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Di Filosofi e di Condottieri

Dopo questo concerto ho cominciato a vedere genealogie ideali ovunque – successioni di varia natura che sviluppano idee o forme artistiche attraverso i secoli.

Questa volta, anziché di arte, parliamo di filosofia con risvolti politici, coprendo una fetta di storia e pensiero greci dal principio del V Secolo fin verso la fine del IV.

Socrate.jpgCominciamo da Socrate che, tra un simposio e l’altro, elabora non solo idee, ma un metodo di pensiero, una logica dei problemi che, sotto l’apparenza svagata e conversevole, è destinata a diventare la base del modo di pensare occidentale. In realtà forse la maieutica non era così rivoluzionaria in sé, ma nessuno prima ne aveva davvero analizzato il meccanismo. E’ sempre sconcertante scoprire la ferrea disciplina che governa quelle pratiche apparentemente spontanee – e di conseguenza il modo in cui quella disciplina può essere usata. O manipolata. Non a caso, Socrate beve la cicuta fatale perché Atene lo considera un empio e un corruttore della gioventù.Platone.jpg

Segue il suo allievo Platone, che mette per iscritto e sistematizza in forma dialogica il pensiero di Socrate, e poi procede per conto suo a svilupparne i principi in varie direzioni. Platone non è un personaggio pittoresco ed allarmante come Socrate: è di buona famiglia, di molti talenti (oltre che filosofo, i biografi lo vogliono soldato, pittore, poeta, atleta e matematico, secondo un ideale molto greco), e la sua Accademia, dove s’impara discutendo, è considerata un’istituzione non solo perfettamente rispettabile, ma prestigiosa.

Aristotele.jpgTra i suoi allievi si distingue Aristotele, che sviluppa metodo e pensiero a gradi di raffinatezza estrema, e li applica ad ogni possibile campo dello scibile, dall’etica all’astronomia, dalla letteratura alla scienza della conoscenza. Anche lui fonda una scuola in cui si passeggia e si discute, e il suo prestigio è tale da farne il precettore ideale per un figlio di re.

L’ultimo rampollo di questa discendenza lo trovo proprio nel Grande Alessandro, che assorbì per un paio d’anni le teorie di Aristotele e poi traghettò il mondo greco dall’Età Classica all’Ellenismo, camminando sui cocci della vecchia città-stato verso l’idea imperiale e aprendo il mondo verso Oriente. Ad Aristotele non poteva piacere troppo la politica di Alessandro, ma la progressione verso Est della piccola e rude Macedonia, e il suo germogliare in imperi al contatto con altre civiltà più sofisticate, conservano – o almeno a me pare – un andamento logico per botte e risposte, azioni e reazioni e domande, infinite domande in cerca di risposta. Non amo alla follia Pascoli, ma il suo Alexandros, che piange davanti al “Fine, l’Oceano, il Niente”, e rimpiange i giorni in cui aveva ancora spazio per la sua Cerca, mi sembra rappresentare bene l’aspetto filosofico della faccenda – e il dramma di una mente cercatrice giunta al confine delle sue possibilità. AristoteleAlessandro.jpgWhy, persino la parabola biografica di Alessandro segue un arco narrativo degno della Poetica di Aristotele.

Insomma, nel giro di due secoli scarsi, l’onda lunga (e indiretta, se vogliamo) della maieutica di Socrate ha finito col portare alla luce un mondo nuovo – quello ellenistico. Potrei ancora notare che mentre l’Atene repubblicana comminava la cicuta a Socrate per le sue idee empie e corruttrici, Alessandro si liberava di Parmenione per la sua avversione ad abbandonare il vecchio ethos greco. Potrei ricordare il Robespierre che cita Platone per giustificare la condanna a morte di Chenier: “Anche Platone bandiva i poeti dalla sua Repubblica”. E potrei finire con Napoleone, cui pareva che Alessandro avesse fatto un gran bene a liberarsi dello stupido e immobilista Parmenione.

Discorsi da romanzieri, lo so, non da filosofi. Ma ai romanzieri piace tanto guardare il propagarsi delle onde lungo le generazioni, i secoli e i millenni.

Ott 26, 2010 - guardando la storia, teatro    4 Comments

La Regina e il suo Giullare

Velazquez_The_Dwarf_Don_Juan_Calabazas_called_Calabacillas_ca_1639.jpgDon Juan Martìn de Calabazas, con questo nome altisonante, era un giullare, buffone di corte di Re Filippo IV dopo avere servito una serie di Grandi di Spagna e Infanti reali. Conosciuto come Calabacillas o Bizco, fu tanto celebre al suo tempo da meritarsi due ritratti, uno dei quali dipinto da Velazquez, niente meno.

Fausto Bertolini, giocando con date e luoghi, porta Calabacillas alla corte di Elisabetta I d’Inghilterra. Regina e giullare dialogano fittamente, in bilico continuo tra ironia trasognata, incursioni metateatrali e scatti d’ira, e – tra una disquisizione sul metodo per catturare un orbe riluttante e un passo di dana – offrono un’affilata analisi di arte, potere, e del rapporto tra i due.

“Non ci sono eroi innocenti in politica – o nella storia,” sussurra Calabacillas al pubblico: soltanto un “nesso di colpe” che i detentori del potere cercano di districare oppure ispessiscono con le loro azioni. E gli artisti? Gli artisti camminano sul filo sottile tra un ruolo di coscienza e la necessità di mantenere la testa là dove si trova…

Ieri sera, al Teatrino d’Arco, i bravissimi Francesca Caprari e Claudio Soldà hanno recitato un estratto de La Regina e il suo Giullare. La regia era di Mario Zolin, che gioca con ironia ed eleganza sul carattere metastorico della pièce. reginaegiullare.jpg

A questo proposito, è stato interessante sentire l’autore definire la sua passione per il teatro-nel-teatro come un aspetto sintomatico della Sindrome del Demiurgo (aka il complesso della subcreazione). La tendenza a sfondare la quarta parete sarebbe, secondo Bertolini, una conseguenza del desiderio di manipolare la realtà: non contento di creare la realtà teatrale, l’autore desidera intervenire anche su quella più vasta che esula dal palcoscenico. Su quella fetta di realtà, mi verrebbe da dire, che connette palco e platea – di fatto la sospensione dell’incredulità.

