fosse una festa assolutamente priva di atmosfera. Per di più, ogni 31 dicembre ha il grave difetto di essere seguito da un gennaio, questa sorta di lunedì mattina cosmico… No, grazie: l’Ultimo dell’Anno è un’occasione per andare a teatro e vedere i fuochi d’artificio sul lago, nulla di più.

E però c’è stato un libro, a suo tempo, che mi ha fatta ricredere per il tempo di leggerlo: La Notte dei Desideri di Michael Ende.

Ora, se dovessi dire che mi ricordo la trama, o se dovessi spiegare in dettaglio composizione e funzioni dell’Archibugiardinfernalcolico Grog di Magog, sarei in seria difficoltà. Chiedo venia: devono essere passati un po’ più di vent’anni da quella prima e unica lettura, ma questo dice qualcosa sul fatto che mi ricordi ancora, se non i particolari della trama, l’atmosfera del libro. 

Potrei recuperare da qualche parte la trama, se volessi, ma non voglio: quel che m’interessa al momento è quella specie d’impronta che alcuni libri lasciano, un’impressione a volte più vivida persino della storia che raccontano. LNdD è un libro scuro: se ben ricordo, si svolge tutto nel corso di una notte, e ha un quadrante d’orologio in testa a ciascun capitolo, per significare il passaggio delle ore –  accorgimento semplice, ma sufficiente a creare un senso di sospensione e di urgenza che non ho scordato a distanza di due decenni. E poi ricordo un gatto che voleva essere un trovatore provenzale, e un corvo, e una coppia di stregoni, zia e nipote, e l’archibugiardinfernalcolico* intruglio di cui ho dimenticato la funzione, e una vecchia casa, e un giardino innevato, e San Silvestro alla fine… E buio, e ombre, e sussurri, e cigolare di porte, e rintocchi nella notte.

Ecco, questa è una delle cose che fanno gli scrittori. A volte si sforzano di raccontare storie che nessuno ha mai raccontato prima. Altre volte si accontentano di prendere qualcosa di vecchio come le colline** e lo raccontano in un altro modo, lo rivestono di un colore e un’atmosfera nuovi. Per quanto riguarda me, la faccenda ha funzionato: Herr Ende mi ha spinta, quando ero ragazzina, a considerare diversamente la notte dell’Ultimo dell’Anno, in un modo che, dopo più di vent’anni, non è ancora svanito del tutto.

Chiunque abbia mai scritto per essere letto sa di che cosa parlo: certo non è il solo motivo per cui si scrive, ma la capacità di creare o risvegliare qualcosa in una mente sconosciuta ed estranea con le nostre parole è un brivido potente. E’ qualcosa da augurare a chi traffica in parole e inchiostro. Qualcosa da desiderare con tutte le forze prima dell’ultimo rintocco di mezzanotte, questa sera.

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* Questa parola mi piace, si era capito? Nutro la massima ammirazione per chi crea parole, e questa è una parola notevole. Non ricordo molte cose di questo libro, ma ricordo che la parola era stata creata apposta, come parte di un incantesimo la cui potenza derivava in parte dalla quantità di parole diverse incastrate insieme. Il potere delle parole pronunciate e scritte… ah, che meraviglioso tema!

** Nello specifico: Protagonista Piccolo e Maldestro con Sogni da Realizzare VS Antagonista Malvagio e Potente Deciso a Conquistare il Mondo.

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Oh, e come mi si dice si dica in Trentino: Buon Termine a tutti!

Volevo Regalarti Un Libro, Ma…

natale, regali, libri, casetta di pan di zenzeroBuon Santo Stefano, cari Lettori. Passato bene il Natale?

Trovati libri sotto l’albero?

Io solo un paio: il cartaceo Musica Lontana di Emanuele Trevi, che m’incuriosisce molto, e il digitale A Plague Of Lies di Judith Rock, terzo volume di una serie di gialli storici che adoro, ambientati nella Parigi del Seicento.

Ebbene sì, soltanto due libri.

E sia chiaro: ho ricevuto regali splendidi – uno specchio di famiglia, un braccialetto di giada cinese, una penna con le mie iniziali incise, American Song Book di Mina e la più adorabile casetta di pan di zenzero che si possa immaginare – e due libri due, di cui uno su richiesta e l’altro pescato dalla mia wish list.

E pensandoci appena un po’, ho dovuto costatare che non sono del tutto sorpresa: la proporzione di libri tra i regali che ricevo è andata scendendo, e ormai sono lontani i tempi in cui un libro era la prima e logica risposta alla domanda “Che cosa regaliamo alla Clarina?” Sarei tentata di sentirmi orfanella&bistrattata, se non fosse per cose come i commenti a questo post, in cui cui vari avidi lettori si lamentavano di analoghe carestie librarie, il fatto che io stessa tendo a regalare pochi libri, e le numerose giustificazioni non richieste ricevute nel corso degli anni. natale, regali, libri, casetta di pan di zenzero

Giustificazioni che, dopo l’inizio che dà il titolo al post, si ramificano a ricadere più o meno sotto ZZ categorie:

I. …Hai letto tutto, tu. Come si fa a regalarti un libro?

II. …Hai dei gusti così imposs… er, singolari in fatto di letture che accontentarti sembra difficile.*

III. …Tu leggi sempre in Inglese…

IV. …I libri te li compri da sola in continuazione.

V. …Adesso che leggi in digitale, non so più come regalarti libri.

A parte i problemi di ordine tecnologico, riconosco che quando si considera il rapporto tra lettore e libro, così personale e unico, diventa difficile fare regali. Non si sa mai che reazione si innesca: ci si potrebbe trovare ad aver regalato un pomeriggio di fuga dalla realtà, l’equivalente di un matrimonio cattolico o un odio viscerale… è una grossa responsabilità, un rischio, uno scoprirsi, quasi un impegno. Si può voler essere molto sicuri, prima di lanciarsi. È molto più facile indagare preventivamente in maniera più o meno obliqua**, ricorrere alla wish list, oppure regalare qualcos’altro.

