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Set 19, 2018 - memories, musica, teatro    2 Comments

Fila I, Posto 9

DonC062E guarda un po’ la serendipità… accennavasi al Don Carlo di Rovigo, nel post di lunedì – e ieri sera, togliendo dalla mia lavagnetta di sughero un vecchio appunto che era lì da secoli senza nessun buon motivo particolare, che cosa ci ho trovato sotto, se non il biglietto del mio primo Don Carlo?

Sabato 10 novembre 2001, ore 20.30. Platea. Fila I, posto 9. Teatro Sociale di Rovigo… of all places. Ebbene sì. Nemmeno lo sapevo, che Rovigo avesse una stagione d’opera – ma ce l’ha. E nel 2001 comprendeva un Don Carlo – versione in quattro atti, in Italiano.

Vogliamo essere sinceri? Ero un pochino delusa. Erano anni che aspettavo di vedere un Don Carlo. Era la mia opera preferita, e non l’avevo mai vista in teatro – e il primo che mi capita a distanza ragionevole è… Rovigo? Ah well, che bisogna fare? Un Don Carlo è un Don Carlo, e sabato 10 novembre, con vasto anticipo – perché non si sa mai – si partì.

Il mio compagno di viaggio era il Mentore Operistico* – o forse è più esatto dire che io ero la sua compagna di viaggio. E guardate – io gli volevo un gran bene, ma il suo stile di guida e il mio stomaco avevano scarsa compatibilità. Nonostante un Valontan e quei braccialettini elastici che dovrebbero combattere la nausea, quando sbarcai a Rovigo ero al di là del bene e del male. Ma un Don Carlo è un Don Carlo: su la testa, spalle dritte e onwards! Chestnuts

E quindi immaginate la Clarina in abitino nero, scarpette col tacco e cappottino di cachemire, e immaginate anche una sera di tramontana…

“È tutto lì quel che hai addosso?” domandò scettico il Mentore, guardandomi rabbrividire. “Be’, se non altro l’aria fresca ti farà passare la nausea.”

Non posso negarlo: ero talmente occupata a battere i denti che la nausea non me la ricordavo nemmeno più. Era presto per il teatro e, una volta ritirati i biglietti, ci ritrovammo con un sacco di tempo per le mani. L’idea era quella di un bar calduccio, una tazza di tè e altri generi di conforto – ma all’improvviso…

“Ti piacciono le caldarroste?”

Col pensiero fisso al bar e al tè bollente, convinta che si trattasse di conversazione senza secondi fini, dissi che sì, mi piacevano molto…

“Ah, anche a me! Aspetta qui.” E io mi fermai dov’ero: a un angolo di strada, in mezzo alla corrente, e guardai il Mentore piombare su, of all things, un carrettino delle caldarroste, e tornarsene indietro con l’espressione di un bambino soddisfatto.

“Buona vigilia di San Martino,” mi disse, mettendomi in mano un cartoccio. “E buon primo Don Carlo! Dì se non è una cena originale.”

Come negarlo? Avete mai cenato a caldarroste a un angolo di strada, vestiti da sera, nel vento gelido di novembre? Scommetto di no. Be’, io invece l’ho fatto. A parte la difficoltà di sbucciare le caldarroste con i guanti, non vi fate idea di quanto sia pittoresco. E divertente. E dickensiano. E gelido. Quando finalmente entrammo nel bar calduccio e potei ordinare la mia tazza di tè era quasi tardi. O meglio, non lo era affatto, ma era quel genere di presto che bastava a mettere un po’ di ansia all’ansiosissimo Mentore.

Giuseppe_Verdi's_Don_Carlo_at_La_ScalaLui inalò il suo caffè e rimase a soffiarmi metaforicamente sul collo mentre mi ustionavo lingua, palato e gola con l’Earl Grey… Ma un Don Carlo è un Don Carlo, e quindi trottammo fino al teatro e prendemmo i nostri posti quando in platea non c’era ancora quasi nessuno, e aspettammo – la deliziosa attesa di una sala di teatro che si riempie, degli scampoli di musica che arrivano da dietro le quinte, dell’occasionale fremito del sipario, della lettura del programma…  L’avevo aspettata per mesi, quella sera, e finalmente c’eravamo.

Poi il buio in sala, l’orchestra che si accorda, il maestro che entra, gli applausi che si tacciono, il sipario che si apre… E Don Carlo fu!

E sapete cosa? Non fu nemmeno un granché. Decoroso, ma nulla di più. Forse il più modesto fra tutti quelli che ho visto in questi anni… E però fu il primo, e non lo dimenticherò mai – con la nausea andata-e-ritorno, e le caldarroste, e il gelo novembrino, e il coro con l’accento veneto, e il Grande Inquisitore con la zazzera… Che cosa non si ritrova alle volte in un pezzetto di cartoncino giallo appuntato su una lavagnetta di sughero, vero?

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* E, a dire il vero, Mentore in generale…

Lug 11, 2018 - grillopensante, memories    1 Comment

Apprendistato

GrandmammaandJaneQuando si considera per bene tutto, è chiaro che a fare di me una scrittrice è stata, in primissimo luogo, mia nonna.

