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Mar 30, 2015 - memories, pennivendolerie, tecnologia    Commenti disabilitati su Backup! Backup! Backup!

Backup! Backup! Backup!

Floppy1Vent’anni fa o giù di lì – al tempo dei floppy disk* – a un certo punto mi capita per le mani una deliziosa scatolina metallica piatta e quadrata.

“Oh,” cinguetto tra me e me. “Sembra fatta apposta per metterci un singolo floppy!” E il singolo floppy che ci piazzo dentro contiente – tenetevi forte – l’unica copia della seconda stesura di un romanzo. Unica. Copia. In una scatoletta di metallo.

Quando estraggo l’arnesino dalla sua graziosa casetta nuova e lo inserisco nel portatile, il portatile fa spallucce. Ri-inserisco, e nulla accade. Riprovo ancora, ancora e ancora – alla maniera di chi spera di svegliarsi da un momento all’altro e scoprire che era tutto un brutto sogno… Ma naturalmente no. Il floppy è diventato invisibile.

È estate, e il San Tecnico è in vacanza, così rimetto il povero floppino egro nella scatoletta di metallo e mi scapicollo in città, nell’unico negozio d’informatica che conosco. Dentro c’è il titolare, che era a scuola con mia madre, e c’è qualche implume che traffica con il computer. Il titolare ascolta le mie spiegazioni sconnesse e affida il floppy a un implume, con l’istruzione di vedere cosa può farci. L’implume, che è impegnato in tutt’altro, prova a inserire, fa spallucce, estrae e restituisce al titolare.

“Smagnetizzato,” mugugna – e torna ad occuparsi degli affari suoi.

“Ma…” balbetto io, con un vago senso di caduta verticale. “Ma non si può recuperare quel che c’è dentro?”

Il titolare, forse temendo una crisi di pianto, guarda con qualche severità l’implume – il quale fa spallucce di nuovo.

“Se è smagnetizzato, è smagnetizzato,” sentenzia a mezza bocca. Con l’altra metà sta sghignazzando con il suo altrettanto acerbo compare, seduto al computer accanto. Se potessi, strangolerei volentieri entrambi.Floppy3

Il titolare mi restituisce il floppy. Se non altro, ha l’aria dispiaciuta, mentre mi spiega che non c’è niente da fare – cosa che avevo già afferrato da me. Tolgo dalla borsa la scatoletta e la apro per rimetterci il floppy…

“Ma…” il titolare fa tanto d’occhi. “Non lo tiene lì dentro, vero?”

Io annuisco mestamente. Prima era una casetta, adesso è una piccola tomba…

“Ma è di metallo!”

Io sgrano gli occhi. “Sì… di latta verniciata. Anni Cinquanta…”

Il titolare chiude gli occhi un istante, e poi mi spiega: metallo, robe magnetiche… “Ma non era l’unica copia, vero?”

Oh dear.

Ri-caduta verticale: il floppino è defunto, la tecnica non può nulla, gl’info-implumi sono un bunch di gente senza cuore, ma l’assassina… la floppicida sono io. Io con la mia dannatissima scatoletta di latta verniciata anni Cinquanta. Saluto il titolare – e vedo che è ancora preoccupatissimo. Tsk. Per chi mi prende? Sono forse una che va a pezzettini nei negozi? Io non sono così. Io torno in macchina, e solo quando sono chiusa dentro mi faccio un bel pianto sulla dipartita della mia seconda stesura. Unica copia.

E piango sul volante finché un altro automobilista non suona il clacson per farmi capire che aspira al mio parcheggio… Senza nessun riguardo per la mia tragedia in corso. I mean, per quanto ne sa lui, potrebbe essere una tragedia vera e propria – e comunque, mai sottovalutare la portata di una stesura perduta, con l’aggravante della stupidità attiva.

E questo accadeva vent’anni orsono o giù di lì, e ha l’aria della lezione che non si dimentica, vero?

Floppy2E invece no. Ancora adesso il backup resta una di quelle buone idee che non metto mai in pratica. Oggi pomeriggio, domani, quando torno, lunedì… Mai adesso. E il risultato è che ogni tanto mi perdo cose rilevanti – inghiottite dal buio nell’uno o nell’altro crash, cancellate per errore o semplicemente irreperibili per settimane quando a un computer pare bello andare in deliquio…

No, be’ – un progressetto me lo riconosco: ho imparato a conservare quello che sto scrivendo in copie multiple. Una in ogni computer, una su ciascuna chiave USB… È già qualcosa, ma non è come se lo facessi abbastanza spesso. Lo faccio una volta e poi, come per il pane tostato nel forno, mi sento a posto con la coscienza. Di solito, quando torno a ricordarmene, il pane è carbonizzato da una parte e il povero hard disk giace insensibile.

Perché vi dico tutto questo?

Per via di questo post su Karavansara, sostanzialmente. Perché l’osservazione della sventura altrui, combinata al ricordo della propria, dovrebbe funzionare da sprone verso la lungimiranza. Perché quando succede, è troppo tardi. Perché magari sono l’unica che persevera nella propria allegra e pigra imprevidenza – ma il grido di oggi si è, o Lettori: Backup! Backup! Backup!

Hurrà!

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(E v’interesserà sapere che, mentre scrivevo questo post, Firefox si è chiuso senza preavviso… E io non avevo mai salvato… Fortuna che WordPress ogni tanto lo fa da sé.)

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* Non avete idea di quanto mi senta vecchia nello scrivere questo genere di cose…

Mar 25, 2015 - pennivendolerie, Somnium Hannibalis    Commenti disabilitati su Di Titoli E Catastrofi

Di Titoli E Catastrofi

Book-TitleLo so, ne abbiamo già parlato… Più di una volta, probabilmente.

Ma questo post si deve a una combinazione di cose: questo post su Karavansara e l’approssimarsi della scadenza del contratto per Somnium Hannibalis.