Interessante teoria e interessante pièce – che spero di vedere presto per intero.

La Bambinaia Francese

Bambinaia.jpgNel corso del finesettimana ho avuto modo di discutere di uno specifico tipo di anacronismo – il tipo che scatena in me violente reazioni allergiche, che considero il peccato mortale in materia e che permea completamente La Bambinaia Francese, di Bianca Pitzorno.

So di averne già parlato, ma abbiate pazienza mentre analizziamo la trama in dettaglio.

Si comincia nella Parigi degli Anni Trenta dell’Ottocento, con la piccola Sophie, figlia di operai che, nella loro illuminata sete di progresso, fanno studiare la figlioletta. Poi il destino malvagio si accanisce sulla famigliola, Sophie perde i genitori in rapida successione, deve lasciare la scuola e mettersi a lavorare e – colpo di fortuna! – si ritrova alle dipendenze di Madame Céline, danseuse celebre e madre di una bambina. Il padre, un gentiluomo inglese, ci viene subito presentato come un uomo duro d’animo, gretto, ottuso, pieno di pregiudizi e non particolarmente intelligente.

Madame Céline, al contrario, è un angelo privo di difetti che accoglie come altrettanti figli Sophie e Toussaint, il piccolo schiavo di colore regalatole dall’amante inglese. Entrambi i ragazzini studiano nell’eccentrica scuola del Cittadino Marchese, un nobile che persegue i più nobili (e più traditi) ideali della Rivoluzione inculcando Rousseau e Voltaire a un gruppetto di piccoli operai, borghesi e aristocratici.

Tutti vivono molto felici in questa arcadia – con l’occasionale batticuore di una visita dell’Inglese, cui bisogna far credere che le distinzioni sociali siano debitamente rispettate – fino al secondo disastro, che è in realtà una combinazione di disastri. Alla morte del Cittadino Marchese, i di lui avidi e malvagi nipoti accusano Céline di un reato che non ha commesso per poterle sottrarre la parte di eredità lasciatale dallo zio. La poveretta, imprigionata alla Salpétrière, perde anche la memoria. L’Inglese ricompare soltanto per portarsi via bambina e bambinaia, e Toussaint deve nascondersi per non essere venduto, visto che la sua lettera di affrancamento non si trova più.

Il romanzo diviene a questo punto epistolare, perché Sophie scrive a Toussaint dall’Inghilterra, raccontandogli le sue numerose infelicità: deve vivere in un cupo maniero di campagna, fingersi analfabeta, sopportare che la piccola Adèle venga trattata con un certo distacco, capire chi è la misteriosa signora rinchiusa in un’ala della casa, e guardare mentre quella cretina incapace di sentimenti dell’istitutrice inglese s’innamora del padrone…

Qualcosa comincia a suonarvi familiare? Dovrebbe, perché l’istitutrice inglese altri non è che Jane Eyre, e il bieco Monsieur Edouard è naturalmente Mr. Rochester, con la moglie pazza rinchiusa nella soffitta. Solo che nulla è come credevate voi e Jane, perbacco! D’altra parte, Jane è una sciocca accecata in pari misura dai suoi pregiudizi inglesi e dal suo “amore da serva”. Il vero volto di Rochester l’abbiamo già visto, e la moglie pazza – tenetevi forte – non è pazza affatto! Il suo unico difetto è quello di avere sempre sostenuto la libertà degli schiavi e di essere stata innamorata in gioventù di un mulatto. Rochester la tiene rinchiusa solo perché, con i suoi discorsi di uguaglianza e libertà, Bertha è socialmente imbarazzante.

Capito che cosa ci teneva nascosto Miss Bronte? Vatti a fidare!

Ma never fear, la virtù non può non trionfare, di qua e di là della Manica e degli Oceani. In Francia, Céline viene liberata, riabilitata e guarita; i nipoti del Cittadino Marchese pagano per le loro malefatte; Toussaint viene dichiarato uomo libero e parte per l’Inghilterra per recuperare Sophie e la bambina. Seguono i noti eventi – il matrimonio interrotto tra Jane e Rochester, la fuga di Jane e l’incendio… solo che non è Bertha a scatenarlo, così come non è lei a morire. Bertha fugge con i Nostri che, ricongiunti e traboccanti di felicità, s’imbarcano per il Nuovo Mondo. In un finale degno di Love Boat, Sophie decide che Toussaint avrà di certo una parte nel suo futuro, mentre l’ex pazza Bertha non vede l’ora di ricongiungersi con il suo mulatto, e persino Cèline trova l’amore, nella persona di un opportunissimamente ricomparso amico del defunto padre di Sophie, un tipografo povero e brutto – ma istruito, intelligente e debitamente liberale. Non avevamo mai più sentito parlare di lui dopo pagina quattro? Ci eravamo bellamente dimenticati di lui? E’ tutto molto improbabile e improvviso? Fa niente: l’importante è che tutti vivano felici, uguali e contenti mentre la nave scompare nell’orizzonte indorato dal tramonto.

E quella gallina di Jane? Dopo tutto ha quello che si merita, visto che se ne torna scodinzolando dall’accecato e rovinato – e pure bigamo – Rochester. Fine.

