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Dic 17, 2014 - grilloleggente, romanzo storico    Commenti disabilitati su E Niente Condiscendenza

E Niente Condiscendenza

FCTNon ricordo più se l’ho detto qui o su Scribblings – ma quest’anno Santa Lucia mi ha portato, oltre a una tazza/elefante, un ninnolo per l’albero e un paio di deliziose londinesità, due romanzi di Rosemary Sutcliff – che sarà pure un’autrice per bambini, ma mi si dice essere molto il mio genere.

E in effetti, un’autrice di romanzi storici d’ambientazione inglese, dichiaratamente ispirata da Kipling…

E poi, se non bastasse, c’è questo articolo in cui Sally Hawkins del Sunday Times racconta di come un romanzo della Sutcliff abbia cambiato la sua vita. Da ragazzina, la Hawkins lesse Eagle of the Ninth, e ne rimase folgorata, innamorandosi della storia e della narrativa storica, e lasciandole un’impressione così forte da influenzare, molti anni dopo, le sue scelte in fatto di studi.

A volte succede. Da bambini ci imbattiamo in un libro, qualcosa che non solo ci piace, ma è destinato a tornare ancora e ancora, più o meno consapevolmente, nelle nostre scelte, nelle nostre impressioni… E questo sarebbe un altro discorso, se non fosse che, apparentemente, Ms. Sutcliff aveva dato alla piccola Sally anche qualcosa d’altro: un principio di senso di prospettiva storica, con la sua fedeltà alle fonti e la sua scarsa inclinazione ai compromessi.

Non so a voi, ma a me piace pensare a un romanzo per bambini capace di lasciare in una bambina un senso del Vallo di Adriano come ultimo confine della Romanitas, nella romanzesca forma di una soglia su tutto ciò che è ignoto e pericoloso. E sì, c’è lo spirito di Kipling che aleggia qui, con i suoi due centurioni che invecchiano difendendo le Colonne d’Ercole mentre il loro mondo crolla… FCS

È parte di quello che la Hawkins chiama mancanza di condiscendenza: una narrativa storica per fanciulli che – invece di sbattere ripetutamente in testa ai fanciulli qualche messaggio moderno travestito in costume – sotto i colori dell’avventura lascia intravedere le iridescenze, i declini, gli incontri tra civiltà destinate a mescolarsi… Un senso di correnti profonde che non farebbe male cominciare a intuire da giovani.

E poi il linguaggio. Dice la Hawkins che non c’è nulla di predigerito e simplificato nel linguaggio della Sutcliff. Lo stile non è più lineare di quanto debba essere, e ci sono parole “difficili”, sì – e allora? I dizionari e internet servono per questo. I bambini  sono curiosi per natura – o dovrebbero esserlo. Una lettura che richieda qualche sforzo, a patto di essere sostenuta da una narrazione coinvolgente, non li ucciderà. Anzi, sarà uno stimolo ad apprendere.

E quindi sì. Dato tutto questo, credo proprio che mi metterò a leggere romanzi storici per fanciulli. Questi romanzi storici per fanciulli, quanto meno – con tanti ringraziamenti a Santa Lucia.

Vi farò sapere.

 

 

L’Odissea Del Capitan Fracassa

"Le Capitaine Fracasse" by Théophile...Il Capitan Fracassa, Gautier cominciò a prometterlo ai lettori nel 1836 – quando non aveva ancora nemmeno cominciato a scriverlo.

Quel che voleva fare era scrivere una storia tra picaresca e barocca, ispirandosi a gente come Scarron e Scudery… Solo che forse non voleva poi troppo, perché quando nel 1845 firmò un contratto con un editore per una pubblicazione a puntate (e percepì un lauto anticipo), trascurò di spiegare che del romanzo non esisteva ancora una singola parola. E mentre Gautier tergiversava, l’editore Buloz cominciò a innervosirsi, e alla fin fine la faccenda approdò in tribunale nel 1851. Ci fu una conciliazione che Gautier mandò a monte – a quanto pare perché era un incoercibile procrastinatore – e sarebbe finita male se non fosse intervenuto un banchiere appassionato di letteratura, a risarcire l’anticipo e pagare le spese processuali.

Gautier era, si direbbe, di quelli che non imparano mai nulla: dal 1853 al 1856, seguitò a promettere e ripromettere le Capitaine Fracasse dalle pagine della Revue de Paris, di cui nel frattempo era diventato direttore… E in realtà il romanzo aveva cominciato anche a scriverlo, solo che – solo che…

Chissà come sarebbe andata a finire, se non fosse stato per un altro editore, Gervais Charpentier – uomo più energico e più accorto, che propose a Gautier di pubblicargli il romanzo, prima a puntate e poi in volume, pagandolo… be’, con l’equivalente editoriale del sistema a cottimo.