Perché il fatto è che presto il Somnium sarà completamente mio di nuovo – mio da risistemare e ripubblicare in formato elettronico, e non c’è modo di negarlo: prima di tutto gli ci vorrà un altro titolo.

Un titolo che non spaventi via i lettori.

Dovete sapere che, a suo tempo, la faccenda andò così. Il mio titolo provvisorio era… sedetevi, per favore: non vorrei che la mia sconcertante originalità vi levasse il respiro. Seduti? Bene: il mio titolo provvisorio era Annibale.

No, davvero. E che c’è di male? Era estremamente appropriato, sintetico e significativo al tempo stesso.

Peccato che un sacco di gente ci avesse già pensato prima di me, sia in fatto di romanzi che di biografie. Prova inconfutabile, se lo chiedete a me, che è proprio un buon titolo – ma lo ammetto come lo ammisi allora: volere qualcosa di meno “visto” non era del tutto irragionevole da parte dell’editore.

Così mi misi all’opera per cercarne un altro – e furono giorni e giorni di liste, strologamenti, brainstorming… Volevo qualcosa di significativo, possibilmente provvisto di più di uno strato di senso, semmai con una citazione letteraria. E non trovavo nulla. Nulla di adatto. Nulla che non richiedesse un’estensione a fisarmonica della copertina, quanto meno…

E poi, in un momento di quella che scambiai per ispirazione, mi albeggiò in mente: Somnium Hannibalis.

Perché in fondo al centro di tutto c’era il sogno irrealizzabile di Annibale. Perché c’era il parallelo con il Somnium Scipionis di Cicerone…

“E in quanti credi che se ne accorgeranno?” mi si chiese profeticamente. E io… io scrollai le spalle, e andai avanti con criminale incoscienza. E a questo punto, però, devo distribuire una parte del biasimo anche a editore e agente. Perché io potevo essere allegramente incosciente – ma loro? Avrebbero dovuto dissuadermi con ogni energia, e invece fecero tra nulla e non granché. CopSomnium4-1

L’editore insisté per aggiungere il sottotitolo “L’ultimo dei Barca, la cenere e il sangue”, che ad essere sinceri mi sembrava (e mi sembra) melodrammatico… Ma era un caso evidente di cecità selettiva. Mi preoccupavo del sottotitolo vagamente purpureo, e non vedevo il catastrofico titolo in Latino. O meglio, lo vedevo eccome – ma mi sembrava una buona idea.

Un titolo in Latino, capite?

Con una citazione di commovente oscurità, destinata a non dire granché parte dei lettori.

E, temo, a suonare pretenziosa a chi l’avesse riconosciuta.

Non è che fosse un brutto titolo in assoluto, sia chiaro. Era solo ostico, pretenzioso e snobbish – adorabile combinazione – e nessuno mi ha fermata sulla via del disastro. E non è del tutto vero: qualcuno ci ha provato, solo che io non ho ascoltato.

A posteriori, sono certa che la cosa abbia nuociuto non poco al romanzo e alle sue vendite – ma ormai è fatta, e consideriamola pure una dolorosa lezione. Sei anni più tardi, ho imparato dal mio errore – o almeno spero. Anche perché magari non nell’immediatissimo futuro, ma presto dovrò trovarne un altro, di titoli. Un titolo significativo, sintetico, magari provvisto di più di uno strato di senso.

E in Italiano, thank you very much.

Sono ufficialmente a caccia.

Parliamo Di Copertine

874e60f3acab015725db5ef9c23be48aAvete mai pubblicato – o avuto intenzione di pubblicare – un ebook? E allora, odds are che vi siate trovati davanti alla maiuscola questione della copertina.

Ah, la copertina.

Il primo strumento di vendita, la faccia del libro, l’arnese che deve catturare l’attenzione del potenziale lettore fin dal momento in cui è solo un thumbnail fra decine di altri thumbnail…

E tutti siamo stati tentati di dire: E che ci vuole? Chi fa da sé fa per tre, giusto? Ci si arma di Photoshop o qualcosa del genere, si cerca uno di quei siti di immagini stock – ed è fatta.

E però tutti abbiamo anche ripetutamente sentito o letto che nulla assassina le possibilità di un ebook come una copertina dall’aria dilettantesca. Proporzioni sbagliate, fonts un po’ così, o illeggibili, o combinati male, o inadatti al genere o all’immagine… Se bbiamo scritto qualcosa e lo abbiamo pubblicato o vogliamo pubblicarlo elettronicamente, diamo per scontato di essere anche degli avidi lettori – e siamo sinceri: quante volte abbiamo rabbrividito davanti a una copertina un po’… così?

Perché il fatto è, si direbbe, che non bastano una bella immagine e decine di font a disposizione. Bisogna avere un’idea di quel che si fa. La soluzione ovvia è che là fuori ci sono legioni di bravi grafici che sanno quello che fanno. Se ne trova uno e ci si affida. Ma la soluzione ovvia, naturalmente, è anche quella costosa – perché un bravo grafico, come è giusto, non lavora per nulla – e questi sono tempi di vacche magre. E per di più, come si scova tra i tanti un grafico davvero bravo che abbia tempi ragionevoli, con il quale si possa discutere e il cui lavoro sia adatto a quel che abbiamo scritto? Oh, ci si riesce – ma il processo può essere lungo e frustrante, e contempla un certo margine di trial & error. ggg

E allora? Ci sono modi per limitare i rischi dell’opzione fai-da-te?

Be’, vi dirò che ieri ho scoperto Canva. Premetto che ci sono arrivata tramite Guy Kawasaki – dunque possiamo dire che l’arnese ha buone referenze. Ma di che si tratta, di preciso?