Capito l’andazzo? Sorvoliamo pure sulla trama approssimativa e sulle coincidenze improbabili – dopotutto è un libro per fanciulli, si potrebbe obiettare – ma non sorvoliamo sulla caratterizzazione sommaria, perché è parte di un discorso più ampio.

In questo libro ci sono i Buoni (Sophie, l’angelica Céline, Toussaint, il Cittadino Marchese, Olympe e sua nonna, Bertha, la piccola Adèle) e i Malvagi (Rochester, i nipoti del Cittadino Marchese e svariati personaggi di contorno). Miss Jane è in una specie di limbo, parte vittima consenziente di Rochester, parte ottusa perché inglese, di certo nulla a che vedere con la giovane donna coraggiosa e intelligente che conoscevamo dal suo libro.

In realtà, tutte le caratterizzazioni che conoscevamo dal libro sono stravolte – per nessun motivo migliore della simpatia della Pitzorno per la Francia, a quanto pare – ma non è questo il punto.

Il punto è che tutti i Malvagi, maggiori e minori, pensano, ragionano, sentono e agiscono come gente della prima metà del XIX Secolo, incarnano e mettono in pratica le convenzioni, le idee e la mentalità prevalenti del loro tempo – e proprio per questo sono descritti come malvagi.

I Buoni, per contro, hanno tutti sensibilità del XXI Secolo. Anche quando professano teorie volterriane (per dirla con il Sagrestano della Tosca) o declamano le idee di Victor Hugo, poi le applicano in maniera del tutto contemporanea – e questo, nell’intenzione della Pitzorno, fa di loro i Buoni.

Sophie non è una piccola parigina ottocentesca, è una ragazzina dei giorni nostri immersa in una realtà del XIX Secolo, di cui si risente amaramente. Il modo in cui lo staff di Thornfield Hall tratta la bambina francese è esattamente quello in cui sarebbe stata trattata una bambina all’epoca e nella situazione: con un certo distacco (cui va aggiunto un quid d’imbarazzo dovuto alla nascita irregolare di Adèle). Le smanie di Sophie in proposito sono una reazione dei nostri tempi. E l’idea di Bertha – brava, buona e generosa – rinchiusa perché parla di concedere la libertà agli schiavi sfiora il grottesco.

Ma Bianca Pitzorno non è una principiante: da anni scrive romanzi storici ben documentati, e quindi non commette errori di prospettiva. Piuttosto, distorce deliberatamente la prospettiva, il che a mio avviso è ancora più grave. 

Nel momento in cui caratterizza come malvagi tutti i personaggi che incarnano la mentalità del loro secolo, e dà a tutti i buoni una mentalità del tutto anacronistica, La Bambinaia Francese cessa di essere un romanzo storico e diventa, nella migliore delle ipotesi, un’apologia della nostra mentalità illuminata e politically correct, così superiore a quella ottocentesca. Nella peggiore (e più probabile) delle ipotesi, il libro verrà frainteso e i giovani lettori crederanno che nell’Ottocento gli aristrocratici cattivi (specie se inglesi) dividessero la società in categorie, mentre gli operai buoni e qualche nobile illuminato consideravano tutti gli uomini e le donne liberi e uguali.

In entrambi i casi, l’operazione intellettuale è dannosa.

Set 16, 2010 - guardando la storia    Commenti disabilitati su L’Ultimo dei Gonzaga

L’Ultimo dei Gonzaga

CarloFerdinando.jpgIl mio amico S., appassionato di Storia e collezionista compulsivo, si è presentato qui in cerca di collaborazione per tradurre un documento settecentesco scovato su eBay: una copia della dichiarazione di fellonia di Ferdinando Carlo Gonzaga-Nevers, cui l’Imperatore Giuseppe I non era disposto a perdonare di aver lasciato entrare a Mantova le truppe franco-spagnole nel 1707. 

Potevo dire di no? Ovviamente non potevo.

Così ieri sera abbiamo cominciato. Confesso di essermi arresa prima di subito davanti al prologo in Tedesco, ma il corpo del documento è in Latino, e lì ci siamo messi d’impegno. Una prima oretta di lavoro ha prodotto un elenco abbreviato dei titoli di Giuseppe, un’affascinante, dettagliatissima lista dei destinatari per conoscenza della patente di fellonia (compresi tutti i custodi di ponti dell’Impero), ai quali il Sacro Romano Imperatore augura ogni bene, prima di lanciarsi nella sua diatriba. Per ora abbiamo tradotto una dichiarazione di buona volontà nei confronti dei sudditi leali e obbedienti, and woe betide chiunque si azzardi a tralignare – abominevole audacia! – dalla fedeltà dovuta all’Imperatore e all’Impero.

Il lavoro è affascinante: un lobo del mio cervello non può fare a meno di macchinare sullo choc delle piccole autorità locali nel ricevere un documento  del genere – c’è un senso di solennità nelle formule latine, si legge tra le righe la presenza di un’autorità lontana e onnipotente, e il carattere esemplare della punizione trasuda da ogni sillaba. Questo è un grande feudatario esposto su una gogna di carta e inchiostro e forse, quando parlo di choc delle piccole autorità locali, sto sottovalutando la situazione. In realtà credo che la lettura di un documento simile dovesse far correre qualche brivido per la schiena di qualsiasi magnate dell’Impero. Elettori, principi ecclesiastici e secolari, duchi, margravi, presuli, conti e baroni, castellani e capitani, borgomastri e magistrati… tutti dovevano vedere l’ignominia dell’ultimo Gonzaga. La vasta diffusione della notizia faceva parte del castigo e, allo stesso tempo, fungeva da memento per tutti i suoi destinatari. Gonzaga.png

Registro con qualche soddisfazione che il mio Latino non è completamente arrugginito, ma sento decisamente la mancanza di qualche nozione di paleografia e diplomatica (di diplomatica, in realtà, ma mi pare che sia un esame unico, a Lettere). Credo che farò bene a procurarmi una lista di abbreviature. Qualcuno ha idea di dove ne posso trovare una in Rete?