O forse mi sbaglio… Voi che ne dite? Che libri avete trovato sotto l’albero? Che libri avete regalato?

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* Talora corredato da: E lo so che hai una wish list, ma non so come usarla/volevo farti una sorpresa/l’idea non mi piace. Posso rassicurare gli scettici? In fondo, una wish list è solo la versione adulta della letterina per Santa Lucia.

** In my experience, la soluzione preferita dalle anziane parenti di sesso femminile.

Who Is Who

Se avete mai presentato un libro, odds are che qualcuno, quando il vostro relatore ha sollecitato le domande del pubblico, ve l’abbia chiesto: Quanto C’è Del Tuo Vissuto In Questo Libro? Maiuscole non casuali, perché questa, in questa forma o in qualche variazione, sembra essere La Domanda. Why, magari non c’è nemmeno bisogno che venga dalla platea, magari ve l’ha posta il relatore.

E voi, a dire il vero, vi siete mordicchiati il labbro inferiore e avete ingoiato un sospiro, e vi siete silenziosamente chiesti perché, perché, perché diavolo lo vogliono sapere. Che importa? Che cambia? È una storia, dammit, non possono apprezzarla senza sapere che è basata su un incidente della vostra infanzia, o su nulla in particolare?

Poi vi siete detti che, se non altro, siete in buona compagnia e avete risposto con la necessaria buona grazia.

Perché sì, siete in buona compagnia. In ottima compagnia, se ci pensate: tutte quelle prefazioni, quegli articoli, quei tomi in cui biografi, critici e psicanalisti si affannano a dissezionare Jane Eyre, Casa Desolata, Camera con Vista, Grandi Speranze, Circolo o La Musa Tragica o qualsiasi altro romanzo a caccia di elementi autobiografici… E magari vi è anche piaciuto scoprire che tutti i protagonisti maschili di Charlotte Brontë sono basati sul professore belga di cui si era innamorata infelicemente. Per cui, in fondo, chi siete voi per andare immuni dalla Domanda?

L’umanità, a quanto pare, non solo è insaziabile in fatto di storie, ma vuole anche sapere che cosa c’è di vero.

E voi in realtà continuate a domandarvelo: che diamine cambia, in realtà? Che importa, ai fini del romanzo, se Lord Jim sia basato su Rajah Brooke o su Stephen Crane – o su una combinazione di entrambi?

Sì, ok: Jim si costruisce a Patusan un regno de facto alla maniera di Sarawak – ma più ufficioso e più tragico – e l’affetto tra protettivo, amarognolo ed esasperato di Marlow nei confronti di Jim può rispecchiare il rapporto tra Conrad e il più giovane e tormentato Crane.

Ma poi, se cercate con sufficiente pazienza*, v’imbatterete in articoli che individuano the real life Jim in gente come Jim Lingard, altro rajah bianco non ufficiale, che vestiva sempre di bianco e i suoi indigeni chiamavano Tuan Jim. O in Augustine Williams, ufficiale mercantile di buona famiglia che si rovinò la carriera abbandonando un piroscafo carico di pellegrini – e il piroscafo non affondò affatto… E d’altra parte, basta una capatina su Wiki per scoprire che Conrad decise di voler andare per mare a sedici anni, fuori dal blu e sulla solida base dei romanzi d’avventura.

Tutto molto interessante – fino a quando il saggista/biografo/critico/psicanalista non comincia a insistere di avere trovato il vero Jim. E no, perbacco: Brooke può avere fornito Patusan, e senz’altro i guai di Williams sono serviti da base per l’incidente del Patna, in particolare all’inizio, quando Conrad intendeva farne solo un racconto breve, o al massimo una novella. Ed è difficile negare che Lingard, Crane e Conrad stesso entrino nella caratterizzazione di Jim, ma il fatto è che il vero Jim è quello del romanzo, quello di carta e inchiostro, quello che ha pensieri, reazioni, paure e debolezze così umane e reali eppure non invecchia mai.

C’è una pagina di una stesura precedente, in cui Marlow descrive Jim ritrovato a Patusan, un po’ appesantito, con qualche ruga attorno agli occhi, un po’ meno immacolato ed elegante…

Poi però, nella versione definitiva, Conrad ha cassato questo passaggio. Per noi lettori è necessario che, dopo anni di fughe, tormenti, fatica e clima tropicale, Jim sia ancora impossibilmente giovane come a pagina 1. È, se ci badate, l’Autore che ci dice come il vero Jim non sia una persona reale da cercare sull’Enciclopedia Britannica o negli annuari della Marina Mercantile, ma un personaggio letterario, una creazione artistica, un simbolo complesso e stilizzato al tempo stesso.

E non dovrebbe importare quanto c’è del Vissuto dell’Autore – salvo il fatto che il messaggio** diventa più chiaro e più rilevante quando andiamo a spulciare tra le stesure, alla luce dei dubbi e delle decisioni dell’autore stesso…

Perché alla fin fine, la storia funziona lo stesso, ed è amaramente bella lo stesso, ma si direbbe che sia nella nostra natura voler sapere, se non proprio che cosa c’è di vero, almeno che cosa c’è dietro.