Ebbene, Canva è un sito che, tramite un’interfaccia molto intuitiva e una sterminata collezione di immagini e templates, vi consente di mettere rapidamente insieme una copertina, del materiale da social network, una locandina e altre cose utili. Ieri ci ho giocato un paio d’ore, e mi pare che l’insieme bilanci piuttosto bene tra possibilità e guida. È possibile scegliersi un template e seguirlo, con la ragionevole certezza di non fare nulla di troppo tacky, oppure si può modificare quel che c’è, o partire from scratch. Si possono manipolare le immagini (davvero tante e a buon mercato), oppure caricare le proprie… Forse non c’è spazio per enormi voli di fantasia, ma i margini di manovra sono ragionevoli. Di buono c’è anche che il risultato viene salvato automaticamente con le dimensioni e le specifiche richieste da KDP – ma si può impostare secondo i parametri di altre piattaforme. E per chi volesse qualche dritta, ci sono anche numerosi tutorial chiari e sensati.

Insomma, Canva è la soluzione ideale e definitiva?

Be’ no – e di sicuro non da solo. Canva offre buoni suggerimenti e ne facilita enormemente l’applicazione in un modo solo parzialmente standardizzato – ma in sostanza fa quel che noi gli diciamo di fare. E quel che va davvero fatto per catturare l’attenzione, per spiccare senza eccessiva eccentricità e senza confondere… ah, quello è un cavallo di tutt’altro colore.

12-06-13_bookcover08Per quello non c’è scorciatoia: bisogna studiare la concorrenza, spulciare Amazon, Goodreads, Pinterest e posti simili in cerca di copertine elettroniche, scoprire che cosa va nel nostro genere, tenere presente che una copertina elettronica non è una copertina cartacea, e il lettore la vedrà per la prima volta grande come un francobollo… Due o tre suggerimenti: tenete d’occhio anche le copertine del mercato anglosassone, perché là l’editoria elettronica e il self-publishing sono più sedimentati, seguite qualche blog o sito di grafica, e mettete insieme una collezione (una cartella, una bacheca su Pinterest…) di copertine che vi piacciono davvero – e che potrebbero adattarsi al vostro genere.

E poi, quando vi siete fatti un’idea, allora Canva può funzionare.

 

Mag 30, 2014 - concorsi, considerazioni sparse, pennivendolerie    Commenti disabilitati su Nel Frattempo, Alla Fattoria…

Nel Frattempo, Alla Fattoria…

Tornata, o Lettori!

E questa volta per davvero.

Mi siete mancati, sapete? Adesso, piacendo alla divinità dei blog, torniamo ai ritmi di pubblicazione normali – cominciando da oggi. E per oggi vediamo di ricapitolare brevemente che cosa è successo in queste tre settimane di naufragio.

Allora, mentre ero spiaggiata, in realtà, non mi sono esattamente annoiata, e anzi: sono successe diverse cosette. Alcune le sapete già, grazie all’occasionale piccione viaggiatore che sono riuscita a mandare this way…

anitagaribaldi3I. Di Aninha, per esempio, sapete qualcosa: nonostante la bonaccia innaturale, tutto è andato bene… o forse non era poi così bonaccia – né, di conseguenza, così innaturale – perché turns out a posteriori che la Primadonna, la bravissima Giulia Bottura, era tesa, agitata, nervosa e terrorizzata come un quarantaquattro gatti cui qualcuno  avesse pestato tutte le code allineate in una volta. Quindi si potrebbe dire che G. ci abbia salvati, immagino… On a personal note, forse vi ho detto che il signore delle luci del teatro Italia è stato così gentile da affidarmi completamente la sua preziosa consolle, consentendomi di giocarci liberamente, e ciò è stato molto bello e istruttivo – anche perché la consolle stessa era una creatura ragionevole e non tanto complicata da intimidire. E l’ho già detto quanto è incantevole il piccolo Italia, gioiellino liberty degli anni Venti, costruito con grazia e buon senso e riguardo per le esigenze di una compagnia piccola… Ah!

II. Quel che non sapete, perché non sono riuscita a comunicarlo, è che la sera del 23 il gruppo Ad Alta Voce si è prodotto in un incontro fuori programma, in collaborazione con un gruppo di simpaticissimi scout locali tra i 16 e i 19 anni – membri della Pattuglia Sturm und Drang. Il tema, scelto dai ragazzi, era la libertà – e si è letto un po’ di tutto, dalla Leggenda del Piave ad Allen Ginzberg, da Seneca a Pietro Citati… Interessante esperienza, ed eminentemente ripetibile – magari da rodare un pochino, accendere un po’, oltre al confronto, anche la discussione. Ne riparleremo.

III. Di Pisa un po’ sapete. Quel che non sapete è l’odissea ferroviaria per arrivare fin Laggiù. Mi si dice che incappare in una simile collezione di ritardi personali, ritardi istituzionali, elezioni (proprio non avevo calcolato questa evangelicissima migrazione amministrativa), sconti promozionali e casi misti assortiti non è da tutti – ed è possibile che sia abbastanza vero. Dopo tutto, quattro treni persi in un giorno solo devono essere quasi un record, giusto? Poi però Quieta Movere, il secondo posto e un certo numero di possibili contatti allacciati e sviluppi potenziali hanno giustificato tutto.

IV. Novità nuova è che tra luglio e agosto terrò due incontri shakespearian-marloviani nell’ambito delle Serate in Giardino di Casa Andreasi, organizzate dall’attivissima Associazione per i Monumenti Domenicani di Mantova. Casa Andreasi è un bellissimo luogo, e il giardino è un vero giardino rinascimentale… Se non per sentire me, vale la pena di venire anche soltanto per vedere il posto. Le mie date, ve lo anticipo, sono il 23 luglio e il 2o agosto, ma ve lo ricorderò – oh, se ve lo ricorderò! – e vi darò dettagli sul programma per intero.James Crichton Caption : THE ADMIRABLE CRICHTON.

