Browsing "Poesia"
Apr 17, 2017 - Poesia    Commenti disabilitati su Alexandros

Alexandros

Head ofE siccome è festa, oggi poesia, o Lettori. Ed è molto ma molto Pascoli, e quindi in teoria non dovrebbe essere il mio genere – ma che posso dire? ha qualcosa… qualcosa. Fu una piccola folgorazione quando la scoprii privatamente sul tomo di Letteratura in IV Ginnasio. Una folgorazione che imparai a memoria per conto mio, e che dopo quasi tra decenni ricordo ancora, e ancora s’intrufola – a scampoi e a luccichii – in occasioni inaspettate. Si capisce: il fatto che vi si parli di storia e di rimpianti aiuta…

Oh, Clarina, che cosa allegra da propinare al prossimo il Lunedì dell’Angelo, quando si dovrebbe pensare alle scampagnate, alle quiches agli asparagi, alle biciclette e a pomeriggi di letture vacanziere! E insomma, invece oggi va così. Vi accontentate, o Lettori, degli auguri e di una poesia piuttosto blu?

I

 – Giungemmo: è il Fine. O sacro Araldo, squilla!

Non altra terra se non là, nell’aria,

quella che in mezzo del brocchier vi brilla,

 o Pezetèri: errante e solitaria

terra, inaccessa. Dall’ultima sponda

vedete là, mistofori di Caria,

 l’ultimo fiume Oceano senz’onda.

O venuti dall’Haemo e dal Carmelo,

ecco, la terra sfuma e si profonda

 dentro la notte fulgida del cielo.

   

II

 Fiumane che passai! voi la foresta

immota nella chiara acqua portate,

portate il cupo mormorìo, che resta.

 Montagne che varcai! dopo varcate,

sì grande spazio di su voi non pare,

che maggior prima non lo invidïate.

 Azzurri, come il cielo, come il mare,

o monti! o fiumi! era miglior pensiero

ristare, non guardare oltre, sognare:

 il sogno è l’infinita ombra del Vero.

 

III

 Oh! più felice, quanto più cammino

m’era d’innanzi; quanto più cimenti,

quanto più dubbi, quanto più destino!

 Ad Isso, quando divampava ai vènti

notturno il campo, con le mille schiere,

e i carri oscuri e gl’infiniti armenti.

 A Pella! quando nelle lunghe sere

inseguivamo, o mio Capo di toro,

il sole; il sole che tra selve nere,

sempre più lungi, ardea come un tesoro.

 

IV

 Figlio d’Amynta! io non sapea di meta

allor che mossi. Un nomo di tra le are

intonava Timotheo, l’auleta:

 soffio possente d’un fatale andare,

oltre la morte; e m’è nel cuor, presente

come in conchiglia murmure di mare.

O squillo acuto, o spirito possente,

che passi in alto e gridi, che ti segua!

ma questo è il Fine, è l’Oceano, il Niente…

e il canto passa ed oltre noi dilegua. –

 

V

 E così, piange, poi che giunse anelo:

piange dall’occhio nero come morte;

piange dall’occhio azzurro come cielo.

Ché si fa sempre (tale è la sua sorte)

nell’occhio nero lo sperar, più vano;

nell’occhio azzurro il desiar, più forte.

Egli ode belve fremere lontano,

egli ode forze incognite, incessanti,

passargli a fronte nell’immenso piano,

come trotto di mandre d’elefanti.

 

 VI

 In tanto nell’Epiro aspra e montana

filano le sue vergini sorelle

pel dolce Assente la milesia lana.

A tarda notte, tra le industri ancelle,

torcono il fuso con le ceree dita;

e il vento passa e passano le stelle.

Olympiàs in un sogno smarrita

ascolta il lungo favellìo d’un fonte,

ascolta nella cava ombra infinita

le grandi quercie bisbigliar sul monte.