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* A dire il vero, con sufficiente pazienza, troverete anche un’interpretazione freudiana secondo cui nel non-naufragio del Patna Conrad sta esorcizzando la morte precoce di sua madre… Per cui, sappiatelo, il Patna resta a galla non perché altrimenti la storia non funzionerebbe, ma perché il piccolo Konrad si era sentito tradito dalla sua mamma tisica, e vuole drammatizzare l’evento – ma con un finale diverso, catartico e consolatorio al tempo stesso. Yes, well.

** Non il Messaggio, scampi&liberi. Questo specifico messaggio.

Spettri, Diavoli E Magie

Vi ricordate di Elizabethan Metaphysicks, il video tratto da Magickal Realism di Alistair Gentry?

Se non ve ne ricordate, dategli un’occhiatina. Sono solo due minuti e tre quarti.

Fatto?

Bene.

Allora magari sotto il post in questione avete letto anche questo commento di S.:

Splendido! All’inizio però c’è un’immagine da un testo di geometria, con tanto di formule. Essendo io un matematico di professione, mi sento inquieto: devo considerarmi affine a spettri, diavoli e magie?

E io ho risposto che era una buona domanda, e che ne avremmo riparlato. E adesso ne riparliamo. E la risposta, o S. è che, se tu fossi stato un matematico alla fine del XVI Secolo, avresti potuto considerare i tuoi studi affini a spettri, diavoli e magie. Quanto meno a magie. E di certo un buon numero dei tuoi contemporanei e varie autorità religiose l’avrebbero pensata così – con possibili conseguenze in vari gradi di pericolosità.

Ma probabilmente lo avresti pensato anche tu.

Mi viene in mente, per prima cosa, Ian Mortimer, che in The Time Traveler’s Guide To Elizabethan England lo spiega molto bene:

Proprio l’idea che tutto sia possibile consente tanta apertura mentale nei confronti della sperimentazione. Si esplorano i fenomeni superstiziosi nella convinzione di investigare il mondo reale. Se non si fa distinzione tra verità scientifica e credenze superstizione, non è irrazionale investigare ogni fenomeno cose se potesse essere scientificamente vero.*

john dee,thomas harriot,christopher marlowe,ian mortimer,alistair gentryQuando il Doctor Faustus di Marlowe entra in scena passando in rassegna le branche della conoscenza alla ricerca di un campo su cui esercitare le sue notevoli qualità, elenca nell’ordine la filosofia, la medicina, il diritto, la teologia – e poi la magia. Vero, la magia non è disciplina universitaria, ed è decisamente più pericolosa delle altre, come non noteranno di fargli notare gli altri eruditi che metterà a parte delle sue intenzioni. Ma questa gente cauta non obbietta alla natura dei nuovi studi del Dottore, bensì alla loro pericolosità. Il problema non è che i contatti con il diavolo siano un’idea ridicola, bensì che siano una faccenda praticabile e pericolosissima. john dee,thomas harriot,christopher marlowe,ian mortimer,alistair gentry

Ma senza bisogno di cercare su un palcoscenico, John Dee è un matematico e astronomo di tutto rispetto, docente di algebra euclidea alla Sorbona a vent’anni, conteso dalle università del Continente – ma ciò non gl’impedisce una carriera parallela di (regio) astrologo e negromante, né decenni di sforzi per comunicare con gli angeli**.

Dopodiché ci sono piccoli problemi di sicurezza personale, come il fatto che fuori d’Inghilterra le pratiche magiche sono materia per l’Inquisizione, e in Inghilterra sono tradimento – ma d’altra parte, per semplificare, diciamo che entrambi i tipi di autorità diffidano abbondantemente di ogni tentativo di indagare oltre la versione della verità stabilita dalle Scritture.

Per dire, Galileo. O la lista di accuse di blasfemia redatta per Marlowe, che comprendeva, senza particolare distinzione di gravità, l’evocazione del diavolo nei boschi in quel di Cambridge e un tentativo di cronologia pre-biblica. E tra parentesi, la cronologia non era farina del sacco di Marlowe, ma del matematico Thomas Harriot.

Per cui, o S., credo che tu possa ritenerti un discendente ideale di questa gente che indagava la realtà cercando di sbirciare oltre le costrizioni religiose – qualche volta a rischio della reputazione e/o del collo. Il fatto che questa indagine talvolta sconfinasse in campi che adesso reputiamo eminentemente non-scientifici è dovuta alla diversa percezione di quel che è vero e possibile. 

Tutto considerato, è molto possibile che adesso non crediamo a spettri, diavoli e magie anche perché i tuoi precursori elisabettiani hanno cominciato a indagare in proposito con mentalità scientifica – mentre si occupavano di Euclide e di leggi della rifrazione.

Per cui direi che non hai ragione di sentirti inquieto.

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* Pag. 125, traduzione mia.

** Per mezzo di un medium che si rivelerà un grandioso truffatore, ma questo è un altro discorso.

Set 10, 2012 - Festivaletteratura, grillopensante, libri, libri e libri    Commenti disabilitati su Festivaletteratura 5 – Pierre Bayard

Festivaletteratura 5 – Pierre Bayard

festivaletteratura, pierre bayard, piero dorfles, danilo mainardiE per finire, Pierre Bayard.

L’uomo secondo cui per descrivere in profondità un posto occorre non esserci mai stati – come Chateaubriand, che rifiutava di visitare le rovine di Argos per non perdere la prospettiva. E specularmente Magris che, alla domanda “Che cosa si perde scrivendo?”* rispondeva, tra le altre cose, l’immediatezza. Perché per scrivere – e descrivere – serve la distanza. Serve il distacco. Serve la prospettiva, appunto.