Mia nonna che, quando ero piccola piccola, non mi raccontava mai due volte una favola nello stesso modo: aggiungeva e modificava e ambientava nel nostro giardino, e nei boschi di pioppi lungo il fiume – e m’invitava a fare altrettanto.

Mia nonna che, all’epoca in cui cominciavo a voler fare “la commediografa”, alle matinées domenicali al Teatrino D’Arco, mi sussurrava che, un giorno, avrebbero rappresentato i miei lavori su quel palcoscenico.

Mia nonna che si divertiva a immaginare espressioni bizzarre ed errori di stampa messi in pratica alla lettera.

GrandmotherMia nonna che, in vacanza in montagna o al lago, ricamava storie sulle persone che incrociavamo. In albergo o sedute a un tavolino di caffé per l’aperitivo, in fila per la funivia o in platea prima che iniziasse un concerto, si guardava attorno senza parere, individuava un soggetto e poi… Questi qui vicino alla fioriera. Guarda com’è imbronciata la signora: cosa mai avrà combinato il marito? Oppure la famigliola straniera qui davanti: perché sono venuti in vacanza in Italia? O com’è che il signore con il cane bianco è sempre da solo e non scambia mai una parola con nessuno? Ed eravamo capaci di passare ore a immaginare vite, pensieri, piani, gusti, occupazioni e whatnot per gli sconosciuti che ci capitavano attorno – sulla base di una maglietta, di un’espressione, di un accento, di una postura, di un pezzettino di conversazione…

E allora non lo sapevo, naturalmente, ma era tutto esercizio, tutto apprendistato. Era una mentalità che assorbivo – quella di osservare, interpretare e raccontare. La mia meravigliosa nonna amava leggere e amava le storie in questo modo attivo – anche se non scriveva. Probabilmente è un gran peccato che non lo abbia mai fatto, perché aveva la forma mentis giusta, oltre a vaste quantità di grazia e immaginazione e flair narrativo, e un tocco di senso dell’assurdo… Però, non so quanto intenzionalmente, ha dato l’imprinting alla sua unica nipote – del che, come per infinite altre cose, non le sarò mai abbastanza grata. Di sicuro scrivo per merito suo – ma forse, in un certo senso, scrivo anche un po’ per conto suo?

E voi, o Lettori? Che primo apprendistato avete seguito, sulla via della scrittura, della lettura, della musica, di…?

Déjà Écrit

Cartoon-Of-An-Author-Woman-With-Writers-Block-Royalty-Free-Vector-ClipartA volte mi prende il deprimente dubbio di non avere una mente troppo originale…

A voi succede mai di avere un’idea che vi pare meravigliosa, di accarezzarla e strologarci su – o, peggio, di scriverla per due, trecento pagine – e poi scoprire che qualcun altro l’ha già scritta, prima e meglio di voi?

A me sì. E non una volta sola.

Ed è sempre un abisso di sconforto, mooligrubs, biscotti al cioccolato e self-recrimination – ma la prima volta… eh, la prima volta poco mancò che smettessi di scrivere. Del tutto. Drastico? Un nonnulla – ma state a sentire. Dovete sapere che ero all’Università quando ho scritto il mio primo romanzo.

Nulla che cercherò mai di pubblicare, solo ‘prentice work, però gli sono molto affezionata. La prima volta in cui si finisce un romanzo non si scorda mai, mi dicono, e di certo ricordo vividamente l’emozionante notte insonne in cui l’ho finito. Per la cronaca, parlava di un attore di teatro – per metà inglese e per metà polacco – nella Londra degli Anni Trenta, e finiva molto male.

Adesso so che era pieno di ingenuità, incongruenze e peccati stilistico narrativi in tutta la gamma dal veniale all’imperdonabile, ma allora ne andavo molto orgogliosa, ed ero sicura che prima o poi avrei trovato un editore per Ned…TheatreJulia

Poi venne il giorno in cui, a Pavia, comprai La Diva Julia (in originale Theatre), di W.S. Maugham. La faccenda risale a quasi vent’anni fa, ma ricordo bene che era un giorno caldissimo, e che dovevo aspettare degli amici al Bar Demetrio. Così mi sedetti, ordinai un succo di pompelmo, tolsi il mio acquisto dal sacchetto della libreria e mi misi a leggere.

Oh, guarda: attori di teatro.

Come Ned.

Toh, Julia è per metà staniera. Come Ned.

Ma pensa, Michael è di buona famiglia e conserva sempre qualche genere di riluttanza sociale nei confronti del teatro. Come Ned.

Michael studia teatro e si fa notare interpretando Mercuzio nello spettacolo dell’accademia. Come Ned.

Julia è artisticamente molto più disinibita di Michael, e si irrita un po’ per il distacco che lui mantiene sempre. Come la ragazza di Ned.

L’impresario di Julia e Michael è un marpione stempiato, spregiudicatissimo, dall’infallibile istinto teatrale e dagli occhi azzurri e fintamente innocenti. Come l’impresario di Ned…

Ecco, potrei continuare piuttosto a lungo, ma credo di avere reso l’idea. Immaginatevi Il senso di freddo mano a mano che procedevo nella lettura e scoprivo, pagina dopo pagina, che il mio romanzo era già stato scritto da qualcun altro – e infinitamente meglio! Quando arrivarono i miei amici misi via il libro e feci finta di nulla, ma vi assicuro che quella fu una lunga, lunga, lunga giornata, prima che potessi chiudermi da qualche parte a farmi un bel pianto. Non avrei scritto mai più. Era la prova che non avevo né talento né originalità. Si chiudeva una fase della mia vita. E via melodrammeggiando, ma insomma: avevo poco più di vent’anni e il colpo era stato duro.