V. Mercoledì pomeriggio, a Milano*, sono stata ospite delle sorelle Spinelli, nel bellissimo vecchionuovo Atelier Cartesio. Annidato in un bel cortile di Corso Garibaldi, Marina e Grazia hanno creato uno spazio davvero ideale, e hanno anche messo in mostra (gasp!) un tomo dell’edizione ciceroniana di Aldo Manuzio il Giovane… Quella parzialmente dedicata all’Ammirabile Critonio – di cui forse abbiamo parlato in abbondanza e forse no. Ed è qui che sono entrata in scena io per una chiacchierata su James Crichton, Aldo il Giovane, i Gonzaga e una manciatina di altri. Bellissima esperienza destinata ad avere seguito – e vi anticipo che anche di questa gente, e del mio romanzo che ne parla, potete rassegnarvi a leggere ancora in un prossimo futuro.

VI. Ieri sera c’è stato una sorta di pre-debutto di Borgocultura, associazione nuova di zecca, con un sacco di grandi idee e progetti ambiziosi. Riusciremo a realizzare quel che ci prefiggiamo? Lo dirà il tempo… -empo… -empo… Nel frattempo, ieri sera il bravissimo Giacomo Cecchin ci ha incantati tutti con una brillante, coltissima e intelligente conferenza su “Il Marketing del Monaco”, ovvero il modo in cui un’abbondante presenza monastica ha plasmato lo sviluppo urbanistico di Mantova. Anche di Borgocultura sentirete parlare ancora.

E scusate se è poco…

Maggio è stato un mese interessante. Giugno è alle porte  – stiamo a vedere che succede. E voi? Che avete fatto mentre non guardavo?

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* E anche qui, odisseuzza ferroviaria, viaggiando sulla cuspide tra guasti apocalittici alla linea e sciopero dei trasporti. In qualche modo siamo riuscite ad arrivare (in ritardissimo) e a ripartire – il che non era poi del tutto scontato, visto che tutto attorno si cancellavano treni come se piovesse…

 

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E Di Che Cosa Parla Il Tuo Libro?

Questo procede direttamente da ieri sera, dalla vivacissima quarta lezione di Gente nei Guai 2. Perché come dicevo alle mie deliziose ragazze…

Prima o poi ve lo chiedono, oh se ve lo chiedono.

Ve lo può chiedere l’amica di un amico a cui è stato detto che “scrivete”, oppure ve lo può chiedere il vicino di posto in aereo, vedendo che per tutto il tempo scribacchiate nel vostro taccuino. Oppure, ve lo chiede lo scrittore che tiene il seminario sulla caratterizzazione, o l’editor incontrato alla fiera del libro…

E allora voi annaspate, e cominciate a dire che sì, er… è unAnnibalea storia… in pratica, ecco, c’è Annibale Barca. Insomma, si può dire che sia una rinarrazione della II Guerra Punica vista… dunque, premessa: quando Annibale fugge da Cartagine… ah, perché stiamo parlando di dopo Zama, molto dopo Zama, e quindi… er… fugge da Cartagine e Antioco III gli offre asilo… Antioco III è il re seleucide di Siria, no?

E a questo punto vi siete già persi l’interlocutore per strada – lo capite dall’occhio vitreo e/o dal fatto che la domanda successiva è se pensate che quell’aperitivo verde al buffet sia analcolico.

D’altro canto, neanche rispondere laconicissimamente “Annibale Barca. II Guerra Punica,” è l’ideale per avvincere l’interesse del prossimo.

E allora?

Se lo chiedete a un Anglosassone, vi dirà che bisognerebbe saper riassumere il proprio libro in trenta parole – mantenendone il sugo e l’unicità distillati in una sola frase. Più facile a dirsi che a farsi, naturalmente. E però, prendendo il limite delle trenta parole per quello che è, resta l’incontrovertibile fatto che con una frase sola è difficile annoiare un interlocutore o perderlo. Senza parlare del fatto che una singola  frase compatta, vivida e brillante tende a colpire più di una conferenza estemporanea sugli equilibri politico-militari del Mediterraneo alessandrino.

Holly Lisle chiama questa sinossi iperconcentrata The Sentence, e fa notare anche un altro particolare non trascurabile: The Sentence è uno strumento promozionale perfetto, a cominciare dalla lettera accompagnatoria del manoscritto. Ed essendo Holly, offre anche una formula pratica per costruire The Sentence in tutti i suoi aspetti fondamentali:

Protagonista + Antagonista + Conflitto + Ambientazione + Tratto Singolare.

Tenete conto del fatto che l’Antagonista non deve necessariamente essere una specifica persona cattiva, che uno o più elementi (tranne il Protagonista) possono essere impliciti e che il Tratto Singolare è ciò che caratterizza la storia e la rende unica.little-red-riding-hood-tehrani-anthropology_73840_600x450

Una bambina disobbediente sfida le astuzie di un lupo malvagio per soccorrere la nonna all’altro capo della foresta.

Ecco che la mia ossessione per Cappuccetto Rosso torna a galla… Allora, la nostra Protagonista è la bambina disobbediente; l’Antagonista, va da sé, è il Lupo Malvagio e astuto; il Conflitto è così concepito: CR vuole arrivare dalla nonna e il Lupo vuole divorare entrambe; l’Ambientazione è la foresta; il Tratto Singolare è implicito nell’antagonista-animale parlante e nella disobbedienza della bambina: abbiamo a che fare con un exemplum fiabesco.

Una capricciosa bellezza del Sud mente, ruba, truffa e uccide in una disperata ricerca di felicità, amore e sicurezza nel turbine della Guerra di Secessione.

Via Col Vento non ha un antagonista umano: Rossella (Protagonista) lotta con le unghie e coi denti per salvare sé stessa, i suoi, il suo tenore di vita e la sua felicità (Conflitto) mentre tutto le crolla intorno a causa della guerra (Antagonista). L’Ambientazione è il Sud confederato, e il Tratto Singolare consiste nel fatto che Rossella non è una tenera eroina, ma una piccola belva spregiudicata, egoista e manipolatrice. Il suo fascino, la sua vulnerabilità e l’universalità delle sue esigenze drammatiche fanno sì che il lettore possa identificarsi in lei anche se non è particolarmente simpatica: chi non vuole felicità, amore e sicurezza?