Ma, soprattutto, Bayard è l’uomo dell’Interventismo Critico, pratiche di critica letteraria che manipolano i testi – pur senza modificarne una parola. Piuttosto si tratta di inclinarli a 45°, tingerli di violetto e giocarci una serie di what ifs paradossali, paradossalissimi.

La Critique Policière, per esempio, o “Critica d’Indagine” dalle nostre parti. Perché se nella realtà ci sono assassini che la fanno franca, che cosa impedisce che accada lo stesso in letteratura? E a badarci bene, siamo proprio sicuri che Edipo abbia ucciso Laio? O che il pur poco simpatico Re Claudio di Danimarca abbia ucciso suo fratello? O che Poirot e Holmes abbiano scoperto il vero colpevole ne L’Assassinio di Roger Ackroyd e Il Mastino dei Baskerville? Ecco, Bayard sostiene di no. Secondo lui in ciascuno di questi casi è possibile smontare il meccanismo e raggiungere una soluzione diversa da quella offerta dall’autore… Ma a che pro? Domanda Piero Dorfles – ottimo moderatore. Ebbene, dice Bayard, per scavare nelle complessità inattese di questi testi, e magari ristabilire la giustizia letteraria…

Ma d’altra parte, c’è ben altro che si può fare con un libro. E considerando che il titolo dell’incontro è “Il piacere di riscrivere i libri,” nessuno si stupisce più di tanto quando, in seconda battuta, Bayard proponte la Critica del Miglioramento. Chi non ha mai pensato che la Recherche proustiana o le opere di Lacan trarrebbero beneficio da qualche piccola potatura? Scherzi a parte, la ri-scrittura è una tradizione vecchia come le colline – vecchia come la narrativa stessa, e non c’è autore che non si sia riscritto, cambiando idea un sacco di volte, e generando testi fantasma ad ogni biforcazione – strade non percorse, come i futuri abortiti di Magris, oppure percorse e poi abbandonate. Personalmente, non posso fare a meno di pensare al Sigognac suicida che era nelle intenzioni di Gautier, oppure al Lord Jim di mezza età che emerge da un appunto scartato da Conrad…

Ma spingiamoci oltre, esorta Bayard. Proviamo, con la Critica della Riattribuzione, a supporre che l’Étranger sia opera di Kafka, anziché di Camus… E qui mi par di sentire rumor di punti interrogativi che s’infrangono contro i vostri schermi. A quanto pare, tutto nasce dall’amico serbo di Bayard, che vedeva nel libro in questione non una storia d’incomunicabilità, ma una contrapposizione individuo/sistema. Ed ecco che in quest’ottica, dovuta alle esperienze del lettore serbo, la storia si faceva kafkiana.

E per finire, se proprio vogliamo essere eccentrici, c’è anche la Critica Fantascientifica, secondo cui la letteratura non funziona linearmente in termini di spazio né di tempo. Secondo Bayard, è un fatto che molto scrittori hanno descritto in anticipo fatti futuri della loro vita – o morte, come è il caso di Pushkin, Lenskij e il duello. E su questo devo confessare qualche dubbio, perché un sacco di gente muore nelle opere di Pushkin, e quindi se fosse morto d’infarto si potrebbe dire che lo aveva prefigurato nella Dama di Picche, mentre se fosse morto folle o annegato se ne sarebbe potuto vedere il presagio letterario nel Cavaliere di Bronzo… Così come digerisco male il plagio in anticipo, secondo cui non sarebbe Freud a rileggere Sofocle, ma Sofocle ad anticipare Freud…

Ma non dimentichiamoci che tutto questo è un gioco d’ipotesi, e il plagio in anticipo è un’idea off-kilter che Bayard presta al narratore di Le demain est écrit, per porre delle domande e giungere ad affermare che nella percezione del lettore i testi s’influenzano a vicenda: dopo avere letto Freud, non guardiamo più a Sofocle con gli stessi occhi, e viceversa…

Così come non è davvero questione di leggere l’incendio di Atlanta e le paure di Rossella O’Hara alla luce di un’improbabile autorship tolstojana, quanto di riconoscere che lo stesso testo assume significati diversi a seconda dell’ottica in cui viene letto – e quindi perché non provare a ipotizzare un’ottica diversa?

Tutti i giochi e i paradossi di Bayard funzionano così: domande che, una volta poste, fluidificano la percezione del testo, spingono a considerarlo in modi nuovi e inattesi, e magari conducono a trovarci sfumature, complessità e ricchezze nuove.

***festivaletteratura, pierre bayard, piero dorfles, danilo mainardi

E io credevo a questo punto di avere finito, ma in realtà c’è stato ancora tempo e spazio per una visita alla bellissima mostra “Lettori” nell’atelier di Jori** e poi per la chiacchierata del Professor Mainardi – quello di Quark – che raccontava di essersi messo a scrivere gialletti etologici, divertendocisi un mondo e studiando per l’occasione le necessità della scrittura narrativa. “A un certo punto mi sono reso conto di avere scritto tre capitoli senza che ci fosse una singola riga di dialogo, e allora mi è venuto il dubbio: forse dovevo imparare la tecnica.” “Per il personaggio del giovane ricercatore mi sono ispirato a me stesso alla sua età, e d’altra parte ero la persona che conoscevo meglio. Ma la voce non funzionava, e allora mi sono fatto insegnare un po’ di turpiloquio contemporaneo dai miei studenti.”  “Il meccanismo della suspense, che è utilissimo anche quando si scrivono documentari, l’ho imparato da un saggio di Patricia Highsmith.” Simpatico, garbatamente brillante e pieno di self-deprecating humour, e ha concluso raccontando che si comincia a ipotizzare che le tigri possiedano un senso della proprietà – e un senso della vendetta. Molto kiplingiano, non vi pare?