TheatreWSMPoi si direbbe che abbia superato il trauma, visto che dopo tutto non ho smesso di scrivere, del che sono molto grata. Posso dire che c’è voluto un po’ prima che mi decidessi a ricominciare, però.

Giuro che non avevo mai nemmeno sentito parlare di Theatre, eppure, se leggessi Ned senza sapere di averlo scritto, lo giudicherei senz’altro un plagio molto acerbo*. E quindi? Davvero non so. Forse non ho una mente originalissimissima, o forse i tratti che accomunano Ned, Julia e Michael sono abbastanza ovvi quando si tratta di attori, o forse i libri, come le persone, hanno dei sosia, o forse in un’altra vita sono stata esposta a Maugham… Certo, le coincidenze sono davvero tante, e ancora adesso non posso rileggere Theatre (che, sia ben chiaro, adoro) senza una reazione a scelta tra incredulo divertimento, un brividino reminiscente o un pelo di acidità – a seconda delle giornate.

E tutto sommato, se fosse stato l’unico caso… Ma no: ogni tanto succede – e non è che mi riempia di gioia. A parte tutto il resto, con tutti quei biscotti al cioccolato, fa malissimo alla linea.

E all’autostima…

Per cui, non so – ma ripeto la domanda: a voi è mai capitato?

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* All else apart, questa faccenda mi ha resa molto, molto cauta nel parlare di plagio…

 

 

Mar 30, 2015 - memories, pennivendolerie, tecnologia    Commenti disabilitati su Backup! Backup! Backup!

Backup! Backup! Backup!

Floppy1Vent’anni fa o giù di lì – al tempo dei floppy disk* – a un certo punto mi capita per le mani una deliziosa scatolina metallica piatta e quadrata.

“Oh,” cinguetto tra me e me. “Sembra fatta apposta per metterci un singolo floppy!” E il singolo floppy che ci piazzo dentro contiente – tenetevi forte – l’unica copia della seconda stesura di un romanzo. Unica. Copia. In una scatoletta di metallo.

Quando estraggo l’arnesino dalla sua graziosa casetta nuova e lo inserisco nel portatile, il portatile fa spallucce. Ri-inserisco, e nulla accade. Riprovo ancora, ancora e ancora – alla maniera di chi spera di svegliarsi da un momento all’altro e scoprire che era tutto un brutto sogno… Ma naturalmente no. Il floppy è diventato invisibile.

È estate, e il San Tecnico è in vacanza, così rimetto il povero floppino egro nella scatoletta di metallo e mi scapicollo in città, nell’unico negozio d’informatica che conosco. Dentro c’è il titolare, che era a scuola con mia madre, e c’è qualche implume che traffica con il computer. Il titolare ascolta le mie spiegazioni sconnesse e affida il floppy a un implume, con l’istruzione di vedere cosa può farci. L’implume, che è impegnato in tutt’altro, prova a inserire, fa spallucce, estrae e restituisce al titolare.

“Smagnetizzato,” mugugna – e torna ad occuparsi degli affari suoi.

“Ma…” balbetto io, con un vago senso di caduta verticale. “Ma non si può recuperare quel che c’è dentro?”

Il titolare, forse temendo una crisi di pianto, guarda con qualche severità l’implume – il quale fa spallucce di nuovo.

“Se è smagnetizzato, è smagnetizzato,” sentenzia a mezza bocca. Con l’altra metà sta sghignazzando con il suo altrettanto acerbo compare, seduto al computer accanto. Se potessi, strangolerei volentieri entrambi.Floppy3

Il titolare mi restituisce il floppy. Se non altro, ha l’aria dispiaciuta, mentre mi spiega che non c’è niente da fare – cosa che avevo già afferrato da me. Tolgo dalla borsa la scatoletta e la apro per rimetterci il floppy…

“Ma…” il titolare fa tanto d’occhi. “Non lo tiene lì dentro, vero?”

Io annuisco mestamente. Prima era una casetta, adesso è una piccola tomba…

“Ma è di metallo!”

Io sgrano gli occhi. “Sì… di latta verniciata. Anni Cinquanta…”

Il titolare chiude gli occhi un istante, e poi mi spiega: metallo, robe magnetiche… “Ma non era l’unica copia, vero?”

Oh dear.

Ri-caduta verticale: il floppino è defunto, la tecnica non può nulla, gl’info-implumi sono un bunch di gente senza cuore, ma l’assassina… la floppicida sono io. Io con la mia dannatissima scatoletta di latta verniciata anni Cinquanta. Saluto il titolare – e vedo che è ancora preoccupatissimo. Tsk. Per chi mi prende? Sono forse una che va a pezzettini nei negozi? Io non sono così. Io torno in macchina, e solo quando sono chiusa dentro mi faccio un bel pianto sulla dipartita della mia seconda stesura. Unica copia.