 

Apr 16, 2017 - Poesia    Commenti disabilitati su Buona Pasqua

Buona Pasqua

Uova_cesto.jpgAuguri, o Lettori. Auguri di serenità, per quanto possibile in questo momento dagli orizzonti così scuri e incerti… E a titolo di augurio, qui c’è una Pasqua gozzaniana, grigia e piovosa, ma rischiarata in modo inatteso. Come trovare mistero, meraviglia e chissà, anche speranza nelle minuzie più quotidiane.

Che è poi quello che fanno i poeti, giusto?

Pasqua

A festoni la grigia parietaria
come una bimba gracile s’affaccia
ai muri della casa centenaria.
Il ciel di pioggia è tutto una minaccia
sul bosco triste, ché lo intrica il rovo
spietatamente, con tenaci braccia.
Quand’ecco dai pollai sereno e nuovo
il richiamo di Pasqua empie la terra
con l’antica pia favola dell’ovo.

Salva

Limerick!

Edward_lear2.jpgIl limerick è una poesiola in cinque versi (dimetri o trimetri anapestici, a voler essere pignoli) con uno schema di rime AABBA. Ora, perché qualcuno vorrebbe inventare una forma poetica di cinque versi anapestici*? Ma perché qualcuno è inglese, naturalmente. O più che altro irlandese: a parte qualche esempio arcaico (il solito, onnipresente Shakespeare – ma la faccenda è dubbia, e un ecclesiastico seicentesco in vena satirica) l’origine del genere sembra doversi cercare nell’Irlanda settecentesca, dove i cosiddetti Poeti del Maigue si sfidavano a produrne di estremamente licenziosi.

Noi adesso associamo il limerick alla letteratura nonsense grazie a Edward Lear che, nella seconda metà dell’Ottocento, prese la forma e la usò per le sue incantevoli rime assurde, come questa:

There was an Old Lady of Prague,
Whose language was horribly vague,
When they said,”Are these caps?”
She answered “Perhaps!”
That oracular Lady of Prague.

Oppure questa:

There was a Young Person of Smyrna
Whose grandmother threatened to burn her*;
But she seized on the cat,
and said ‘Granny, burn that!
You incongruous old woman of Smyrna!’

E a questo punto è evidente che la prosodia non è precisamente il primo dei problemi nel comporre un limerick: giochinonsense--edward-lear-001 di parole, allitterazioni, assonanze, nomi geografici e bizzarrie di pronuncia** sono i nove decimi del sugo di questo gioco, e al diavolo i trimetri anapestici – anche se, come Lear, si era il professore di disegno della Regina Vittoria. Tra l’altro c’è un che di estremamente appropriato nell’idea che sia stato un eminente vittoriano a… come dire? Ad addomesticare il limerick purgandolo dalla sua componente licenziosa. Voglio dire: era gente che metteva i pantaloni ai pianoforti!

A quanto pare, all’epoca non si chiamavano neppure limerick, e l’origine del nome è controversa. Pare che il primo uso documentato risalga al 1880 in Canada, per questa strofetta (da cantarsi sull’aria di Will You Come Up To Limerick, il che – pare a me – fa molto per spiegare l’origine del nome…):

There was a young rustic named Mallory,
who drew but a very small salary.
When he went to the show,
His purse made him go
To a seat in the uppermost gallery.

L’importante è presentare un protagonista (spesso in termini geografici) al I verso, descriverne le Edward_Lear_More_Nonsense_87.jpgbizzarrie al II, derivarne conseguenze ancora più dissennate al III e al IV, e raggiungere una conclusione nel V, in un genere di progressione logica inattaccabile nella sua completa illogicità. Insospettabili ed eminenti britannici si sono divertiti un mondo a coniare limerick. Di sicuro non vi stupite se cito Lewis Carrol, ma come la mettiamo con Stevenson? E Joyce? Sì: il Joyce di Ulisse scriveva limerick. Per non parlare poi di Bertrand Russel, non so se mi spiego. Ma d’altra parte, quando si tratta di nonsense, gli Isolani sono pieni di sorprese…*** E in Italia? Be’, il babbo del limerick italiano (talvolta chiamato limericco) è Gianni Rodari che, nella Grammatica della Fantasia, consiglia a chi voglia cimentarsi in questo albionico sport di “Prendere due parole possibilmente molto lontane come campo semantico, ma in rima fra di loro, e lasciarle sbattere fra di loro finché dalla scintille non nasca la prima idea della poesia”. Con questo metodo, Rodari produceva rime siffatte:

Una volta un dottore di Ferrara
Voleva levare le tonsille a una zanzara.
L’insetto si rivoltò
E il naso puncicò
A quel tonsillifico dottore di Ferrara.

E ora, o Lettori, qualcuno vuole provare e cimentarsi a far limerick per diletto?
______________________________________________________

* Se volessimo essere spiritosi diremmo che, avendo tre versi con tre piedi ciascuno e due versi con due piedi ciascuno, il limerick è una bestia con tredici gambe… Ecco, questo è il punto in cui potete ridere, se volete.

** Far rimare Smyrna con burn her è possibilissimo, a patto di far cadere la h alla maniera cockney, e pronunciare -er come -ah. Sì, lo so, eppure credetemi: in qualche modo, in Inglese tutto questo ha senso.

*** …e anche i loro cugini d’Oltreoceano. Una volta postai su un forum americano una serie di tre limericks. Mi erano costati una sera di lambiccamenti, ma mi sentivo davvero bravina. Nel giro di dieci minuti, metà del forum aveva risposto in kind, e in via del tutto estemporanea. Er…

____________________________________________________________

Le illustrazioni sono tratte da A Book Of Nonsense, di Edward Lear – tranne la copertina, che essendone la copertina, naturalmente, non ne è tratta, o almeno non nel senso… oh, avete capito benissimo che cosa intendo.

Salva

Salva

Mar 27, 2017 - Poesia, Vitarelle e Rotelle    Commenti disabilitati su Post Versicolore, in cui si parla di Poesia e di Rilevanza

Post Versicolore, in cui si parla di Poesia e di Rilevanza

SeamusQuando mi si chiede chi sono i miei poeti preferiti*, in genere rispondo: Seamus Heaney, e poi Emily Dickinson, Kipling, Gozzano.**

E naturalmente Heaney è Heaney – ma oggi lasciate che ci concentriamo sugli altri tre, volete? Per un motivo che è solo tangenzialmente poetico. Emily Dickinson, Kipling e Gozzano – e l’ordine in cui si trovano è dovuto a un paio di ragioni. In primo luogo, in questa successione, i tre nomi suonano quasi come un endecasillabo, e se con questo pensate che io spinga la ricerca del bel suono al limite dell’eccentricità, probabilmente avete ragione. In secondo luogo, questa è la versione dell’elenchino che ha meno probabilità di creare reazioni bizzarre, e ciò si deve a Kipling in seconda posizione. Mi vergogno un po’ ad ammettere che non sempre ho voglia di dibattere sui pregiudizi cristallizzati attorno a Kipling e alla sua opera, ma resta il fatto che, in un elenco di tre elementi, quello in mezzo è destinato ad attrarre meno attenzione.

English: Daguerreotype of the poet Emily Dicki...

È una legge di rilevanza, e non vale soltanto per le serie di tre: il primo elemento colpisce l’attenzione proprio perché arriva per primo, e perché il lettore/interlocutore è portato ad attribuire questa posizione a una ragione specifica. Naturalmente, la ragione non deve necessariamente essere evidente: ci sono carrettate di ragioni legittime per aprire un elenco con un elemento piuttosto che con un altro, inclusa quella pura e semplice d’incuriosire il lettore. La posizione di coda è, semmai, ancora più efficace, perché l’ultimo elemento è quello che più facilmente resterà in mente al lettore, quello che gli sarà temporalmente più vicino una volta girata la pagina o cambiato l’argomento. E’ sempre possibile contrastare questo sbilanciamento ponendo in coda un elemento più debole di quello iniziale. In un certo senso la più celebre Emily Dickinson e il quasi ignoto Guido Gozzano funzionano così – a meno che il nome poco noto non stimoli più curiosità, o che all’altro capo della comunicazione ci sia qualcuno che ama poco ED.