Dopodiché una cena a suon di musica in Piazza Erbe ha concluso il mio Festivaletteratura 2012. Magari ne riparleremo nei prossimi giorni, ma intanto confermo il verdetto di venerdì: ho avuto modo di incontrare di nuovo Seamus Heaney, mi sono divertita, ho imparato, ho fatto qualche scoperta e ho portato via delle domande su cui rimuginare.

Non male, direi.

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* Ne riparleremo…

** E anche di questo riparleremo.

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Oh, e buon compleanno, G.

Festivaletteratura 3 – Claudio Magris

festivaletteratura, claudio magris, danubio, microcosmi, realtà e immaginazioneTrattandosi di me, era quasi un miracolo che non fossi ancora arrivata in ritardo a nessun evento del Festival – e infatti è successo ieri: quando sono approdata in Piazza Castello, Claudio Magris aveva cominciato a parlare da quasi dieci minuti…

Per cui, spero di non avere perso nulla di troppo fondamentale – o quanto meno, nulla che abbia pregiudicato la mia comprensione di quel che ha detto dal decimo minuto in poi*.

Detto ciò, l’incontro s’intitolava “La verità è più bizzarra della finzione” e, quando sono arrivata, Magris stava raccontando di come, da scrittore approdato alla narrativa in seconda battuta, si sia sempre sentito un appassionato compilatore di realtà – e illustrava questa sua propensione raccontando di come (da bambino, presumo) lo affascinasse copiare lunghe liste di nomi, per esempio l’elenco dei trattato franco-spagnoli: Oviedo, Pamplona e altri nomi dal suono di leggenda…

L’idea mi è piaciuta molto (non ho più bisogno di confessare il fascino che i nomi esercitano su di me), ma non sono certissima che l’esempio illuminasse l’assunto di partenza. Voglio dire, può darsi benissimo che catalogare equivalga a interpretare la realtà, ma a quei cataloghi di nomi il piccolo Magris non era attratto dalla realtà un po’ tediosa dei trattati, bensì dalle immagini irreali – irrealissime – evocate dal suono dei nomi stessi, forse associati a memorie di cantari cavallereschi.

“Nomi che sembravano usciti dalle leggende come gli elenchi dei paladini nelle gesta di Orlando,” ha detto.

E allora sarà anche vero che “la realtà si afferma sempre,” come diceva ieri Magris adulto, ma forse il Magris bambino non se ne curava ancora granché.

Ma ecco una storia di anni più recenti, del Magris neo-narratore, sempre irresistibilmente “attratto dalla realtà” e alle prese con la storia (vera) dei Cosacchi trapiantati in Carnia nell’illusione di ricostituire uno stato cosacco. Non finì bene: l’ataman di questi esuli, il generale Krasnov, finì per arrendersi agli Inglesi, che promisero di non consegnarlo ai Sovietici, poi ruppero la promessa e lasciarono che fosse rimpatriato, condannato a morte e impiccato. Di questa storia circolò a lungo, e forse non è ancora del tutto cancellata, una romantica versione alternativa, secondo cui il generale Krasnov morì gloriosamente in battaglia. E Magris, che a questa tragedia cosacca aveva dedicato il suo primo racconto e, prima ancora, un lungo articolo per il Corriere della Sera, raccontava ieri di essersi ritrovato incapace di sposare senza riserve la versione storicamente provata. E non solo, badate bene, nel racconto, ma persino nell’articolo, che aveva consegnato al Corriere lardellato di condizionali, se, ma, e ogni possibile forma dubitativa conosciuta alla lingua italiana.

L’attrazione per la realtà? La realtà che si afferma sempre?

Per spiegarsi, Magris ha preso a prestito da Ernestina Pellegrini il concetto di futuri abortiti, ovvero quelle possibilità alternative che sono esistite concretamente finché i fatti non hanno preso un’altra direzione. Il generale Krasnov avrebbe potuto davvero morire in battaglia.

Vero, ma non sono certa che questo costituisca un trionfo della realtà sull’immaginazione, perché di fatto Krasnov non è morto in battaglia, e se la morte in battaglia ha un grado di realtà ipotetica superiore a quello, diciamo, dell’assunzione del generale al cielo in un cocchio, non ha standing di fronte alla effettiva e brutale realtà del tradimento inglese e dell’impiccagione. Quindi, i Cosacchi preferiscono raccontarsi la storia alternativa, e i persino i cronisti appassionati di realtà esitano a smentirla del tutto, perché è bella – ma non è particolarmente reale.

Così come, quando Magris dichiara di ispirarsi sempre a fatti reali per le sue storie, e si riconosca in quel personaggio del suo Danubio che ha scritto quasi sei chili di libro per descrivere nel più minuto dettaglio un piccolo tratto di fiume, e per quanto professi una meticolosa attenzione come forma di rispetto verso la realtà, io non dubito che tutto ciò sia vero, ma fatico a vedere un trionfo della realtà nella vicenda (reale) dell’uomo che raccontava la sua storia con le parole con cui Magris lo aveva raccontato in Microcosmi.