Il vecchio esule Annibale Barca manipola un riluttante Re di Siria per spingerlo ad unirsi alla sua lunga guerra contro la potenza schiacciante della Roma repubblicana.

Dove si vede che la formula può essere adattata: i livelli sono due con alcuni elementi in comune: un Protagonista (Annibale) due Antagonisti (Re Antioco e Roma), due Conflitti (la manipolazione e la guerra), un’Ambientazione (il Mediterraneo del II Secolo a.C.) e un Tratto Singolare: la narrazione in III persona è la cornice e la chiave della narrazione in I persona di Annibale, così come il Conflitto B (Annibale/Roma) è la chiave del Conflitto A (Annibale/Antioco).

In generale, quando non si riesce ad individuare il Protagonista, l’Antagonista e il Conflitto di una storia è il caso di preoccuparsi almeno un pochino, ma ci sono libri che non si prestano a questo trattamento, semplicemente perché non sono concepiti per avere un protagonista, un antagonista e un conflitto. E’ il caso di molte opere metaletterarie, che decostruiscono deliberatamente gli schemi narrativi. Lasciatemi essere di nuovo autoreferenziale: ne Gl’Insorti di Strada Nuova, la storia risorgimentale di fondo ha sì tutti i suoi ammenicoli narratologici, ma non sono l’aspetto rilevante del libro. Potrei dire che:

PreBozzaNella Pavia del 1848 tre giovani universitari mettono in gioco le loro vite nello sfortunato moto di ribellione contro la dominazione asburgica,

ma sarei ben lontana dall’avere descritto il libro, il cui punto focale è la piccola folla di lettori… E allora, quando mi chiedono di che cosa parli Gl’Insorti ho imparato a rispondere qualcosa come:

I moti antiaustriaci nella Pavia del 1848 sono narrati obliquamente attraverso le reazioni di venti lettori alla lettura di altrettanti capitoli di un romanzo storico fittizio.

Qui probabilmente Holly Lisle (e con lei ogni singolo insegnante di scrittura creativa) mi bacchetterebbe per avere incentrato la mia Sentence su una forma verbale passiva… Oh, va bene, allora:

Venti lettori immaginari – ma tanto veri – leggono, immaginano, ricostruiscono, raccontano, adorano e detestano un romanzo storico fittizio, tragica storia di studenti ribelli ed oppressori austriaci nella Pavia risorgimentale.

E alla fin fine, guardate un po’, ci risiamo: c’è un Protagonista (gli studenti), c’è un Antagonista (gli austriaci), c’è un conflitto (oppressione & ribellione), c’è un’ambientazione (Pavia risorgimentale), e la mia struttura metanarrativa diventa il fondamentale, unico, irripetibile Tratto Singolare. Tra parentesi: 28 parole, somiglia al mio libro e c’è qualche seria possibilità che incuriosisca l’interlocutore.

Vale la pena di spenderci qualche pensiero prima della prossima volta in cui ve lo chiederanno: di che cosa parla il vostro libro?

 

 

 

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E Vedi Di Mentirmi Per Bene

Non è come se fosse la prima volta che ne parliamo, ma in questi giorni varie cose sono capitate a farmi rimuginare di nuovo sulla questione di arte & verità – che messa così suona terribilmente pretenziosa, ma abbiate pazienza mentre rimugino.

Varie cose, vi dicevo.

emilio salgari, odissea, carlotta sabatini, strategie evolutiveUna è stata una discussione con un attore che, in occasione di una rappresentazione all’aperto, voleva assolutamente scagliare davvero la freccia di Ulisse – you know, quella che passa attraverso gli anelli di dodici asce in fila. Ora, a parte l’atroce pericolosità di scagliare frecce in direzione casuale in un luogo affollato, a parte il fatto che l’attore in questione, pur appassionato d’arcieria, dubito sia capace di centrare una dozzina di anelli, il mio punto era un altro*: non c’era affatto bisogno della freccia. Il suo mestiere d’attore non è scagliare frecce vere, bensì far vedere al pubblico una freccia che non c’è.

Come ha detto G. La Regista in un momento d’ispirata esasperazione: “Quello che voglio da voi è solo verità nella finzione!”

Perché quello che succede sul palcoscenico è, signore e signori, finzione dipinta con colori di verità. Non è vero nemmeno per un momento – se non dentro il cerchio disegnato dal buon vecchio patto narrativo: raccontatemi una storia e, per il tempo che voi impiegate a farlo meglio che potete, tutti fingeremo che sia vero.

Ma l’efficacia e la bellezza della rappresentazione non hanno nulla a che vedere con quanto c’è di vero nell’interpretazione degli attori o di autobiografico nel testo.

Ci siamo fin qui?

O quanto meno dovremmo esserci – ma è un fatto che molti, troppi lettori** sono divorati dall’ansia di quel che c’è di vero in ciò che leggono e, specularmente di identificare l’autore con quel che scrive. emilio salgari, odissea, carlotta sabatini, strategie evolutive

Guardate Salgari che, per tutta la vita, ha millantato una captaincy di marina mercantile – mai conseguita, ma molto adatta all’autore di tante avventure marinare. “Navigò per sette anni… visitò quasi interamente tutti gli oceani,” recita la sua nota biografica nel catalogo dell’editore Cogliati per il 1898 – ed è tutto falso.