387px-Rudyard_KiplingTutto quello che sta in mezzo a questi due picchi è, per forza di cose, vallata. E sì, lo ripeto, mi vergogno, perché adoro Kipling, e non voglio certo lasciarlo a fondovalle… recupero qualche punto se dico che è più un tentativo di proteggere la mia predilezione che di nasconderla? Parlando seriamente, tuttavia, se il mio pantheon poetico contenesse sei nomi anziché tre, la rilevanza si applicherebbe allo stesso modo, con il primo e l’ultimo poeta in evidenza e tutto ciò che è in mezzo a rischio di oblio. E questo è il motivo per cui inserire nella scrittura lunghi elenchi è sempre a tricky matter: se proprio lo si vuole fare, è meglio essere sicuri di saper bilanciare bene l’allascamento della rilevanza con il peso inerente di ogni singolo elemento.

Guido GozzanoAd ogni modo, certi giorni (o a certa gente) capita che dia risposte diverse. Kipling, Emily Dickinson e Gozzano è come il primo tiro di una forcella d’artiglieria, quando intendo invitare la discussione. Oppure Gozzano, Emily Dickinson e Kipling conta come un crescendo, con l’effetto di far sobbalzare gli interlocutori politically correct. Gozzano in mezzo non lo lascio quasi mai, confesso: sarebbe quasi come non nominarlo affatto, anche se devo ammettere che Emily Dickinson, Gozzano e Kipling ha una sua sonorità non disprezzabile.

Se poi il mio interlocutore se ne infischia dei miei giochini di rilevanza, evita di esclamare inorridito che Kipling era un Bieco Imperialista, Colonialista e Razzista, e si mette a discutere davvero di poeti e di poesia, questa è la reazione ideale.

____________________________________________________________________

* Ebbene sì, c’è ancora gente che ti chiede di punto in bianco chi sono i tuoi poeti preferiti. D’altra parte, ho scoperto stasera che ci sono ancora cinema che replicano i film “a grande richiesta”… la vita è piena di sorprese.

** Yes, well – e Marlowe, e Shakespeare… ma diciamo in contesto non teatral-elisabettiano.

Salva

Salva

Lug 13, 2016 - Poesia    Commenti disabilitati su Serendipoetry

Serendipoetry

louis-macneice-3Dopo essermici imbattuta su un sito che non so più, in un riquadro opportunamente intitolato Serendipoetry, sto scoprendo Louis MacNeice (1907-1963), irlandese, poeta, accademico, romanziere riluttante, drammaturgo, traduttore, saggista, membro dell’Ordine dell’Impero Britannico, estimatore di Marlowe e di Emily Dickinson.

Di suo pensavo di mettervi a parte della bellissima The Sunlight in the Garden. Abbiate pazienza con la mia traduzione – non provo nemmeno a riprodurre l’intricato e raffinatissimo schema di rime e, ad ogni buon conto, vi lascio anche l’originale.

The sunlight on the garden
Hardens and grows cold,
We cannot cage the minute
Within its nets of gold,
When all is told
We cannot beg for pardon.

Our freedom as free lances
Advances towards its end;
The earth compels, upon it
Sonnets and birds descend;
And soon, my friend,
We shall have no time for dances.

The sky was good for flying
Defying the church bells
And every evil iron
Siren and what it tells:
The earth compels,
We are dying, Egypt, dying

And not expecting pardon,
Hardened in heart anew,
But glad to have sat under
Thunder and rain with you,
And grateful too
For sunlight on the garden.