E piango sul volante finché un altro automobilista non suona il clacson per farmi capire che aspira al mio parcheggio… Senza nessun riguardo per la mia tragedia in corso. I mean, per quanto ne sa lui, potrebbe essere una tragedia vera e propria – e comunque, mai sottovalutare la portata di una stesura perduta, con l’aggravante della stupidità attiva.

E questo accadeva vent’anni orsono o giù di lì, e ha l’aria della lezione che non si dimentica, vero?

Floppy2E invece no. Ancora adesso il backup resta una di quelle buone idee che non metto mai in pratica. Oggi pomeriggio, domani, quando torno, lunedì… Mai adesso. E il risultato è che ogni tanto mi perdo cose rilevanti – inghiottite dal buio nell’uno o nell’altro crash, cancellate per errore o semplicemente irreperibili per settimane quando a un computer pare bello andare in deliquio…

No, be’ – un progressetto me lo riconosco: ho imparato a conservare quello che sto scrivendo in copie multiple. Una in ogni computer, una su ciascuna chiave USB… È già qualcosa, ma non è come se lo facessi abbastanza spesso. Lo faccio una volta e poi, come per il pane tostato nel forno, mi sento a posto con la coscienza. Di solito, quando torno a ricordarmene, il pane è carbonizzato da una parte e il povero hard disk giace insensibile.

Perché vi dico tutto questo?

Per via di questo post su Karavansara, sostanzialmente. Perché l’osservazione della sventura altrui, combinata al ricordo della propria, dovrebbe funzionare da sprone verso la lungimiranza. Perché quando succede, è troppo tardi. Perché magari sono l’unica che persevera nella propria allegra e pigra imprevidenza – ma il grido di oggi si è, o Lettori: Backup! Backup! Backup!

Hurrà!

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(E v’interesserà sapere che, mentre scrivevo questo post, Firefox si è chiuso senza preavviso… E io non avevo mai salvato… Fortuna che WordPress ogni tanto lo fa da sé.)

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* Non avete idea di quanto mi senta vecchia nello scrivere questo genere di cose…

Echi Nel Vento

bosco_vecchioQueste giornate ventose – e, a dire il vero, tutte le giornate ventose – mi riportano in mente Il Segreto Del Bosco Vecchio, il mio primo Buzzati, letto ormai alcuni decenni fa, e conosciuto fin da prima di leggerlo.

Il fatto è che mio padre, buzzatiano convinto, non poteva sentir levare il vento senza chiedermi: Evaristo o Matteo? Come i due venti di Buzzati, il volubile e pericoloso Matteo ed Evaristo, pusillanime e meschinello. E poi c’era il vento transoceanico, che quando non è impegnato a transoceanare vive in un’enorme grotta con un lago sul fondo.

E c’erano gli animali parlanti – prima tra tutti la gazza.

E c’erano i geni degli alberi – sorta di elfi silvani, uno dei quali, per poter meglio badare alla sua gente, s’impiega come ispettore forestale. E anche questa gente verde e silenziosa sconfinava occasionalmente dal libro nel mondo che mio padre immaginava per me: mi portava in bicicletta lungo gli argini del fiume – dei fiumi, perché qui ne abbiamo quantomeno due – e ogni tanto indicava tra i pioppi. “Hai visto? Oh, si è nascosto – ma c’era un genio degli alberi!” Oppure in montagna, quando incontravamo i Forestali, mi sussurrava “Quello alto sulla sinistra…”

Così quando lessi il libro per davvero, il mondo della storia era estremamente familiare. Restava da incontrare la gente che popolava quel mondo: l’orfano Benvenuto e il Colonnello Procolo* più che altro. E restava da scoprire che ci sono finali tristi e finali tristi, e che la storia era amarognola e malinconica all’estremo. Era buzzatiana – solo che non lo sapevo ancora. Potrei sbagliarmi – sono passati più o meno trent’anni – ma non ho ricordo di una singola scena soleggiata, nel Segreto. O se c’era, probabilmente è significativo che, se ripenso all’una o all’altra scena del libro, io le immagini tutte in una luce bigia e acquigginosa.

Così a tre decenni di distanza è questa bigitudine che mi resta in mente, e un odore di foglie bagnate. Ed echi ogni volta che vedo un icneumone, una gazza o un forestale. E non poter vedere abbattere un albero.**  E non poter sentir levare il vento senza risentire la voce di mio padre: “Evaristo o Matteo?”

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* E non cominciamo nemmeno con il film, volete? Paolo Villaggio nei panni del Colonnello, for heaven’s sake! Non so dire che speranze avessi in proposito – ma per modeste che fossero, oh l’orribile delusione.

** Il che, considerando il lavoro che ho fatto per sette anni…

 

Ott 29, 2012 - grilloleggente, memories    16 Comments

Paure, Terrori, Brividi & Spaventi

Si parlava di recente di paure visive e paure per iscritto, e Alessandro Forlani parlava del fatto di spaventarsi davvero leggendo come qualcosa di raro e abbastanza singolare – a differenza dello spaventarsi davanti a un film.

E io ho dovuto dissentire.