Questo rende per caso i romanzi di Salgari meno avventurosi o meno marinari? Ovviamente no, ma il grado e i viaggi fittizi, oltre ad appagare grandemente Salgari stesso, servivano al marketing editoriale, a sdoganare personaggio e libri. A tanti lettori, un Salgari terricolo sarebbe parso meno Salgari del supposto capitano di gran cabotaggio…

E per contro, leggete il guest post di Carlotta Sabatini su strategie evolutive, e le sue considerazioni amarognole su come sia facile essere etichettati in base a quello che si scrive – perché se si scrive narrativa erotica è chiaro che si è cattive ragazze, e se si scrivono romanzi storici è chiaro che si condividono i pregiudizi dei propri personaggi d’altri secoli. E quando voi provate a far notare che scrivere non consiste nell’aprirsi le coronarie e versarne il contenuto sulla pagina, di sicuro qualcuno inizierà a guardarvi con qualche grado di disapprovazione. Perché se è vero che non condividete le superstizioni medievali del vostro narratore in prima persona vissuto nel XIII secolo, allora dovete essere bugiardi. Avete mentito. Avete ingannato il lettore.  

E a questo proposito, badate anche… ok, badate a tutto il post, perché è interessante e istruttivo – ma badate in particolare all’elenco delle motivazioni per cui si scrive, soprattutto la voce n° 2:

perché proviamo piacere (fidatevi, sono un’esperta) nel mettere delle idee nella testa degli altri, e giocarci, giocare con loro, attraverso quelle idee

E a dire il vero, anche se non sappiamo di trovarci gusto, anche se non ci consideriamo consapevolmente dei manipolatori***, è quello che facciamo: usiamo mezzi tecnici al fine di produrre un effetto nel lettore. È, se ci pensate bene, l’essenza del nostro mestiere di narratori, perché potremmo limitarci a dire che il nostro protagonista va in battaglia e ne esce vivo per miracolo, ma per quello basta il sussidiario di terza elementare. Da narratori, quel che facciamo è descrivere la battaglia attraverso gli occhi del nostro protagonista – completa di colori, odori, rullar di tamburi, deflagrazioni, urla, schizzi di sangue e quant’altro. E per farlo usiamo tecniche descrittive per far immaginare la battaglia al lettore nel modo più vivido possibile.

Mezzi usati per ottenere un effetto.

Manipolazione.

emilio salgari, odissea, carlotta sabatini, strategie evolutiveNello stesso modo in cui un pittore manipola lo sguardo dell’osservatore con le linee, i colori e la prospettiva. Che diamine: l’occhio di cielo nella Camera Picta non è vero. Non c’è nessun putto arrampicato sulla balaustra, nessun cesto di verzura in bilico su un bastone… Vogliamo dire che Mantegna è un bugiardo manipolatore perché vuole che crediamo a una finestra circolare aperta sull’azzurro spazio e popolata di gente che guarda giù?

Però se uno scrittore dice questo genere di cose ad alta voce, si guadagna ulteriore disapprovazione – bugiardo e manipolatore…

Ma, chiedevo in un commento in coda al post di cui si diceva, se non si vogliono menzogne ben confezionate, se non si è disposti ad essere manipolati, se non si è pronti a farsi amabilmente condurre attorno, perché perché perché diavolo leggere narrativa, andare a teatro, andare al cinema?

Per passare il tempo, suggerisce sogghignando il padrone di casa – ed è una risposta legittima, seppure un nonnulla triste.

Ma mi vien da pensare che per passare il tempo siano ottimi anche il tennis, il piccolo punto, i francobolli e il ballo latinoamericano. O, se si è ansiosi di verità inadulterata, l’enciclopedia Treccani****…

A parte tutto il resto, non vi pare che ci sia qualcosa di sbagliato nel cercare affannosamente la verità nella narrativa che si fonda su un patto riassumibile in “E vedi di mentirmi per bene”? 

 

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* Col che non voglio dire che non fossi preoccupata della possibilità di un omicidio colposo in scena. Lo ero eccome – solo che, essendo tutte, ma proprio tutte le mie meschinissime competenze in fatto di arcieria derivate dall’uno o dall’altro romanzo, è stato subito chiaro che in materia non avevo un briciolo di standing.

** Lettori e theatre goers, ma per snellezza parleremo di lettori.

*** Personalmente ci trovo un gran gusto e mi considero una manipolatrice per mestiere – ma si sa che sono cinica…

**** Niente battute, grazie. Sono certa che anche la Treccani possa sbagliare all’occasione – ma lasciatemi la mia ingenua fiducia nel fatto che l’estensore medio e sano di mente non estenda lemmi deliberatamente menzogneri e manipolatori.

Mar 14, 2013 - pennivendolerie    2 Comments

PBD

Solo per dire che XYZ è partito in cerca di fortuna.

A qualche ora dalla scadenza del termine – perché sennò non siamo contenti.

Wish me luck.

The Circle Review

Vi ho mai detto che SEdS fa parte di un ring chiamato Il Circolo delle Arti, fondato un po’ più di due anni fa da Lorenzo V. di Prospettiva Nevskij, – ovvero @arteletteratura per chi bazzica Twitter?

Ebbene, se non l’ho fatto prima, ve lo dico adesso: SEdS è membro de Il Circolo delle Arti.

“E perché ti salta pel capo di dircelo adesso, o Clarina?”

Perché, o lettori, adesso il ring ha una sua rivista elettronica, ideata, diretta e curata da Lorenzo V. E quindi vi segnalo con molto piacere il varo di The Circle Review.

Con molto piacere e un certo orgoglio, visto che faccio parte dell’equipaggio. Sul primo numero troverete interventi di una quindicina di blogger, tra cui Emma Pretti, Carmine di Cicco e Annarita Faggioni – giusto per citarne qualcuno. E ci sono anch’io, con un racconto intitolato La Ricompensa.