E stasera si continua.

 

Lug 14, 2010 - guardando la storia    15 Comments

Liberté, Egalité et Fraternité

prise_de_la_bastille.jpgQuattordici di Luglio, Allons Enfants eccetera eccetera. Mi si dice da secoli che “una volta o l’altra lo passeremo a Parigi perché…” ma si vede che nemmeno quest’anno è quella volta o l’altra. Non dico che non mi piacerebbe, sulla base di come tutta la faccenda è descritta nell’incantevole Quando Hitler Rubò Il Coniglio Rosa, dal che mi s’individua come un dissennato esemplare di quella specie di persone che prendono le loro aspettative dai libri. Non sempre è una buona idea, ma non divaghiamo.

Confessione: il motivo per cui posso convivere con il fatto di non avere mai trascorso un Quattordici prison.jpgLuglio a Parigi è che, tutto sommato, nel corso degli anni (e delle letture) ho sviluppato una simpatia piuttosto limitata per la Rivoluzione Francese. C’è la Storia di per sé, c’è l’Andrea Chenier (anche se tutto sommato Carlo Gerard ha la sua dose di ruvida grandezza*), e c’è che leggendo A Tale Of Two Cities o The Scarlet Pimpernel una non si fa la migliore opinione possibile dei sanculotti e delle tricoteuses. Tuttavia, siccome nemmeno l’Ancien Régime brilla per simpatia, ho mantenuto un discreto distacco in proposito fino a una quindicina di anni fa.

Cholet.jpgPoi una quindicina di anni fa, su Il Giornale, lessi una serie di articoli sulle Guerre di Vandea. Folgorazione. Ammesso che ne sapessi qualcosa prima, non poteva essere più del singolo e asciutto paragrafo in cui il mio libro di storia del Liceo liquidava le Guerres come un brutale, fanatico e fallito tentativo di reazione monarchico-clericale nell’arretrato Ovest. Figuratevi la mia sorpresa nel leggere di un’epopea di grandi dimensioni: una fiumana di contadini-soldati con le falci, comandata da signorotti di campagna, piccoli proprietari e figli di notai che tiene testa all’esercito rivoluzionario per anni, e poi va incontro a un destino estremamente tragico… Il mio genere all’ennesima potenza! 

Ne volevo sapere di più. Prima scoperta: non era facile. In Italia non c’era praticamente nulla di pubblicato, e all’epoca ero del tutto digiuna delle meraviglie della Rete. Non potevo far altro che frugare per casa, biblioteche e librerie, racimolando Quatre-Vingt-Treize, Les Chouans, Les Blancs et les Bleus e la traduzione degli atti di un convegno**. Pareva non esserci altro, e suppongo che sia stato per questo che, l’estate successiva, a Parigi, anziché su un treno per Rouen salii su un treno per Nantes. Chiariamo: all’epoca stavo decidendo di voler scrivere per davvero, e di volermi dare ai romanzi storici. L’idea era una vicenda napoleonica, e dieci giorni in giro per Parigi e la Normandia a documentarmi sul mio protagonista, ufficiale della Campagna d’Italia e stanziato a Governolo per un certo periodo.

Solo che poi… presenti gl’impulsi? Non è che li segua spesso, ma fatto sta che i miei dieci giorni li prigionieri.jpgpassai girando come una trottola per la Vandea, visitando musei locali, cittadine, campi di battaglia, castelli natali dell’uno o dell’altro generale, isole, zone costiere, abbazie e biblioteche. Per non parlare delle librerie! Tornai a casa con una tonnellata di libri e di fotocopie e un’Idea, e nel corso dei tre anni successivi scrissi il primo volume della mia trilogia vandeana.

Il Giglio e la Falce comincia con l’inizio dell’insurrezione vandeana nel marzo del 1793, segue la chiamata alle armi dei contadini, le difficoltà, le battaglie, le vittorie e le sconfitte dei Bianchi fino alla Virée de Galerne, il tragico passaggio oltre la Loira, e fino alla pace del 1795. E’ un libro dissennatamente colossale (poco meno di 250000 parole, ed è solo il primo volume!), e non so di preciso se troverò mai qualcuno disposto a pubblicarlo, ma una cosa è certa: mentre lo scrivevo ho sviluppato una radicata predilezione per i Bianchi, che sono gente di poco buon senso, di vario valore, di molti meriti e altrettanti difetti, e di tragica sfortuna. E questo è il motivo principale per cui tutto sommato il Quattordici Luglio non suscita in me un entusiasmo selvaggio.

Mort_du_General_d%27Elbee.jpgNon che voglia negare l’importanza storica della Révolution, ma, per dirla con Isabel Archer di Ritratto di Signora,*** “in una rivoluzione, una volta che fosse bene avviata, credo che sarei una realista. E’ più facile simpatizzare con loro, e hanno occasione di comportarsi in modo così pittoresco!”

 

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* Commento a caldo di lettore casuale prima della pubblicazione: “Effigurarsi, Clarina! E’ un baritono…”

** Ricerca talmente complicata che, cinque o sei anni più tardi, il gentilissimo e bravissimo titolare della meravigliosa libreria Il Delfino di Pavia si ricordava ancora di me e dei miei dannatissimi atti.