Magari sembra un po’ brutale, ma funzionò.  Finalmente il buon Gautier ci si mise di buzzo buono, ma i guai erano lungi dall’essere finiti. Mano a mano che si avvicinava alla fine, il nostro eroe si ritrovava di umore sempre più cupo, e fu con qualche esitazione che porse l’ultimo capitolo manoscritto alla sua lettrice sperimentale, la moglie Ernestina Grisi.

Théophile Gautier, his wife Ernestina Grisi-Ga...E Madame Grisi Gautier, che fino a quel punto il libro l’aveva adorato, rimase esterrefatta nel leggere il finale che suo marito aveva in mente: il povero Sigognac, dopo avere ucciso in duello Vallombrosa e rinunciato per sempre a Isabella, se ne tornava a casa, più rovinato e più infelice che mai, scendeva nella cripta e si lasciava morire tra le tombe degli avi. Fine.

Ora, Ernestina era la sorella di quell’altra Grisi, e sapeva come coniugare arte drammatica e ricatto morale: furon pianti e furono bronci a non finire perché, diceva, un libro come quello non poteva finire in maniera tanto tragica e cupa… Fa venire in mente Stevenson che, a proposito del suo (incompiuto) Weir of Hermiston, avrebbe scritto, di lì a un quarto di secolo, che un libro, per andare a finir male, deve cominciare a finir male fin dalla prima pagina.

Ecco, Ernestina era in inconsapevole accordo con Stevenson, in questo, e riteneva che LCF non fosse il libro giusto per un finale del genere. Un altro che la pensava così era Charpentier, certo che il pubblico non avrebbe gradito una repentina virata in tragedia e dotato di oratoria persuasiva – o forse di molta capacità d’insistere.

Andò a finire che Gautier cedette alle pressioni congiunte, ai pianti di Ernestina e alla market-savviness di Charpentier, e modificò il finale nel modo che sappiamo, senza duelli fatali e senza suicidi, e il giorno di Natale del 1861 i lettori della Revue Nationale et étrangère si ebbero come regalo la prima puntata di Le Capitaine Fracasse – che cominciava a finir bene fin dalla prima pagina.

Il finale roseo uscì sulla rivista nell’estate del Sessantatre, seguito di poco dalla prima edizione in volume. Il successo fu enorme, con quattro ristampe soltanto nel 1864, e nel 1866 Charpentier investì felicemente in un’edizione di lusso illustrata da Gustave Doré, nientemeno.

Poi ci furono gli adattamenti teatrali, i film…

E viene da chiederselo: se Gautier avesse tenuto duro, se Ernestina avesse pianto di meno, se Charpentier avesse ceduto al suo autore e gli avesse lasciato scrivere il suo finale “logico e triste e vero”, davvero il pubblico sarebbe rimasto deluso e disgustato? Se il finale fosse stato diverso, come sarebbe andata a finire la storia di questa storia?

 

 

 

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Il Viaggio di Shakespeare

DaudetPoche cose mi rendono scettica come sentir descrivere un libro in termini di “non succede niente, ma è scritto così bene…” D’altronde, si sa, sono ossessionata dalla fabula. Per cui, se qualcuno mi avesse detto che ne Il Viaggio di Shakespeare di Léon Daudet “non succede quasi niente, ma è scritto così bene…” probabilmente non avrei sfiorato il libro in questione nemmeno con l’orlo della veste.

E avrei fatto malissimo.

Perché ancora non so se davvero non succeda niente (oddìo, fino a pagina 50 non abbiamo fatto molto più che attraversare la manica senza incidenti: non il più fulmineo degl’inizi), ma il linguaggio, il linguaggio… ah, il linguaggio! Gli squarci descrittivi, i personaggi tratteggiati di sghembo, il fluire dei minimi moti dell’immaginazione di Shakespeare! Questo William di vent’anni non pensa davvero: immagina. Non vede direttamente: tutto ciò che guarda passa attraverso la lente distorcente di una fantasia di poeta. E pensieri, mare, vento, ricordi, germi di personaggi si fondono in questo linguaggio iridescente, questa danza di ritmi cangianti. Absolutely dazzling.

Ecco il nostromo deforme, Calibano in boccio: “Solo ai suoi occhi, Fred oscurava l’estasi dorata della natura, il disco infinito, scintillante, azzurro e verde del cielo e dell’acqua confusi. Diventava lo spirito del male e del brutto, il destino rabbioso che sorveglia la culla dei bambini, i semi delgli alberi, i ciottoli che faranno la roccia, presagendo la loro distruzione nel germe stesso delle cose.”