Non ho difficoltà ad ammettere che è inverecondamente facile levarmi il sonno, ma farmi paura per iscritto è forse persino più facile che farlo per immagini.

Il dizionario Treccani definisce la paura come

Stato emotivo consistente in un senso di insicurezza, di smarrimento e di ansia di fronte a un pericolo reale o immaginario o dinanzi a cosa o a fatto che sia o si creda dannoso,

e immagino che noi si ricada in un caso particolare di pericolo immaginario… Voglio dire, da bambina credevo davvero che una guerra nucleare potesse scoppiare da un giorno all’altro*, mentre adesso ho una visione un pochino più sana della possibilità, ma non per questo ho smesso di evitare come la peste le storie post-apocalittiche. Quindi si direbbe che il pericolo immaginario vada definito in modo piuttosto lato: non è solo questione di credere a un pericolo che di fatto non esiste (o almeno non troppo), ma anche di perdere il sonno su un pericolo puramente ipotetico.

D’altra parte, per dire, non credo assolutamente ai fantasmi e le storie di fantasmi mi piacciono – ma guai a leggerle dopo il tramonto. E sottolineo leggerle. E qui siete anche autorizzati a sghignazzare alle mie spalle, se vi va, ma siamo arrivati al punto in questione. 

Prendiamo un film come The Others, storia di fantasmi se mai ce ne fu una e your mileage may vary**, ma personalmente la trovo anche piuttosto angosciante. Sì, sì, lo so: sono una mozzarella. E tuttavia non ho perso notti di sonno per The Others, mentre una storia relativamente innocua come Oh, whistle and I will come to you, my lad di M.R. James, letta di notte, mi ha costretta a varie notti insonni e con la luce accesa. In età adulta. E anche The Others l’ho visto dopo il tramonto, ma in qualche modo – in qualche modo, su di me la suggestione della parola scritta è più forte di quella delle immagini.

O quanto meno, non è meno forte. Credo di avere già parlato della mia seria fobia nei confronti dei R, le orribili bestie con otto zampe, di cui davvero non so indurmi a scrivere il nome per intero – salvo forse in Inglese… Per qualche motivo spider, senza quelll’orribilmente suggestivo gruppo -gn, suona abbastanza asettico perché possa indurmici. Ma persino leggere la parola per intero è abbastanza al di sopra delle mie possibilità, e tendo a saltare pagine e capitoli interi nei romanzi in cui compaiano bestie a otto zampe, e a quattordici anni, per attraversare l’infestatissimo Bosco Atro, dovetti ricorrere all’aiuto di qualcuno che mi leggesse il capitolo in questione ad alta voce, e tuttora non posso toccare la parola r-, stampata o scritta, più di quanto possa toccare una fotografia. Persino sentirne parlare mi mette molto a disagio.

E se da tutto ciò vi siete fatti l’idea che soffra di una forma ridicolmente accentuata di fobia, non so darvi torto, ma il punto è e resta che la parola ha su di me lo stesso potere dell’immagine – quando non addirittura di più.

Immagino che sia perché, rispetto all’immagine, la parola scritta lascia più spazi bui da riempire – con il mio personale genere di paure? In fondo l’immagine è quello che è, e tende a mostrare più di quanto suggerisca… È quel che non so (e di conseguenza sono libera d’immaginare nel peggiore dei modi) che mi spaventa.

E per di più, mentre sono perfettamente capace di venirmene via da un film che mi dà la pelle d’oca, quando si tratta di libri non ho altrettanto buon senso, e continuo a leggere pur sapendo che poi avrò gli incubi…

Per cui sì, è più facile che mi spaventi con un libro che con un film, e negli anni ho imparato: niente apocalissi e postapocalissi, thank you very much, e meno distopie che sia possibile; niente horror, niente che contenga r- e fantasmi solo prima del tramonto. Poi ci sono sempre gli incidenti, le deviazioni inaspettate e la gente sadica, ma nel complesso la strategia difensiva funziona.

E voi? Ve ne siete mai rimasti insonni a occhi spalancati nel buio, chiedendovi perché diavolo avete dovuto leggere proprio quel libro? O, senza arrivare a questo – e più interessante – vi spaventate per iscritto, o no?

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* E scoprire a dieci anni che è molto più facile farsi prendere sul serio se si dichiarano paure un nonnulla più generiche…

** Un paio di giorni fa ho commesso l’errore di fare una capatina su TVTropes, e… er. Semmai ne parleremo.

Apr 23, 2012 - elizabethana, memories    Commenti disabilitati su A Shakespearean Rite Of Passage

A Shakespearean Rite Of Passage

Summer night, warm and damp to the point of stickiness. The lights are doused, and the chattering dies down to a trail of whispers. For a handful of moments, I can hear the crickets in the trees all around the theatre. One of those handfuls of moments calculated to break just when the audience has forgotten to breath – but I’m just eleven, and unaware of this kind of calculations.

Suddenly come a shaft of purplish light, and the bang of a trapdoor opening – then the witches climb onstage in a whorl of black rags and cackles, and run to crouch around the cauldron…

“Way to start,” mutters A., from the next seat. And although she is thirteen and bewildered, she is right. Far more than she knows. 