*** Il che equivale a dire: per dirla con Henry James…

Mag 5, 2010 - guardando la storia    2 Comments

Ei Fu… in Ucronia

Molti anni fa – neanche moltissimi, pensandoci bene: nel 2001 – ho partecipato a un gioco promosso da Rai Radio Tre. Si trattava di una versione del celebre What If, in cui si stabilisce un’ipotesi ucronistica e poi ci si ricama sopra. Cosa sarebbe successo se, invece di X fosse successo Y?

Il gioco è affascinante, e ha intorno tutto un genere letterario, il cui maestro indiscusso è Harry Turtledove. Avete presente il suo Per Il Trono d’Inghilterra, in cui la Envencible Armada, anziché affondare ingloriosamente, conquista l’Inghilterra, e Shakespeare si ritrova invischiato in un intrigo politico letterario per rovesciare l’occupazione spagnola? Assolutamente fantastico. In Italia c’è La Saga di Occidente, in cui Roberto Farnesi ipotizza un’Italia in cui il Fascismo non è caduto. Affascinante serie di speculazioni.

Se parlo oggi di tutto ciò è perché nel gioco radiofonico di cui dicevo all’inizio, l’ipotesi era che Napoleone fosse fuggito dall’Elba negli Stati Uniti (e per dissennata che l’idea suoni adesso, c’erano fumosi piani in proposito e cospiratori intenzionati a metterli in atto). Come sarebbe cambiata la storia europea?

La mia ucronia cominciava così:

Napoleone raggiunge gli Stati Uniti dove, con sua somma delusione, si ritrova circondato soltanto da gruppi di bonapartisti alquanto velleitari e non troppo bene informati che agiscono in semiclandestinità, concionano di Ideali Rivoluzionari e, in un patetico tentativo di segretezza, si affannano a chiamare il loro ospite “Mr.Goodside”…

Napoleone non moriva più a Sant’Elena il 5 maggio 1821, ma nell’America del Sud, quindici anni più tardi. E Alessandro Manzoni dedicava all’avvenimento un’ode intitolata Il Quattordici Settembre:

Ei fu. Di guerra il fulmine

nel Messico lontano

si tacque. E rugge il tuono

che mosse la sua mano,

che il suo voler, mancando,

dietro di sé lasciò.

 

Dorme la spoglia immemore

nell’or di Montezuma.

Gloria, potere ed impeto

svaniro come bruma,

e ‘l due volte imperadore

il capo alfin posò.

 

E via dicendo per altre quindici o venti sestine – che non ho scritto. Però, se qualcuno avesse voglia di leggere l’intera storia, la può trovare qui.

Apr 8, 2010 - guardando la storia    Commenti disabilitati su L’Ammiraglio Che Non C’è

L’Ammiraglio Che Non C’è

Suleyman Balta-Oghlu, dico.

Se leggete Sir Steven Runciman* o Franz Babinger**, ve ne venite via con l’impressione che Suleyman Balta-Oghlu fosse un ammiraglio della flotta ottomana durante l’assedio di Costantinopoli, nel 1453. Fin qui tutto bene. Scoprite che il Nostro è figlio di un boiaro bulgaro, che poi si converte (o è convertito) all’Islam e fa carriera al servizio del Sultano Murad, e poi di Mehmed II. Nel 1444 è membro di un’ambasceria spedita a Buda; nel 1449 combatte a Lesbo, abbastanza bene da farsi notare dal giovanissimo Mehmed; alla fine del 1452 lo ritroviamo governatore di Gelibolu/Gallipoli, dove sovrintende all’allestimento della nuova flotta ottomana. Poi Mehmed lo nominerà ammiraglio (Kapudan Pasha), e mal ne incoglierà, a Balta-Oghlu: nell’aprile del 1453, dopo avere predicato prudenza per un mesetto, ha la mala ventura di lasciarsi sfuggire quattro navi occidentali in arrivo. Per impossibile che sembri, quattro legni – di cui uno armato di Fuoco Greco – riescono a farla in barba all’intera flotta ottomana, ed entrare nel blindatissimo Corno d’Oro tra il tripudio degli assediati. Mehmed non la prende bene, e qui finisce la carriera di Balta-Oghlu.

Questa, dicevo, è l’impressione che vi fate, e vi sembra più che sufficiente per un personaggio di contorno. In fondo, deve solo essere scaltro e calcolatore, irritare ripetutamente Mehmed, fallire grandiosamente e fare una fine pittoresca… dov’è il problema?

Il problema è che, in fase di revisione, decidete che Balta-Oghlu merita di meglio. Già che ci siamo, perché non dargli un punto di vista? Secondario, se vogliamo, ma pur sempre un punto di vista. E allora vi serve qualche notiziola in più, che diamine. Per prima cosa, tornate a Babinger e Runciman, e non solo ritrovate esattamente e soltanto le informazioni che avete già utilizzato nella prima stesura, ma scoprite anche – con un certo risentimento – che nessuno dei due autori cita le fonti da cui ha preso le informazioni in questione.

Be’, pazienza. Cercate sul vostro amatissimo Oxford Dictionary of Byzantium (in tre volumoni) e non trovate nulla. Strano. Setacciate la vostra nutrita bibliografia di bizantinerie e fate anche una capatina in biblioteca, e non cavate un ragno dal buco. Cercate allora su Internet… e che diamine! qualcosa ci sarà, no?

No. Non c’è nulla. Wikipedia in versione inglese ha uno stub tratto da Runciman che vi dice meno di quanto già sapeste; Wikipedia italiana, idem con ancor meno patate. Wikipedia turca***, sorpresa delle sorprese, il buon Balta-Oghlu**** lo ignora. Ma completamente. Non ha nemmeno uno di quei link rossi che non conducono a nessun articolo: l’uomo è citato superficialmente in una discussione e, a parte quello, per la Wiki turca potrebbe non essere mai esistito.