E…

La luce del sole nel giardino
Si fa dura e fredda,
Non possiamo imprigionare l’attimo
Nella sua rete d’oro,
E alla fin fine
Non possiamo chiedere perdono.

La nostra libertà senza padroni
Si avvia alla fine;
La terra chiama imperiosa,
Sonetti e uccelli calano in volo;
E presto, amica mia,
Non ci sarà tempo per danzare.

Era un buon cielo per volare
Sfidando le campane delle chiese
E ogni malvagia sirena di ferro
Con quel che diceva.
La terra chiama imperiosa,
Stiamo morendo, Egitto, morendo

Senza perdono in vista,
Con una nuova durezza nel cuore,
Ma grato di avere affrontato
Tuoni e pioggia insieme a te,
E anche grato
Della luce del sole nel giardino.

“La mia opinione è che la poesia debba essere prima di tutto onesta, e mi rifiuto di essere oggettivo o preciso ai danni dell’onestà,” scriveva MacNeice, ed era fedele al suo credo, a giudicare dalla trasparenza con cui questa poesia trasmette il senso d’autunno, di perdita e d’irreparabilità di una vigilia di guerra.

Feb 29, 2016 - angurie, cinema, Poesia, Shakespeare Year    Commenti disabilitati su Era una Giornata Bigia e Tempestosa

Era una Giornata Bigia e Tempestosa

brigadoon-jane-heronIl 29 di febbraio mi è sempre parso un equivalente di Brigadoon nel calendario… Voglio dire, appare solo una volta ogni quattro anni – per un giorno, perché è, per l’appunto, un giorno – e per il resto del tempo non c’è. Brigadoon.

Dev’essere bizzarro compiere gli anni in un giorno che c’è solo ogni tanto… Rossini, William Wellman, Balthus, Tim Powers: tutti nati il 29 di febbraio. Ripeto: dev’essere bizzarro.

Dopodiché non so come sia dalle vostre parti, ma qui piovono cani e gatti – e soprattutto tira vento da tre giorni. Magnifico, epico, glorioso vento…

E così ho pensato che sarebbe bella una tempesta in versi. Shakespeare, si capisce. Re Lear, atto 3, scena II.

LEAR
Soffiate, venti, a squarciarvi le guance!
cateratte del cielo ed uragani,
rovesciatevi a fiumi sulla terra,
fino a sommergere le nostre guglie
e ad annegarne i galli giravento.
Voi, fuochi di zolfo,
guizzanti rapidi come i pensieri,
avanguardie dei fulmini
che schiantano le querce,
scotennate questa mia testa bianca!
E tu, tuono, che tutto scuoti e scrolli,
percuoti la rotondità del mondo
fino a schiacciarla tutta, fino in fondo,Lear-in-the-Storm-ONeal-November-2015
stritola le matrici di natura,
spargi e disperdi in aria
tutti i germi che generano l’uomo,
mostro d’ingratitudine!
[…] Ròmbati il ventre, cielo! Sputa fuoco!
Scroscia, tu, pioggia! Pioggia, vento, tuono,
guizzi di fuoco, non sono figlie mie:
non vi posso accusar d’ingratitudine;
a voi non diedi un regno,
né vi chiamai mai figli. Voi elementi
non mi dovete obbedienza di sorta;
e allora rovesciate sul mio capo
i vostri orrendi sfoghi, a sazietà!
Io son qui, vostro schiavo, un pover’uomo
vecchio, debole, infermo, derelitto…
Vi chiamo tuttavia vili strumenti
al servizio di due figlie degeneri,
che scatenate dall’alto del cielo
le vostre schiere su una vecchia testa
canuta come questa. Oh, oh, è infame!

Be’, qui non abbiamo fulmini, tuoni e fuoco vario – ma nemmeno figlie snaturate. D’altra parte oggi è un giorno per le cose che non ci sono, giusto? E comunque è questione di poesia. La potenza, la furia. Animo umano e natura scatenata.