Se stesse a me, sarei tentata di leggere questa faccenda à la Greenblatt: la realtà dell’uomo ha dato sostanza alla storia di Magris, che poi ha finito col modificare la percezione della realtà dell’uomo ai suoi stessi occhi. Realtà e immaginazione qui mi sembrano davvero reciprocamente permeabili.

Così come quando si tratta di Stadelmann, il segretario di Goethe tolto dall’ospizio per commemorare il suo defunto padrone, e a sua volta morto suicida quindici giorni dopo avere fatto ritorno all’ospizio. “La storia è reale, ma le motivazioni del suicidio, quel che accadde dentro Stadelmann in quei quindici giorni, queste sono cose che deve supplire l’invenzione dello scrittore.” Il che è il naturale andare delle cose quando si scrive narrativa (o in questo caso teatro, credo) a sfondo storico – ma non mi colpisce come una decisa affermazione della realtà a spese dell’immaginazione…

E persino in ambito non narrativo, con Cavallari che descrive Paolo VI intento a contemplarsi le mani, “sgomento della loro fragilità”, qual è il grado di realtà di quello sgomento senza parole, sovrapposto al gesto del papa dall’immedesimazione del giornalista? 

E così ho ascoltato, affascinata – perché Magris parla bene, con acume e finezza – ma non convinta.

Mi sono sentita recuperata su altre affermazioni, come il fatto che la scrittura soffra della “concorrenza sleale” della realtà, perché non può esagerare, essere illogica, disordinata e inconcludente come fa la realtà. E così la scrittura si trova costretta a smorzare in verosimiglianza narrativa gli spigoli, le improbabilità e gli eccessi della realtà. La letteratura, diceva Balzac (o almeno credo che fosse lui) non dev’essere vera, ma verosimile. E, chiosava Magris ieri, non solo non deve, ma non può essere vera.

E però allora, I ask, non torniamo alla questione iniziale? La realtà smorzata e narrata non è in qualche modo una realtà immaginata? È vero, la realtà è più bizzarra della finzione – perché non ha il problema di non potersi permettere eccessi di bizzarria – ma questo le dà una sorta di superiorità gerarchica sull’immaginazione nel processo narrativo? Davvero la realtà si afferma sempre? Davvero la realtà esercita un’irresitibile attrazione?

Affascinante questione, affascinante incontro, affascinante collezione di quesiti. Finora, per quanto mi riguarda, il Festival è stato thought-provoking, che è un’ottima qualità. Fino a ieri quanto meno, mi pronuncio soddisfatta.

 

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* In caso contrario, sono sul punto di abbaiare all’albero sbagliato per molti paragrafi, in una figuraccia epica. Credo e spero di no, ma se così fosse, mi perdoni Professor Magri – e perdonatemi, o lettori.

 

Set 7, 2012 - Festivaletteratura, grillopensante, guardando la storia    Commenti disabilitati su Festivaletteratura 2 – Stephen Greenblatt E Barbarina

Festivaletteratura 2 – Stephen Greenblatt E Barbarina

festivaletteratura, stephen greenblatt, palazzo ducale, barbara gonzaga wurttembergE ieri, per cominciare, Stephen Greenblatt nel cortile dell’Archivio di Stato*. Greenblatt è il babbo del cosiddetto Nuovo Storicismo, non tanto una teoria quanto una serie di pratiche critiche intese a inserire la letteratura nel suo contesto storico concreto – che plasma e da cui è plasmata al tempo stesso. Se ne può discutere, e se ne discute non poco, ma anche solo a livello intuitivo dire, come fa Greenblatt, che “campo storico e campo letterario sono reciprocamente permeabili,” ha un sacco di senso.

Ad ogni modo non lo ha detto ieri. Ieri ha raccontato la romanzesca storia del ritrovamento di un manoscritto: una copia del IX Secolo del De Rerum Natura di Lucrezio, scovato da Poggio Bracciolini in un monastero tedesco nel 1417 – dopo una decina di secoli d’oblio.

Poggio, umanista e arrampicatore, segretario apostolico in disgrazia con l’ossessione per i libri antichi, è un singolare personaggio cinico e inaffondabile cui, oltre a Lucrezio, dobbiamo una notevole collezione di ritrovamenti, da Cicerone a Vitruvio, passando per i Punica di Silio Italico. Forse, con la sua carriera  variegata e le sue spregiudicate ricerche nelle abbazie tedesche, meriterebbe un romanzo. Nel frattempo, Greenblatt racconta di lui con vivacità e abbondanza di particolari, ma non è Poggio il protagonista di questa storia.

Al centro di The Swerve, How the World Became Modern, c’è Lucrezio, con il suo universo fatto di vuoto e di atomi, concetto enormemente esplosivo nel primo Quattrocento. E c’è il modo in cui questo mondo impregnato di tradizione cattolica era maturo per conservare, ruminare e trasmettere anche le idee pericolose. E c’è il fatto che Poggio il Cercatore era figlio del suo tempo quando ritrovava i testi perduti destinati a cambiare la mentalità della sua epoca.

Fascinating stuff, raccontata con brio** e condita di stimoli e domande sulla storia, la letteratura, le idee, la loro forma letteraria, la loro diffusione e il loro permanere nei secoli.

E un quesito finale: La scarsa accessibilità ha rischiato d’inghiottire il De Rerum Natura, ma poi l’estrema durevolezza del suo supporto l’ha restituito all’umana rimuginazione. E nella nostra epoca di estrema accessibilità e pari transitorietà, quali sono le possibilità per un libro di attraversare i millenni?