Bizzarro, no? Estendete la vostra ricerca dalla storia dell’assedio a quella della flotta ottomana, completa di liste degli ammiragli, e il risultato è sempre lo stesso: nada.

Allora vi rivolgete a uno storico militare che già un paio di volte vi ha levato dai pasticci, e gli raccontate il vostro guaio. Gli riassumete rapidamente quello che sapete, e gli ponete le vostre domande: SBO è stato razziato ragazzino e cresciuto ottomano, o si è convertito in età adulta? Che tipo di carriera ha fatto prima di diventare governatore di Gallipoli? Ha mai servito nei Giannizzeri? Lo storico militare è una cara persona e, pur ammettendo di non sapere assolutamente nulla del signore in questione, vi dà una buona idea: perché non vi rivolgete all’Addetto Navale dell’Ambasciata Turca a Roma?

Voi, francamente, avete qualche patema a rivolgervi all’Addetto Navale per la documentazione di un romanzo storico, ma l’idea vi sembra brillante lo stesso, perché le ambasciate hanno anche Addetti Culturali, e chi meglio di un Addetto Culturale può aiutarvi a dipanare una questione di storia? Mentre cercate un indirizzo elettronico dell’Ambasciata, v’imbattete in un giornale online di cultura turca con un servizio di domande e risposte molto attivo e, per non lasciare nulla d’intentato, provate anche lì. Vi risponde un gentilissimo signore (italiano) che non ha mai sentito nominare SBO, ma v’indirizza alla persona giusta all’Ambasciata.

Voi scrivete alla supposta persona giusta, e aspettate fiduciosi. Già che ci siete scrivete anche al Consolato di Milano, perché non si sa mai, e continuate ad aspettare fiduciosi, e ogni tanto fate ancora qualche ricerchina per conto vostro, pescando sempre lo stesso genere di pesce: niente.

Dopo un certo numero di giorni, dal Consolato vi suggeriscono di rivolgervi all’Ambasciata. Già fatto, grazie. E dopo un po’ di giorni ancora, dall’Ambasciata vi dicono che: a) hanno cercato su Internet e non hanno trovato nulla; b) hanno cercato nei loro archivi e non hanno trovato nulla; c) vi passano l’indirizzo di un docente di storia dell’Università di Ankara, al quale potete provare a rivolgere la vostra domanda.

Voi lo fate, e cominciate anche a disperare un tantino. Non è che non abbiate fiducia nel Professore, ma cominciate a domandarvi che cosa farete se anche il professore dovesse ignorare l’esistenza di SBO… Supporre che in realtà non sia mai esistito? Decidere che i Turchi hanno rimosso la figura dalla loro memoria storica? Levarlo dal romanzo? Inventargli di sana pianta un’infanzia e una giovinezza plausibili?***** Perché poi, badate bene, voi sareste perfettamente felici anche di sapere che non esistono fonti affatto, e che sapete già tutto quello che si può sapere, perché allora sareste liberi di riempire le lacune di testa vostra. Dopo tutto siete romanzieri, non saggisti, giusto?

Ma nel frattempo, resta l’atroce dubbio che in realtà qualcosa esista, qualche fonte remota sulla base della quale qualcuno, un giorno, vi sbugiarderà grandiosamente. Vi vengono le palpitazioni al sol pensiero. In più, vi domandate com’è possibile che un’ammiraglio della flotta ottomana esista soltanto nelle fonti secondarie occidentali, e a questo pensiero vi prudono tutti gl’istinti storico-narrativi che avete.

E così aspettate trepidi che il Professore si faccia vivo, e intanto fate speculazioni selvagge e, se non state attenti, vi ritrovate con tutta la trama di un giallo storico…

Chi è Suleyman Balta-Oghlu? Donde viene? Dove va? Che d’è questo fitto mistero che lo avvolge come un sudario d’oscurità? Come si sono smarrite le sue tracce nella nebbia dei secoli? Qualcuno lo ha voluto dimenticare? E perché? Riuscirà la nostra eroina a fare luce sul misterioso Bulgaro?

Non perdete il secondo, emozionante episodio de… La Clarina e l’Ammiraglio Fantasma! Prossimamente su queste pagine.

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* Steven Runciman, Gli Ultimi Giorni di Costantinopoli, Piemme, 1997. Magnifico libro.

** Franz Babinger, Maometto il Conquistatore e il suo tempo, Einaudi, 1983. Altro gran bel libro.

*** Ci sono momenti in cui si apprezza persino il traduttore automatico di Google, vero?

**** Henceforward indicato come SBO, se non vi dispiace.

***** Oddìo, potreste anche provare a rivolgervi davvero all’Addetto Navale, a questo punto…

Feb 9, 2010 - cinema, guardando la storia    Commenti disabilitati su Storicamente Corretti

Storicamente Corretti

Abbiamo parlato, qui e qui, di letteratura e cinema; parliamo di storia e cinema, questa volta.

Qualche anno fa, in un saggio intitolato “Le troppe sviste di sir Scott”, lo storico militare e medievalista Marco Meschini (Cattolica di Milano), ha offerto un’analisi molto stimolante del modo in cui la storia finisce sugli schermi cinematografici, concentrandosi su Kingdom of Heaven, di Ridley Scott, una narrazione alquanto disinvolta dell’assedio di Gerusalemme, nel 1187.

Meschini, ammiratore confesso di Scott, parte dalle dichiarazioni contradditorie rilasciate dal regista e dallo sceneggiatore William Monahan a proposito dell’accuratezza storica del film. Si parte da un “i personaggi sono storicamente corretti”, per arrivare a un “talvolta abbiamo dovuto ritoccare la realtà a fini narrativi”, per culminare con uno spudorato “è successo 800 anni fa… voi c’eravate? Io no!”