Oh well, buon 29 di febbraio, buon giorno che non c’è – o quanto meno, c’è di rado. E buon vento, se tira anche dalle vostre parti.

Feb 24, 2016 - elizabethana, Poesia, Shakespeare Year, Storia&storie    Commenti disabilitati su Ritratto d’Ignoto

Ritratto d’Ignoto

FairYouthSapete quale è – pur senza immagini – un ritratto d’ignoto, nel senso beffardo e triste – o forse invece triste e beffardo – che discutevamo qui? Il Bel Giovane dei Sonetti.

No, davvero. Provate a considerare cose come il Sonetto 55:

Né marmo né gli aurei monumenti
Di principi, vivran quanto i miei versi possenti,
Ma in questi brillerete di più vivo splendore
Che in un sasso sconciato dalle sozzure del Tempo.
Quando la Guerra rovinosa travolgerà le statue,
E le muraglie verranno sradicate nei tumulti,
Né la spada di Marte né i suoi fuochi veloci struggeranno
Il vivente monumento della vostra memoria.
Contro alla morte e contro ogni nemico oblio
Voi durerete, le vostre lodi troveranno luogo
Ancora agli occhi di quei posteri estremi
Che condurranno questo mondo al finale sfacelo.
Così, sin quando al Giudizio sorgerete in persona,
Voi qui vivrete, o abiterete negli sguardi degli amanti.

Oppure il Sonetto 81:

Sia ch’io viva a dettare il tuo epitaffio,
Sia che tu sopravviva mentre io marcirò in terra,
Non potrà morte di qui sradicar la tua memoria,
Pur quando ogni mio merito sarà dimenticato.
Di qui il tuo nome trarrà vita immortale,
Anche s’io debba, morto, non lasciar più ricordo,
La terra a me darà sol la fossa comune,
Mentre tu avrai tomba degli uomini negli occhi.
Tuo sepolcro saranno i miei versi soavi,
Che occhi non ancor nati leggeranno,
E le lingue future parleran del tuo essere,
Quando tutti che in questo mondo respirano saran morti,
Tu continuerai a vivere – tal virtù ha la mia penna –
Là dove l’alito vitale spira sulle bocche degli uomini!

Ed è chiaro che – con tutti i suoi discorsi di fosse comuni e nessun ricordo – il Poeta ha in mente l’immortalità dei suoi versi, più che quella del Bel Giovane, ma nonetheless…  Immaginate di essere giovani, di sentirvi promettere un’eternità destinata a gente non ancora nata, al di là dei guasti e delle distruzioni, fino all’orlo estremo del tempo. Mette i brividi, vero? A chi non girerebbe la testa? Chi non vorrebbe crederci…? Shakespearemain

No – d’accordo: non fino alla fine dei giorni, magari, ma doveva dare la stessa sensazione di un ritratto del pittore giusto. E invece… Quattrocento anni e moneta più tardi, il Poeta – o quanto meno l’autore – è uno dei nomi più celebri della storia della letteratura, e chi sia il Bel Giovane non lo sappiamo più. Non sappiamo granché nemmeno dei Sonetti, a dire il vero. Quando sono stati scritti di preciso? Per chi? In che ordine? Sono davvero una sequenza unica? Raccontano davvero la storia che hanno l’aria di raccontare? Quanto sono autobiografici? Chi sono i personaggi? Nel Poeta possiamo davvero cercare William Shakespeare da Stratford? E la Bruna Signora? Emilia Bassano? Mary Fitton? Rosa/Aline Daniel? E il Poeta Rivale? Marlowe? Chapman? Barnfield? Barnes? Non lo sappiamo. Non lo sappiamo più – o forse, nella più ottimistica delle ipotesi, non lo sappiamo ancora…

Ma in fondo a nessuno di loro Shakespeare/il Poeta aveva promesso l’immortalità. Al Bel Giovane sì – ma anche lui è sprofondato tra le pieghe di quel tempo da cui i Sonetti avrebbero dovuto difendere il suo nome. Henry Wriothesley, conte di Southampton? William Herbert, conte di Pembroke? Il misterioso giovane attore Willie Hughes? Chiunque fosse il bel ragazzo arrogante e sleale, i versi soavi – e anche quelli meno soavi – dei Sonetti sono un sepolcro senza nome.