Qui c’è un assaggio:

Capitò che, all’età di quattordici anni e due mesi, l’orfano Hans Jakob Krone, del villaggio di Seckau, in Stiria, si ritrovasse sul campo della battaglia di Lipsia in qualità di tamburino dell’Esercito Imperiale. Non un tamburino particolarmente brillante, a ragione del suo scarso addestramento, avendo Krone raggiunto il suo reggimento da cinque giorni soltanto. Inoltre, anche in momenti più felici, la mente del piccolo Stiriano non aveva mai brillato per prontezza o acume. Nella piana di Lipsia, squassato dal tuono dei cannoni, accecato dal fumo, terrorizzato dal fuoco, dallo scalpitare dei cavalli, dalle urla degli uomini e dall’odore delsangue, il ragazzo non seppe altro che farsi spingere e strattonare dai soldati, perdere subito una bacchetta e, con l’altra, battere fievolmente e alla cieca, senza aver la più pallida idea di quel che si facesse.

Krone non ebbe davvero alcun merito o colpa del fatto che la stessa palla di cannone che gli sbriciolò l’avambraccio destro uccidesse sul colpo un giovane colonnello di cavalleria il quale, benché appiedato e ferito, cercava di riunire attorno a sé qualche dozzina di uomini per tentare l’assalto di una batteria francese. Per nient’altro che un caso, dunque, finita la battaglia, il giovane Arciduca che percorreva il campo conil suo aiutante trovò, uno accanto all’altro, il corpo del suo amico, il Colonnello morto da eroe con la sciabola in pugno, e il piccolo tamburino ferito che si lamentava nel modo più commovente. E ancora questo non sarebbe bastato a forgiare il destino di Hans Jakob Krone, di Seckau in Stiria, se proprio la sera prima,accanto al camino di una stanza requisita, l’Arciduca e il Colonnello non avessero discusso sul destino deitanti feriti che quella guerra si sarebbe lasciata dietro, e il Colonnello non avesse perorato con tutto il suo fervore la causa degli invalidi.

Questo fece sì che all’Arciduca paresse di non poter abbandonare al suo destino quel ragazzo dal braccio dilaniato senza offendere la memoria del suo povero amico e, in men che non si dica, Krone si ritrovò trasportato con ogni cura fin sul tavolaccio insanguinato del capo chirurgo militare, un vero medico con tanto di laurea dell’Università di Augusta, che non si scomodava mai per nessuno che non fosse almeno un generale.

Riscuotendosi un istante dal torpore che gli davano la sofferenza e l’aver perduto molto sangue, il tamburino vide, chino su di sé, un giovane così biondo da parere a sua volta un ragazzo, il cui mantello bianco macchiato di polvere e di fango lasciava intravedere un’uniforme rilucente di decorazioni.

“Coraggio, ragazzo,” disse una voce rauca di fatica. “Sei un buon soldato.”

Hans Jakob ebbe il conforto di una mano sulla spalla sana, dopodiché il giovane dal mantello bianco si allontanò.

“Chi è?” mormorò il tamburino con meno d’un filo di voce.

“Come, chi è? Ma il giovane Arciduca, perbacco!” rispose l’uomo in grembiule di cuoio che brandiva una sega da falegname…

Il resto lo trovate – insieme a una messe di racconti, saggi e poesie – nel primo numero di The Circle Review, che si scarica – gratuitamente e in formato PDF – qui

Dic 5, 2012 - editing, pennivendolerie    21 Comments

Il Mestiere Dell’Editor

In questo post si parlava, tra l’altro, di editing ed editor. E proprio a proposito di queste bizzarre creature. S. rimuginava:

Ma perché esistono? Non sarebbe più utile giudicare la capacità dello scrittore di sfornare il prodotto “chiavi in mano”? 

Ecco, in realtà non proprio. La pubblicazione non è un esame di buona scrittura – e meno ancora di buona sintassi e grammatica. E lo scrittore novellino capace di sfornare un romanzo “chiavi in mano”, tirato a lucido e pronto per la pubblicazione è una specie di araba fenice. Che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa. Però provate a immaginare un buon romanzo scritto così così. Ottima storia, personaggi accattivanti, atmosfera perfetta – e sintassi spaventosa. Meglio gettare tutto alle fiamme o meglio mettere all’opera qualcuno che addomestichi la consecutio temporum?

Uno così non è uno scrittore, dite? Non saprei. Facciamo un esempio illustre. Quando si ritrovarono sulla scrivania il manoscritto di Jane Eyre, da Smith, Elders & Co. si resero subito conto di avere per le mani qualcosa di notevolissimo. Però lo spelling del misterioso Currer Bell era atroce, e la punteggiatura pareva sparsa con il salino, tanto era erratica e selvaggia*. Se a pagina quattro George Smith avesse deciso che Bell non sapeva scrivere e avesse gettato tutto nella stufa, quello sarebbe stato il funerale vikingo di Jane Eyre. Invece Smith fece disdire tutti i suoi appuntamenti, lesse (faticosamente) tutto in un giorno e una notte e l’indomani scrisse a Currer Bell offrendo un contratto di pubblicazione. Dopodiché mise al lavoro il protoeditor William Smith Williams, e tra loro due resero leggibile la notevole prosa di Charlotte, procurando a Smith, Elders & Co. un best seller, e un classico alle generazioni future.

Altre volte invece si tratta di buchi in una trama altrimenti buona, di lungaggini, di magagne dovute all’inesperienza dell’autore. A parte tutto il resto, si può anche pensare che lavorando con un buon editor l’autore possa imparare dai propri errori – cosa che potrebbe in teoria fare anche da solo, ma diventa più facile e più costruttiva se qualcuno gli punta il naso nella direzione giusta.

Esempio non strettamente narrativo – ma siamo in zona: in teatro si fa workshop. Una volta giunto a una ragionevole stesura, l’autore si procura un po’ di attori (oppure, se è fortunato, la stessa compagnia che metterà in scena il lavoro) e li guarda fare una specie di lettura drammatica del testo. In genere si tratta di una lettura in piedi con il copione in mano, in modo da vedere come funziona. Questo non solo perché ci sono cose che sono perfette sulla carta e disastrose in scena, ma anche perché attori e regista hanno più esperienza e una percezione migliore della meccanica teatrale. Hanno occhio per le implausibilità, orecchio per le rigidità e le lungaggini. E l’autore… be’, l’autore dovrebbe limitarsi a prendere appunti e trarne beneficio, reprimendo tutti gli istinti omicidi.