Francamente, avrebbero fatto miglior figura se non avessero voluto rivendicare fette decrescenti di fedeltà ai fatti. Voglio dire, tutti sappiamo che la storia è storia e Hollywood è Hollywood, e non ci scandalizziamo troppo, nemmeno quando Baliano, in realtà signore di Ibelin e colonna del Regno Latino di Gerusalemme, ci viene contrabbandato come un povero maniscalco francese che scopre di essere figlio illegittimo di un gran signore e capitano crociato*. O meglio, non ci scandalizzeremmo troppo se il regista non ci avesse detto che i personaggi sono essenzialmente corretti.

In definitiva, fare film consiste nello strizzarci l’occhio, invitarci a sospendere l’incredulità e lasciare che ci godiamo le scene di battaglia, giusto? Ma no, Scott deve cercare di imbrogliarci, rimangiarsi via via le assicurazioni incaute e infine, in una dimostrazione palese di coda di paglia, tentar di fare dell’ironia sulla questione.

Col risultato che il film non è ancora iniziato e siamo già maldisposti, tutti i nostri neuroni sono in allerta massima da forze ostili e, invece di appassionarci alla storia, notiamo le incongruenze, gli anacronismi e gli svarioni. Come il fatto che questa gente se ne vada in giro in armatura completa per la maggior parte del tempo, o che carichi con la spada in pugno (anziché la lancia), o che si levi l’elmo nel bel mezzo della battaglia, o che, mentre galoppa, senta ordini gridati da qualcuno all’altro capo dello schieramento…

Tuttavia, Meschini sembrerebbe disposto a concedere queste licenze, seppur malvolentieri, in omaggio a quella concezione comune del Medioevo che un altro Scott, un paio di secoli fa, ci ha affibbiato, e da cui l’immaginario collettivo stenta a liberarsi. In fondo, dice Meschini, l’armatura prèt-à-porter, i Templari cattivissimi e la spada in pugno sono quello che il pubblico si aspetta: dargliene in abbondanza potrà non essere rigoroso, ma è… come dire? Finanziariamente solido. E poi queste bazzecole impallidiscono di fronte al vero e proprio crimine storico di Kingdom of Heaven: la disonestà intellettuale.

In sostanza, Scott ci presenta tutto il clero cattolico (vescovi, ordini militari e preti di villaggio alike) come una masnada di avidi casuisti intenta a mercanteggiare salvezza eterna contro infedeli uccisi. I Crociati sono, nella migliore delle ipotesi degl’idioti ingannati, in quella di mezzo dei fanatici, nella peggiore in combutta con il clero. Il nostro eroe (nobiluomo, ma ex maniscalco, e pertanto uomo del popolo), è una brava persona, ma è lucido perché ha perso la fede. Per contro, i Saraceni (salvo qualche sporadica eccezione) sono onorevoli e cavalleresche persone, prima di tutti Saladino, che onora i debiti, libera i prigionieri e, una volta entrato in Gerusalemme riconquistata, risolleva una croce che trova rovesciata.

Non male, eh? E tanto più perché Ridley Scott ha dimostrato ripetutamente di saper raccontare storie tutt’altro che manichee, tipo Blade Runner, o I Duellanti, solo per citarne un paio. E allora? E allora, forse, la chiave di lettura la dà un commento di Liam Neeson, secondo il quale contravvenire alla realtà storica non solo non è un reato penale, ma è anzi cosa buona e giusta al fine di far passare un messaggio.

Ah. Interessante.

Quindi, in sostanza, il concetto di narrazione storica di Ridley Scott e William Monahan si esemplifica così: il Saladino era un principe tollerante e amante della pace, con un esercito stanziale di 200000 uomini o giù di lì. Ora, non stiamo a spaccare il capello in quattro sul fatto che, stando a tutte le fonti, Saladino non avesse mai più di 35000 uomini su un singolo campo di battaglia. I numeri, dopo tutto, sono secondari. Peggio, molto peggio, è che si sorvoli sulla presenza dell’esercito stesso. Stiamo parlando, fa notare Meschini, di un’epoca in cui nessuno tiene un esercito in armi un giorno più di quanto sia necessario: se l’esercito c’è, è perché Saladino è in guerra. In Jihad, per la precisione.

E invece no: i Crociati sono malvagi e costituzionalmente assassini per una combinazione di avidità e fanatismo; i Saraceni sono brava gente, fiera ma tollerante, civile e amante della pace. E’ tutto ben chiaro? E se storicamente le cose erano un pochino diverse, un pochino meno nette, un pochino più complesse; se si sono stravolte le fonti e la realtà; se si è stati tendenziosi e intellettualmente disonesti, non ha la minima importanza. L’importante, intonano in coro Scott, Monahan, Neeson e Dabashi**, l’importante è il messaggio.

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* Wait a moment! Orlando Bloom che fa il povero maniscalco, figlio illegittimo di un capitano, in seguito promosso a uomo del destino… non vi pare di averla già sentita di recente, questa storia? 

** Hamid Dabashi, professore di studi iranici e letteratura comparata  alla Columbia University, esperto di cinema e storia postcoloniale dell’Islam sciita, consulente storico della produzione del film. Si vede che un medievalista non l’hanno trovato.

 

Dic 11, 2009 - guardando la storia    Commenti disabilitati su Giornate

Giornate

Se parliamo di 11 dicembre, si viene a sapere che nel 1282 Llewellyn ap Gruffyd venne assassinato nel Galles centrale. Ah.

Poi bisogna passare al 1719 per la prima osservazione di un’aurora boreale registrata scientificamente. Già meglio.