Ecco, se dovessi azzardare una risposta alla domanda lasciata da Greenblatt, direi questo: per il volo millenario del De Rerum Natura, alla pratica d’uso di supporti durevoli si sono dovute combinare la diligenza di un amanuense e l’ostinazione di un umanista. E quindi forse servono ancora le stesse cose: diligenza e ostinazione – combinate adesso con la vasta accessibilità? 

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E poi c’è stafestivaletteratura, stephen greenblatt, palazzo ducale, barbara gonzaga wurttembergta l’inaugurazione della mostra su Barbarina Gonzaga maritata Württemberg, a Palazzo Ducale. Che emozione far parte del primo gruppo di visitatori ammesso nelle sale del Palazzo dopo il terremoto. Qua e là si trovano ancora i ponteggi, e il percorso attraversa zone nuove – dalla Sala dello Specchio, dove si tenne la prima rappresentazione dell’Orfeo monteverdiano*** agli appartamenti dell’Imperatrice, all’appartamento vedovile di Santa Croce dove, tra l’altro, è allestita la mostra proveniente da Stoccarda.

Povera Barbarina Gonzaga, andata sposa in Germania e malata di nostalgia di casa, che trascorse tutta la sua vedovanza a chiedere di far ritorno a Mantova e non poté mai. E adesso, lo si è ripetuto spesso oggi pomeriggio, la si è riportata in spirito, dopo un’attesa di cinquecento anni, nel palazzo della sua infanzia – un po’ ammaccato ma saldo al suo posto. Anche questo è un ritorno, una persistenza, un ritrovamento.

Si direbbe che non siano soltanto i libri a ritornare.

 

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* Cui, sappiatelo per futuri eventi – specialmente nel caso in cui indossiate tacchi alti e sottili e, di conseguenza, non desideriate fare passi non necessari – non si accede dall’ingresso dell’Archivio, ma da Via Dottrina Cristiana.

** E di nuovo, nota di merito alla bravissima e simpatica interprete.

*** Avevo citato la sala, insieme all Corridore della Pergola, ne Lo Specchio Convesso, ma senza averli mai visti altro che in disegno nelle piante del palazzo.

Che Cosa Non È Un Romanzo Storico?

hnrmay09cover.jpgC’era una volta, un paio di anni fa, una lettrice (ed ex collaboratrice, se ho ben capito) di Historical Novels Review, che scrisse alla rivista una lettera furibonda, sollevando la questione di che cosa fosse di preciso un romanzo storico – e di che cosa invece non lo fosse affatto. Il romanzo storico è un genere ben definito, sosteneva la signora in questione, al quale non appartengono romanzi rosa in costume, fantasy a sfondo storico, viaggi nel tempo, ucronie e via dicendo.

HNR, rivista angloamericana specializzata, seguiva e segue una politica molto aperta in materia, e rispose alla lettrice sostenendo che negli ultimi anni la definizione del genere si era allargata a comprendere un certo numero di sottogeneri, la cui natura varia selvaggiamente. Fenomeno difficile da ignorare – ma soprattutto, si chiedeva il redattore nella risposta, era saggio e lungimirante volerlo ignorare?

Non è un caso che la discussione sia nata in ambito anglosassone, nel contesto di un mercato editoriale molto più segmentato del nostro, ma l’argomento è interessante. Al di là della politica editoriale di HNR, è assolutamente vero che il romanzo storico, come genere, si è ramificato in modo notevole, negli ultimi otto o dieci anni.

È lontana l’arcadia candida e un po’ strettina in cui Sir Walter Scott, Dumas e Manzoni, con i loro seguaci, imitatori ed epigoni, esaurivano più o meno il panorama. C’era l’ambientazione in secoli passati, c’era una guerra/battaglia/pestilenza/cospirazione/sollevazione armata, c’era una maggiore o minore libertà rispetto alle fonti, c’era un malvagio destinato alla sconfitta, c’era una giovane coppia destinata all’altare, et voilà: romanzo storico.

Per molto tempo, l’unica distinzione era stata quella tra romanzi storici e romanzi storici per fanciulli – alle volte con risultati bizzarri: sapete tutti che questo è a pet peeve of mine, ma davvero: chi può voler considerare Il Signore di Ballantrae di Stevenson un romanzo per fanciulli?).

Arcadia, come dicevo: adesso si può contare facilmente una decina di sottogeneri.

1. Romanzo rosa storico. Oppure romanzo storico rosa, a scelta. E sì, lo so: tutti pensiamo subito a qualche Harmony in cui personaggi dalla mentalità e dal comportamento contemporanei indossano costumi di un’epoca a scelta, e questo è quanto. Ad ovest della Manica, in realtà, si trovano commercializzati come historical romance dei romanzi di caratura molto superiore (per qualità di scrittura e accuratezza di ambientazione), che da noi sfuggirebbero alla classificazione “rosa”, ma in cui l’elemento sentimentale ha un’importanza prevalente.

2. Fantasy storico. Probabilmente, il caso più famoso è il bellissimo Jonathan Strange & il Signor Norrel, di Susanna Clarke, che ipotizza l’impiego della magia a fini militari nel corso delle guerre napoleoniche. Personalmente, trovo irresistibile l’idea dei maghi dell’esercito inglese impegnati a spostare colline, strade, fiumi e villaggi della Spagna per confondere le idee ai Francesi! Ad ogni modo, si tratta di trame che associano elementi fantastici agli avvenimenti storici, oppure creano mondi immaginari basati su un periodo storico. Se vogliamo, il Calvino de Il Cavaliere Inesistente ricade in questo genere. All’interno del quale, in teoria, bisognerebbe distinguere…

3. Horror storico, il cui punto di forza sono gli onnipresenti vampiri, calati in un’epoca a scelta*. Pensate a Intervista con il Vampiro di Anne Rice – ma non dimenticherei nemmeno licantropi, zombie e streghe. 