E nessuno pensa male dell’autore teatrale che passa i suoi testi a questo specifico tritacarne. Magari non molti sanno che succede – e forse in Italia, tanto per cambiare, succede meno che nel mondo anglosassone – ma tant’è. Non è poi così diverso dall’editing.

Provate a immaginare l’editor come una specie di regista, che media tra l’autore e il pubblico, forte della sua conoscenza della meccanica. Perché la scrittura è un mezzo espressivo e come tale, piaccia o no, ha una meccanica, dei principi, un funzionamento. Ed è su questo che l’editor lavora.

Poi c’è una legittima, legittimissima domanda successiva: dove si ferma l’editor?

[… S]arei felice di poter leggere quello che l’autore di un romanzo pensava fosse la stesura definitiva, prima che un editor gli spiegasse che cosa io avrei voluto leggere,

rimuginava ulteriormente S.

Ah, well, questa è un’altra faccenda. Tutti abbiamo sentito storie come quella di Gordon Lish & Raymond Carver (i cui racconti, ripubblicati in forma pre-Lish dopo la sua morte, erano… be’, tutt’altro), o quella di Susannah Clapp & Bruce Chatwin (che di suo non era affatto terso e stringato come lo conosciamo e amiamo)… E peggio ancora, tutti abbiamo sentito storie molto più truci, perché non tutti gli editor sono Lish o Clapp. Il problema è che ci sono cattivi editor, editor così così, editor criminali e buoni editor che lavorano al servizio di politiche editoriali tra l’aggressivo e il criminale**, tese alla standardizzazione di un prodotto.

Quello dell’editor è un mestiere come un altro. Ok, forse un po’ più misterioso della media – perché in fondo si tratta di lavanderia glorificata, ed è il genere di faccenda che sarebbe molto meglio, a mio timido avviso, praticare dietro le quinte. E forse anche un po’ più indefinito e indefinibile della media, perché può funzionare in tutta una varietà di modi, dal leggere il Riot Act ai congiutivi sballati fino a rimaneggiare/amputare/ricucire la storia.

Resto però dell’idea che, per rispondere a S., gli editor esistano perché un buon editing può fare molto per un buon testo imperfetto. E che la miglior definizione del mestiere l’abbia data Arthur Plotnik:

Voi scrivete per comunicare ai cuori e alle menti altrui quello che vi brucia dentro. E noi editiamo per eliminare il fumo e far brillare il fuoco.

 

__________________________________________

* E lo stesso valeva per Ellis e Acton Bell. Quando consideriamo che si trattava in realtà delle Misses Brontë, tre insegnanti/istitutrici, intenzionate ad aprire una scuola tutta loro…

** Se volete sorridere (un po’ storto) in proposito, leggetevi La Storia Del Lupo, di Davide Mana.

Di Allobrogi Ed Editor

Sapeste che cosa ho ritrovato!

Dagli abissali recessi del mio hard disk rispunta la stesura pre-primo-editing di Somnium Hannibalis… 

Ah, i vecchi tempi. Perché, ridendo e scherzando, sono passati un sacco di anni dalla prima volta in cui un editor di professione ci ha messo le mani.

È stato interessante vedere come funzionava prima – ed è stato interessante rivedere la faccenda dall’altro lato, ricordando lo spirito, la delusione, la soddisfazione e l’occasionale bout di furore al calor bianco di quando ero soltanto editee e non editor. Quindi, o gente che ho editato, edito ed editerò, sappiate che non sono immune. Vi capisco. Ci sono passata. Ho desiderato assassinare lentamente un editor. Ho avuto la certezza che non avesse capito nulla. Ho composto mail di fuoco in cui contestavo punto per punto tagli e suggerimenti. E poi non le ho spedite. Ci ho dormito su e sono lentamente giunta alla conclusione che forse l’editor non aveva proprio tuttissimi i torti. E mi sono impuntata solo su una ridottissima manciatina di cose, e su un paio di esse sono riuscita a convincere l’editor.

E poi il libro è stato pubblicato.

E adesso risalta fuori la versione allo stato brado, e potrei celebrare il ritrovamento rifilandovi una dettagliata disamina dell’editing. Ma non lo farò

Invece farò un’altra cosa – diciamo… un out-take.

C’è questa scena. Non era raccapricciante, solo limitatamente utile. Adesso me ne rendo conto: non serviva a molto, ingolfava la narrazione nel punto in cui era e non poteva essere messa da nessun’altra parte. Così fu capitozzata. Però in origine c’era, e allora ho pensato di farvela leggere.

218 a.C., Annibale è in Gallia, ha passato il Rodano, sta marciando verso l’Italia – e francamente eludere i Romani è l’ultimo dei suoi problemi. Quel che gli serve è un valico per attraversare le Alpi, un valico che i Romani non si aspettino. Un valico alto, difficile da passare in autunno avanzato. E non è detto che lo trovi. Why, i suoi Galli dicono persino che un valico del genere non c’è…

Questa è la storia che Annibale racconta al re di Siria, venticinque anni più tardi:

Scipione finì col trovare il mio campo deserto sulla riva del Rodano, e immagino che potesse solo arrendersi all’evidenza: in qualche maniera, Annibale gli era sfuggito. Non si aveva la più pallida idea di dove fosse o dove intendesse andare, forse si poteva sperare che l’inverno lo inchiodasse da qualche parte delle Gallie con armi e bagagli…  

Se v’interessa, se volete leggere il resto, potete scaricare la scena degli Allobrogi.pdf

E poi magari mi direte che cosa ve ne pare?

 

 

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