Ritratto d’ignoto, indeed. Di un ignoto senza cuore e, alla fin fine, mediocre – capace di tradire il suo amico/amante/poeta in tutti i modi possibili… Non è un ritratto lusinghiero. Va detto che non lo è nemmeno l’autoritratto del poeta – se autoritratto è – e non dobbiamo prendere per buono tutto quel che dice la meravigliosa, irragionevole e occasionalmente lamentosa voce narrante – ma sono capaci di vendette lunghe e crudeli, questi poeti, vero?

Ott 25, 2015 - Kipling Year, Poesia    2 Comments

Se, Se, Se

IfIf non è la mia preferita tra le poesie di Kipling.

È la più famosa, la più tradotta, la più citata… A mio timido avviso non è affatto la più bella, ma senz’altro il messaggio di equanimità, forza d’animo e di volontà, indipendenza e individualità è fatto per risuonare a lungo.

Vecchia traduzione:

Se riuscirai a non perdere la testa quando tutti
la perdono intorno a te, dandone a te la colpa;
se riuscirai ad aver fede in te quando tutti dubitano,
e mettendo in conto anche il loro dubitare;
se riuscirai ad attendere senza stancarti nell’attesa,
se, calunniato, non perderai tempo con le calunnie,
o se, odiato, non ti farai prendere dall’odio,
senza apparir però troppo buono o troppo saggio;

Se riuscirai a sognare senza che il sogno sia il padrone;
se riuscirai a pensare senza che pensare sia il tuo scopo,
se riuscirai ad affrontare il successo e l’insuccesso
trattando quei due impostori allo stesso modo
se riuscirai ad ascoltare la verità da espressa
distorta da furfanti per intrappolarvi gli ingenui,
o a veder crollare le cose per cui dai la tua vita
e a chinarti per rimetterle insieme con mezzi di ripiego;

Se riuscirai ad ammucchiare tutte le tue vincite
e a giocartele in un sol colpo a testa-e-croce,
a perdere e a ricominciar tutto daccapo,
senza mai fiatare e dir nulla delle perdite;
se riuscirai a costringere cuore, nervi e muscoli,
benché sfiniti da un pezzo, a servire ai tuoi scopi,
e a tener duro quando niente più resta in te
tranne la volontà che ingiunge: “tieni duro!”;

Se riuscirai a parlare alle folle serbando le tue virtù,
o a passeggiar coi Re e non perdere il tuo fare ordinario;
se né i nemici o i cari amici riusciranno a colpirti,
se tutti contano per te, ma nessuno mai troppo;
se riuscirai a riempire l’attimo inesorabile
e a dar valore ad ognuno dei suoi sessanta secondi,
il mondo sarà tuo allora, con quanto contiene,
e – quel che è più, tu sarai un Uomo, ragazzo mio!

E adesso sentite l’originale, letto da Michael Caine:

E buona domenica.

Giu 14, 2015 - musica, Poesia    Commenti disabilitati su Rancor Non Porto ♫

Rancor Non Porto ♫

Heine_Werke_290pxOggi un lied. Un lied tedesco.

Heine, Schumann… Honestly, molto più romantico di così non si può, vi pare?

Ich Grolle Nicht è una cosa piccina-piccina e intensa, che si canta da tenore, da basso, da soprano, da baritono e whatnot. Non vi stupirete terribilmente, immagino, se vi dico che ho un debole per la versione baritonale – e, fra le versioni baritonali, un debole al quadrato per quella tempestosa di Thomas Hampson:

Il testo di Heinrich Heine è questo:

Ich grolle nicht, und wenn das Herz auch bricht,
Ewig verlor’nes Lieb ! Ich grolle nicht.
Wie du auch strahlst in Diamantenpracht,
Es fällt kein Strahl in deines Herzens Nacht.
Das weiß ich längst.