4. Giallo storico. Questo non ha quasi bisogno di spiegazione: delitti e indagini in qualche epoca passata. Citiamo Il Nome della Rosa di Umberto Eco, e anche le indagini di Fratello Cadfael di Ellis Peters. Persino Agatha Christie si lasciò tentare, già nel 1945, ambientando C’era una volta (Death comes as the end) nell’antico Egitto. Una variante particolarmente fortunata di questo genere vede personaggi storici all’opera come detectives – e per un esempio italiano citerò La Sposa di Annibale, di Guglielmo Colombero – ma la produzione in questo campo è molto varia – dal fratello di Shakespeare a Jane Austen, da Abigail Adams al Dr. Johnson…

5. Romanzo storico militare. Anche questo è piuttosto autoevidente: protagonisti militari e abbondanza di guerre e battaglie. Bernard Cornwell e Valerio Massimo Manfredi rientrano in questo genere. Un sottogenere è costituito dalla cosiddetta Naval Fiction. Ne abbiamo parlato di recente.

6. Multiperiod. Romanzo che alterna vicende accadute in secoli diversi, e più o meno correlate tra di loro. Mi viene in mente il (mediocre) The Intelligencer, di Leslie Silbert, i cui capitoli si dividono tra la Londra elisabettiana di Christopher Marlowe e la Washington contemporanea, con lo stesso mistero al centro. Se posso essere spudorata, il mio Lo Specchio Convesso insegue l’elusivo Ammirabile Critonio tra la Mantova cinquecentesca, la Scozia del XVII Secolo e la Londra di Dickens. Diverso da…

7. Saga familiare, che segue diverse generazioni della stessa famiglia attraverso il corso degli anni (o dei secoli). Rilevante ai nostri fini quando gli anni in questione appartengono a qualche passato, come i cicli dei Courteney e dei Ballantynes di Wilbur Smith e, più vicino a noi, La Spilla di Janesich, di Antonio Della Rocca.  

8. Viaggio nel tempo. Il nostro eroe, per un motivo qualsiasi, volutamente o per caso, si ritrova in un’epoca diversa dalla sua. I risultati possono variare dalle buffe complicazioni (il capostipite è forse Un Americano alla Corte di Re Artù, di Mark Twain), ai cavoli amari, come in Timeline, di Michael Chricton.

9. Romanzo storico per ragazzi. Citiamo R.L. Stevenson con Il Ragazzo Rapito e Lino Piccolboni con I Cannoni di Venezia, autore e titolo che, per una volta ci consentono di sorvolare sul modo in cui, negli autori italiani di questo sottogenere, l’ansia per il politically correct nuoce al rigore storico.  

10. Ucronia. Ovvero, ipotesi di storia alternativa. Il re del genere è Harry Turtledove, il cui romanzo ucronico più conosciuta in Italia forse è Per il Trono d’Inghilterra, ma c’è, per esempio, Roberto Farneti, con la saga di Occidente.

Il mercato americano distingue ancora almeno due sottogeneri: il western storico (devo spiegarlo davvero?) e il romanzo storico cristiano (a forte contenuto spirituale), che in Italia praticamente non esistono. E si possono aggiungere ancora le “psedudostorie”, come L’Isola del Giorno Dopo di Eco, o Il Viaggio dell’Elefante di Saramago, che narrano avvenimenti storici filtrati attraverso una voce autoriale moderna o a-storica.

Se non bastasse, esistono poi romanzi che mescolano vari sottogeneri. Il Teschio di Cristallo di Manda Scott (sì, quello…) è un multiperiod con forti elementi fantasy e una trama pseudogialla. Personalmente non mi azzarderei a definirlo un romanzo storico, ma è pur vero che per metà si svolge nel Cinquecento, e quindi, per dire, rientra nei criteri di HNR, che peraltro lo ha recensito, seppur senza eccessivo entusiasmo.

Insomma, il romanzo storico, come tutti i generi letterari, è in continua evoluzione, in una dialettica continua tra sperimentazione e mercato. E, tornando alla domanda iniziale, che bisogna fare di questa fioritura fuori dalle aiuole?

Ecco, a me sembra che la fioritura sia qui per restare, e che volerla ignorare sia un genere di esercizio singolarmente futile – oltre che miope. A che serve rinchiudere un genere letterario in un quadratino? A mio timido avviso il discrimine è altrove, tra il tentativo di ritrarre in modo onesto e plausibile i modi, gli usi e la mentalità di un’epoca e le collezioni di anacronismi psicologici in crinolina – ma anche questa è una valutazione d’altro tipo, che non può funzionare come criterio pratico per la delimitazione del genere…

E allora trovo ragionevole la definizione di HNR:

Per essere considerato storico ai nostri fini, un romanzo deve essere stato scritto almeno 50 anni dopo gli eventi narrati, o da qualcuno che non era vivo all’epoca in cui gli eventi si sono svolti, e quindi le conosce soltanto attraverso la ricerca.

E la distanza di cinquant’anni può essere arbitraria, ma in fondo è tutto quel che serve: al di là di quel limite c’è spazio per tutte le evoluzioni, gli esperimenti, le ibridazioni e le ipotesi che possono mantenere vivo il genere. 

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*Non credo che sia stato tradotto in Italiano, ma esiste un ciclo di romanzi che ritraggono il Barone Rosso e i suoi piloti come una squadriglia di supervampiri… giuro!

 

 

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