I am eleven, as I said, and this is my first Macbeth. My first Shakespeare. My first time at the Teatro Romano in Verona. My first less than traditional production. I know who Shakespeare is, but I never saw anything of his staged. As far as staged things go, my experience boils down to some children’s plays and a few nights at the opera – very traditional-minded productions. I’m not prepared for a tale of Medieval kings in Scotland changed – no, distilled to an affair of empty stage, shadows, cutting lights and nondescript, black costumes.  

I’m not even sure I like it all that much. Why, truth be told, I think I’m rather disappointed. Everything is so grim, so dark, no tartan sashes, no cloaks, no swords, no crenellated towers, nothing of what I had expected… And then, little by little, with no bells and whistles to keep my attention, I start to concentrate on the words. Not just the plot, but the way the words make the plot different from its synopsis. Yes, yes, the witches, the prophecy, the regicide, the folly, the defeat, it’s all there. But the creeping fear and guilt, the hoot of the night birds, the ghost, the blood stains that won’t go away, the boughs from Birnam Wood closing in… it all takes life from the power of the words, in a way no painted scenery, no elaborate costume could ever convey. And not just life, but truth.

And mind you, when we file out of the theatre I’m still eleven, and I’m not entirely convinced of what I saw. I still much prefer crenellated towers and period costumes, and I secretly hope all theatre needn’t be like tonight. And yet, when Father asks did I like the Macbeth, and I say yes, it’s not a complete lie. I may not have liked it in the usal sense of the word, but I know I’ve gone through some rite of passage. A door has opened on something that I don’t fully understand yet, but looks meaningful. Something that has to do not only with tales, but the way tales are told. Something that I want to understand – and learn, if I can.

Now, more than twenty-five years later, I know that what Shakespeare taught me that night was the power of words. A similar production of a weaker play would have just bored me, but because Shakespeare’s words were so powerful, the young girl I was grasped the essence of the story – and something else too: a hazy notion that, while the production and the acting were modern interpretation, through the words the long dead Shakespeare was still speaking to me across the centuries.

It was very hazy back then, I grant you, but it was to grow, branch out, develop into several tenets of my faith in words, when it comes to history, literature, and writing. Not bad for one shakespearean night, was it?   

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This (bilingual) post is my contribution to the Shakespeare Birthplace Trust “Happy Birthday Shakespeare” project. For a week, starting today, bloggers all around the world will post all kinds of Shakespearean musings.

Libri Perduti, Libri Ritrovati

betty smith, un albero cresce a brooklyn, libri, lettureNon vi è mai capitato di leggere da qualche parte una pagina di un libro, innamorarvene, volerlo leggere tutto e poi – per un motivo o per l’altro – non riuscirci?

Ne avete trovato una pagina su un’antologia, oppure avete ricevuto un prestito volante, oppure lo avete sfogliato su una bancarella e poi lasciato lì, o ne avete sentito leggere uno scrap alla radio. E dopo… magari avete annotato il titolo e perso il foglietto, oppure ve ne siete semplicemente dimenticati, benché foste certi di non farlo. Può anche darsi che non abbiate mai saputo chi fosse l’autore. Succede.

Però vi resta una curiosità, una nostalgia, un desiderio di leggere o rileggere, di sapere che mai succede a quel personaggio che vi aveva intrigato. Ogni tanto vi torna in mente, qualche volta vi capita persino di chiedere notizie a quell’amico che legge di tutto: “hai presente un libro in cui succede questo, questo e questo? Non so di chi sia. C’è un protagonista così e così, è ambientato nel tal posto, nell’epoca tale…”  O magari provate a consultare qualche libraio, non mancate mai di scrutare le bancarelle di libri usati e ripescate in soffitta le vecchie antologie. Oppure, una delle volte in cui vi torna in mente e capita che siate al computer, vi affidate a Google.

E in un modo o nell’altro, se persistete a sufficienza, finirete col trovarlo. Il libro salterà fuori su una bancarella o su internet, ritroverete il pezzetto di carta con il vostro appunto o l’antologia rilevante…

Ed eccovi lì, con il vostro Libro Ritrovato, e anni di ricordi deformati e aspettative irragionevoli fanno crepitare l’aria tra voi e il bottino. Ed esitate un po’, perché sapete che la lettura non sarà come la ricordate e come ve la aspettate. Dopo tutto può darsi che il libro non vi piaccia nemmeno, o che non sia quello che credevate. Magari il brano che ricordate riguardava un aspetto marginale o un personaggio secondario – per cui state per leggere tutt’altro. betty smith, un albero cresce a brooklyn, libri, letture

Il discorso non è completamente privo di riferimenti a fatti o persone reali: ho appena caricato sul mio Kindle un ritrovamento: A Tree Grows In Brooklyn, di Betty Smith, di cui ricordavo un brano letto su un’antologia venticinque anni fa. S’intitolava Francie e i libri. Me lo ricordo con una certa precisione – la biblioteca dove Francie prendeva in prestito le sue letture, i nasturzi così belli che guardarli le faceva male, il piccolo vaso panciuto per la colla, il nascondiglio per leggere, la coppa di vetro blu incrinata per le caramelle alla menta bianche e rosa, l’assenza del bambino dei vicini che giocava sempre “al funerale” seppellendo insetti nelle scatole da fiammiferi… Francie aveva deciso di leggere tutti i libri della biblioteca, e ne prendeva a prestito uno ogni giorno – due al sabato. E da quando aveva scoperto Amore mio se fossi re, una biografia romanzata di François Villon, lo riprendeva ogni sabato per rileggerlo. Aveva persino cominciato a copiarlo a matita su un quadernetto da 2 cents, ma non era lo stesso. All’epoca avevo persino trovato un nascondiglio per leggere, e le caramelle di menta bianche e rosa da tenere in una coppa di vetro. E so di avere assorbito un modo di dire da quella pagina…