Ich grolle nicht, und wenn das Herz auch bricht,
Ich sah dich ja im Traum,
Und sah die Nacht in deines Herzens Raum,
Und sah die Schlang’, die dir am Herzen frißt,
Ich sah, mein Lieb, wie sehr du elend bist.

E il mio Tedesco è abbastanza vago, ma mettiamola così: il giovanotto narrante, lasciato dalla sua bella, tenta di essere stoico in proposito, ma non è come se gli riuscisse troppo bene. E il suo cuore sarà spezzato, ma quello di lei, è buio come la notte e popolato di serpenti… No, no: proprio nessunissimo rancore, vero?

E buona domenica.

Giu 3, 2015 - lostintranslation, Poesia    2 Comments

Febbre di Mare

3923894215_20aa1d139f_oSiccome sono al mare, e siccome pur avendovi parlato di John Masefield non credo di avervi mai messi a parte di Sea Fever, lo faccio adesso:

In Inglese…

I MUST go down to the seas again, to the lonely sea and the sky,
And all I ask is a tall ship and a star to steer her by,
And the wheel’s kick and the wind’s song and the white sail’s shaking,
And a gray mist on the sea’s face, and a gray dawn breaking.

I must down go to the seas again, for the call of the running tide
Is a wild call and a clear call that may not be denied;
And all I ask is a windy day with the white clouds flying,
And the flung spray and the blown spume, and the sea-gulls crying.

I must go down to the seas again, to the vagrant gypsy life,
To the gull’s way and the whale’s way, where the wind’s like a whetted knife;
And all I ask is a merry yarn from a laughing fellow-rover,
And quiet sleep and a sweet dream when the long trick’s over.

E traduzione funzionale:

Devo tornare al mare. Il mare solitario e il cielo,
E non chiedo altro che una nave a vela, e una stella per orientarmi,
E lo scatto del timone, e il vento che canta, e il tremito della vela,
E la grigia foschia sul volto del mare, e lo spuntar dell’alba grigia.

Devo tornare al mare, perché la marea mai ferma chiama
Ed è un richiamo alto e selvaggio a cui non si resiste.
E non chiedo altro che un giorno di vento, e nuvole in volo,
E l’aria fitta di gocce e spuma, e il richiamo dei gabbiani.

Devo tornare al mare, alla vita errante da gitano,
La via del gabbiano, la via della balena, dove il vento è un coltello affilato.
E non chiedo che una storia raccontanta da un altro allegro vagabondo,
E un sonno quieto  e buoni sogni quando sarà tutto finito.

In realtà avevo già tradotto – e decisamente meglio – questa poesia ai tempi di Acqua Salata e Inchiostro, ma naturalmente adesso non ho il testo al seguito, per cui per ora accontentatevi di questo. Appena torno a casa modifico.

E avrei potuto fare questo post a casa, vero? Sì, avrei potuto, ma mi è preso l’uzzolo di farlo qui, dove girandomi appena posso vederlo davvero, il mare .

Occorre considerare che Masefield, da giovanissimo allievo sottufficiale nella Merchant Navy, fece un viaggio transatlantico e mezzo e poi disertò perché soffriva di nausee così terribili e paralizzanti che non era certo di sopravvivere a un’altra traversata arrampicato a riva. Lì terminò la sua carriera navale, e quando scrisse Sea Fever non vedeva una nave da almeno quindici anni – né l’avrebbe vista più. E allora ecco questa poesia diventa una specie di inno per tutti coloro che il mare lo amano più in teoria che in pratica.

Quelli che leggono storie di mare una dopo l’altra, e poi stanno male sul materassino. Quelli che, alla fin fine, il mare sono fatti per desiderarlo standosene a riva.

Pagine:«1234567»