Nel 1769 un Londinese di nome Edward Beran brevetta le veneziane. Nel senso di tapparelle. Non avrei mai detto che fossero un brevetto inglese: credevo che si chiamassero veneziane per una ragione.

Nel 1792 la Convenzione aprì il processo per tradimento contro Luigi XVI. Sappiamo tutti che non andò a finire molto bene. Anche se forse dipende dai punti di vista.

Nel 1844 abbiamo la prima estrazione dentale previa anestesia. E ci voleva tanto a pensarci? Secoli e secoli di estrazioni dolorose, prima che a qualcuno saltasse in mente l’idea?

Nel 1928, sventato attentato al neo-eletto presidente americano Hoover. Eletto, ma non ancora insediato: quando si dice un buon inizio…

Nel 1930, fallimento della Bank of United States. Pessimi tempi.

Nel 1936 Edoardo VIII abdicò per sposare Wallis Simpson, nel ’37 l’Italia uscì dalla Lega delle Nazioni, nel ’41 Germania e Italia dichiararono guerra agli USA. Nel 1946 fu fondata l’UNICEF.

 Nel ’67 venne presentato pubblicamente il prototipo del Concorde, nel ’94 la Russia entrò in forze in Cecenia, nel ’97 Tony Blair incontrò Gerry Adams del Sinn Fein…

Nel 1998 venne decifrata la mappa genetica di un vermetto. Da qualche parte bisogna pur cominciare.

Nel 2001 fu annunciato il ritiro degli Stati Uniti dal trattato sugli armamenti balistici del ’72.

A parte la tentazione di pescare tre 11 dicembre a caso e legarli in una storia (per esempio, il processo a Luigi XVI, Hoover e il Sinn Fein… volete che non sia possibile ricamarci attorno una di quelle belle trame complottiste, con le società segrete e i documenti nascosti per secoli? Quelle da cui poi si traggono i film?), peccato non averlo fatto ieri, questo post, quando sarebbe stato il compleanno di Emily Dickinson. O mercoledì prossimo, in occasione del 236° anniversario del Boston Tea Party, quando per protesta contro le tasse inglesi, un sacco di tè finì a mollo nella baia di Boston. Cosa che, dice George Banks in Mary Poppins, lo rese imbevibile persino per gli Americani

 

Nov 28, 2009 - grilloleggente, grillopensante, guardando la storia, libri, libri e libri    Commenti disabilitati su Josephine Tey (per non parlare di Riccardo III)

Josephine Tey (per non parlare di Riccardo III)

Mi si chiedono notizie di Josephine Tey, che ho citato a proposito di Henry Morgan.

Ebbene, Josephine Tey (1896-1952) è una scrittrice scozzese, autrice di gialli, di drammi teatrali e anche di qualche romanzo storico, come appunto The Privateer. Un’altra Christie, pochissimo nota in Italia, e non so dire perché, visto che i suoi libri sono davvero scritti deliziosamente, con ottime trame e dialoghi strepitosi.

Qualcuno ha visto Giovane e Innocente? E’ un film di Hitchcock, pre-Hollywood, girato in economia ai Pinewood Studios, con una squadra di attori inglesi sconosciuti e bravi… Ebbene, è tratto da A Shilling for Candles, della Tey. Che poi non si chiamava affatto così: il suo vero nome era Elizabeth Mackintosh, ma pubblicava come Josephine Tey, Gordon Daviot e Craigie Howe. Daviot era il suo nom de plume per il teatro, e non parliamo di teatro qualsiasi: fu con il suo Richard of Bordeaux che John Gielgud si affermò come stella sui palcoscenici inglesi.

Di suo, Mondadori e Salani hanno pubblicato una mezza dozzina di titoli fra gli Anni Trenta e Cinquanta, con l’occasionale ristampa ogni tanto…

King_Richard_III.jpgNel 2000 Sellerio ha ripreso quello che secondo me è il suo romanzo più significativo: La Figlia del Tempo. La figlia in questione è, secondo Francis Bacon, la verità. E a caccia di verità va l’ispettore Alan Grant, l’investigatore di JT, solo che, per una volta, deve andarci metaforicamente. Tutto comincia con una riproduzione del ritratto qui accanto. Immobilizzato in un letto d’ospedale da un incidente, e annoiato a morte, Grant si rifiuta di credere che l’uomo del ritratto sia un assassino, e si mette ad investigare sul caso dei Principi nella Torre: è vero o no che Riccardo III fece assassinare i suoi due nipoti per salire al trono?

Con l’aiuto di una schiera di collaboratori, Grant esamina i fatti, ricostruisce i motivi, disseziona le tesi del Vescovo Morton, di Thomas More e di Shakespeare come quelle di altrettanti testimoni inattendibili, e un po’ per volta… Sembra noioso? Non lo è. Grant e compagnia (dall’infermiera con i libri di scuola sullo scaffale, alla celebre attrice del West End, al giovane storico americano) sono una delizia. I dialoghi sono brillanti (di quella naturalezza e perfezione che fanno ritornare indietro e rileggere le battute per il gusto di farlo) e, benché sappiamo tutti come va a finire, c’è un discreto numero di dubbi e di sorprese lungo la strada.

Ora, non so dire nulla sulla traduzione, perché non l’ho letta, ma di solito Sellerio fa le cose per bene. E’ probabile che voce e tono siano rimasti. Anche ammesso che se ne sia perso qualcosa, vale di sicuro la pena di dare un’occhiata a questo libro, affascinante dal punto di vista storico, ben scritto, appassionante come giallo, e popolato di gente simpatica. E se tutto ciò non bastasse, dà anche da pensare sul modo in cui si formano luoghi comuni, leggende nere e convenzioni storiche. Che si può volere di più da un libro?

 

 

 

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