Ecco, adesso ce l’ho, il libro. Il libro che mi ha influenzata senza che lo abbia letto per davvero. Adesso ce l’ho – originale, formato ebook – e sono pronta a leggerlo. Sto per conoscere Francie Nolan per davvero, dopo che, per un quarto di secolo, l’ho ricordata per Villon e le caramelle alla menta. Vi farò sapere.

E già che ci siamo: qualcuno ha idea di che cosa possa essere un lavoro teatrale tradotto dall’Inglese, in cui una giovane donna, dopo la sua morte, ottiene di poter tornare per una giornata con i suoi cari, nonostante le altre anime glielo sconsiglino caldamente? E quando è tornata, scegliendo un giorno di compleanno, è terribile, perché i suoi famigliari lo vivono come era accaduto a suo tempo, senza dare ascolto alla protagonista che li prega di rallentare, di godersi ogni momento, di non dare per scontato la serenità e l’affetto… Avete idea?

E voi? Non avete qualche Libro Perduto? Il lontano ricordo, o l’impressione, o il pezzetto di un libro che non riuscite a identificare?

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Oh, e semmai fosse venuta la curiosità anche a voi…

 

 

Apr 15, 2011 - memories, tecnologia    Commenti disabilitati su Elogio Del Temperamatite Rosso

Elogio Del Temperamatite Rosso

Il mio Temperamatite Rosso mi sta abbandonando.

Il mio Remperamatite Rosso è un arnese ereditario, arrivato dall’Austria almeno venticinque anni fa. Non è uno di quei parallepipedi di plastica o metallo con un buco e una lama, grandi come la falangetta del mio pollice. Il mio Temperamatite Rosso è grosso come un brick di panna da cucina, con una manovella, una piastra scorrevole anteriore che si estrae per regolare la temperatura, due orecchie metalliche per aprire e chiudere la molla che tiene ferma la matita, e un cassettino trasparente per i trucioli.

Il mio Temperamatite Rosso, Made in Germany, ha un nome che sembra quello di un’astronave: Dahle 122. Francamente, vista l’invereconda macchinosità del meccanismo, lo trovo appropriato.

Il mio Temperamatite Rosso, quando ero piccola, non avevo il permesso di usarlo – e non avete idea di come lo concupissi. Fa delle punte spettacolari, da farci harakiri, e lascia il legno della matita setoso e liscio. Una specie di santo graal della temperatura di matite. Però si considerava (o meglio: mio zio, proprietario originario del TR considerava) che non possedessi la manualità necessaria a calibrare grado di estrazione della piastra, inserimento della matita e quantità esatta di forza da applicare alla manovella. Mio zio era un ingegnere, enough said. E tuttavia, questa supposta Conoscenza In Astratto, questa sorta di Orecchio Professionale necessari per usare il Temperamatite Rosso lo rendevano ai miei occhi una specie di Stradivari dei temperamatite.

Crescendo non ho avuto il permesso di usare il Temperamatite Rosso: ho cominciato a usarlo di nascosto, ma sempre con una specie di reverente e colpevole delizia. Oh, come tagliava bene! Oh, che punte perfette! Oh, l’appagante sensazione di imparare per tentativi ed errori l’uso ideale della manovella! Oh, i deliziosi piccoli trucioli arricciati! A un certo punto ho ricevuto in regalo un temperamatite automatico giallo. Questo non ha maiuscole, noterete: era cilindrico, somigliava a un piccolo frullatore, pesava come un demonio, consumava pile con l’allegra incoscienza della corte di Maria Antonietta, faceva tanto rumore da far sobbalzare i gatti e rompeva più punte di quante ne appuntisse. Niente finesse, niente a che vedere – neppure da lontano.

Il mio Temperamatite Rosso divenne mio una dozzina d’anni fa, in un periodo non propriamente ideale – quando temperare le matite appena arrivata in ufficio nel gelo mattutino delle sette meno un quarto, era un rituale consolante come e più della seconda tazza di tè. Per segnare l’acquisizione attaccai al fianco del TR un’etichetta che riportava una citazione di Charlotte Bronte scritta rigorosamente a matita. E’ il punto di Shirley in cui Robert prepara le matite per Caroline:

“I suppose you like a fine one?”

“Such as you usually make for Hortense and me, not your own broad points.”

Ripensandoci ad anni di distanza, dev’essere lo scambio di dialogo più stupido di tutto il libro: se Robert prepara le matite usually, che bisogno ha Caroline di spiegargli come le vuole? Dialogo espositivo: orrore, orror! Ma allora ero ansiosa di brontizzare il mio Temperamatite Rosso. Me lo faceva sentire più mio.

Poi, quando lasciai l’ufficio, il TR migrò insieme a me, continuando a prestare servizio punta dopo punta, matita dopo matita, anno dopo anno.

Adesso il mio Temperamatite Rosso dà segni di stanchezza, e non mi ci so rassegnare. Probabilmente le lame sarebbero da affilare, ma dubito che sia possibile. E così, dopo un quarto di secolo, dovrò rassegnarmi all’idea di cercarmi un altro temperamatite. Forse potrei procurarmente un altro uguale, anche se non sarebbe facile: cercando un’immagine per illustrare questo post, scopro che si tratta di un temperamatite professionale, che il modello 122, entrato in produzione nel 1967, ormai è fuori commercio e gli esemplari rossi e neri si vendono su eBay come pezzi da collezione…

Quindi dopo tutto il mio Temperamatite Rosso è un esemplare da collezione di temperamatite professionale, e forse mio zio non aveva tutti i torti, a suo tempo… ma il punto è: se anche riuscissi a procurarmene un altro, non sarebbe più il mio TR, quello che ho concupito lungamente, usato di nascosto, brontizzato, portato a casa con me.

E in fondo è giusto, perché è l’irripetibilità a rendere unici e significativi persino i temperamatite. Ma adesso che Dahle 122 va in pensione, chi mi tempererà le matite così aguzze, e liscie, e perfette?

Libri d’Infanzia

lullabyeland1.jpgUna spedizione in soffitta ha riportato alla luce il libro più amato della mia prima infanzia: Mimmo nel Paese della Ninna Nanna.

Il libro era già vecchio quando io ero piccina: prima che mio era stato di mia madre e di mio zio, che avevano colorato con le matite le illustrazioni in bianco e nero. Fra tutti e tre dobbiamo avergli fatto fare parecchio servizio, povero librino: ha perduto la costa e la copertina posteriore, ma la rilegatura cucita era di buona qualità, visto che è perfettamente solida. Non so dire quale sia stato il mio ruolo in tutto questo tear&wear, ma mi pare di ricordarlo così fin da allora, quando mi sembrava un libro enorme e abitava in uno scaffale specialissimo della libreria…

Ero affascinata dall’atmosfera sognante e surreale, dai colori meravigliosi dei cieli stellati e delle colline di coperte imbottite, e forse più di tutto dall’Uomo del Sonno, che faceva addormentare tutti con la sabbia magica del suo sacco. Fosse stato per me, me lo sarei fatto leggere e rileggere (e poi l’avrei letto e riletto) all’infinito.

Per fortuna, la mia meravigliosa nonna aveva idee diverse: al Paese della Ninna Nanna si accedeva soltanto in occasioni particolari, lontane tra loro, alcune rituali (attorno al mio compleanno, per esempio), altre del tutto inaspettate, in premio per qualcosa, quando c’era bisogno di consolazione o magari per coronare una giornata perfetta. Nonna aveva molti talenti, tra cui quello di rendere unici posti, situazioni, momenti e… libri. Era lei a popolare il nostro giardino e gl’immediati dintorni di personaggi fiabeschi (per esempio, lo sapevate che l’Uomo del Sonno si procurava la Sabbia Magica nel nostro orto, nell’aiuola dei carciofi, e solo nel breve periodo in cui Nonna ne lasciava fiorire qualcuno?), era lei a mescolare, intrecciare e cambiare le storie che mi raccontava, e a incoraggiarmi a fare altrettanto, era lei a trasformare persino un’attesa dal veterinario in un’avventura, era lei a insegnarmi che sono l’unicità e la caducità a rendere preziose le cose. E’ stata lei – con l’attiva collaborazione dell’allora non ancora Colonnello – a fare di me una scrittrice.

Ma torniamo a Mimmo nel Paese della Ninna Nanna. Ho fatto qualche piccola ricerca in rete, scoprendo che il libro, originariamente una Silly Simphony di Walt Disney, è stato edito in Italia da Mondadori nel 1944*. Non sono riuscita a scoprire l’autore della deliziosa, tenera traduzione, e sarei grata a chi me lo sapesse segnalare. Ci sono trentotto illustrazioni, circa un terzo delle quali a magnifici colori. Quelle in bianco e nero sono state colorate a matita – suppongo da mio zio e mia madre, perché io sono sempre stata incapace di colorare “dentro i bordi”. Ci sono anche alcune canzoni con musica e testo – tratti, suppongo dal cartone animato originale.

Ho sfogliato per bene, riletto da cima a fondo, guardato le illustrazioni una per una, ritrovato l’Albero dei Piumini da Cipria, Fido il Cane di Pezza, il Giardino Proibito, i braccialetti tintinnanti della mamma e naturalmente il mio vecchio amico: l’Uomo del Sonno. Adesso il libro prenderà posto in uno scaffale della libreria, da cui uscirà molto raramente, in obbedienza ai vecchi e saggi principi. Perché sono certa che, se tanti anni fa avessi avuto il permesso di guardarlo ogni giorno, ritrovare questo libro adesso sarebbe stato molto meno emozionante.

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* Il che implica un piccolo mistero famigliare, visto che una pagina riporta un’annotazione di una cugina, datata 28 marzo 1937!

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