Un temporale, anzi una Tempesta, giusto per movimentare il passaggio: “Il colore del mare era cambiato. Era nero come il cielo, attraversato da mobili strisce d’argento, perché il moto delle onde aumentava. La pioggia cessava di colpo per riprendere poi con maggior violenza e i lampi si succedevano senza tregua, in un frastuono assordante. Come uccelli d’oro, fendevano lo spazio. William ne osservava il volo furioso, la traiettoria fiammeggiante, la nascita, la morte e la traccia postuma del loro passaggio. Qualche volta una mosca azzurra, una scintilla violetta annunciavano questi grandi protagonisti, e lo scarto violento dell’aria sembrava infinito; a volte era un chiarore pallido seguito da un fremito dell’etere. Si manifestava così quella rabbia, cui corrispondeva quella delle onde, scosse, ritorte, attorcigliate, scarmigliate, in lunghe strisce e frange, in forma fantastica di cavalloni, tutta una galoppata di nebbia e di schiuma.”

Sì, lo so: oltre a Shakespeare stesso c’è Victor Hugo, qui, come nume tutelare. E devo dire che la traduzione di Donatella Dini è superlativa: tutto splende, barbaglia, crepita, luccica… devo assolutamente procurarmi l’originale e vedere da che cosa è partita e che cosa ne ha fatto.

La quarta di copertina dell’edizione Robin descrive questo libro come un romanzo picaresco, leggi “collezione d’incidenti”: William viaggerà per l’Europa raccogliendo impressioni destinate a dar vita ai suoi personaggi, e bisognerà vedere se, alla lunga, 365 pagine di questo reggeranno. Per ora, (nel senso della scorsa notte fino alle 3) mi accontento di essere dazzled.

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Gen 29, 2014 - romanzo storico, Storia&storie    Commenti disabilitati su Sarebbe Potuto Accadere

Sarebbe Potuto Accadere

HistoryUltimamente la serendipità si diverte a piazzare lungo la mai strada piccole perfezioni in fatto di narrativa storica.

Perfezioni teoriche, intendo.

Ricordate Scott&Barnett e i loro fatti veri mai accaduti?

Ecco, poi domenica notte – ad alta notte, mentre cercavo di far cambiare ritmo ai neuroni prima di un’ultimissima revisioncina – mi sono imbattuta in The Prince and the Pauper, ovvero Mark Twain secondo William Keighley. È un delizioso film del 1937 – ma ne parleremo un’altra volta – anche perché ne ho visto solo un pezzettino.

Ma quel pezzettino iniziava con una premessa perfetta:

Questa non è storia – solo un racconto di un tempo lontano. Forse è andata così, forse no, ma sarebbe potuta andare così.

Vi racconto una storia, o Lettori. È reale? Oh, per nulla – o solo un pochino, ma potrebbe esserlo. Di sicuro ho fatto del mio meglio perché fosse vera. Mentre ve la racconto, vi sembrerà vera. Giocheremo a che sia vera, volete? Il mio mestiere è di far sì che, per il tempo che impiegate a leggerla o mentre ve ne state seduti a teatro, siate molto contenti di considerarla vera.

Il che, in fatto di narrativa storica, a mio timido avviso, il mio mestiere implica un ragionevole grado di accuratezza nell’ambientazione, un certo genere di plausibilità storica per cui sì, sarebbe potuta andare così

Ma a ben pensarci, se ci badate bene, in realtà vale per ogni genere di storia. È il consueto dilemma tra reale e vero, ne abbiamo parlato un sacco di volte – interrogandoci sempre sul perché il fatto che si tratti di una storia vera o no debba essere la prima preoccupazione del lettore…

Per quanto mi riguarda, resto dell’idea che, in fatto di narrativa di qualunque colore, la realtà sia sopravvalutata –  e la prossima volta che qualcuno mi chiederà se quello che ho scritto è una storia vera, probabilmente risponderò che forse sì, forse no, ma sarebbe potuta andare così.

Potrei quasi farmici un ciondolo…

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Dic 30, 2013 - elizabethana, grilloleggente, romanzo storico    Commenti disabilitati su L’Armatura Di Luce

L’Armatura Di Luce

511BEE8DXBLBisognerà, un giorno o l’altro, che mi provveda di una specie di segnale stradale: Libro Non Tradotto – da premettere quando posto di libri non tradotti.

Perché, indovinate: oggi parliamo di un libro non tradotto. The Armor of Light, di Melissa Scott e Lisa Barnett. Fantasy storico ambientato… indovinate di nuovo: in età elisabettiana.

Ipotesi I: la magia funziona – come gli Elisabettiani sono convinti che funzioni. Funziona, si studia, si pratica secondo diverse scuole di pensiero. Per cui, quando John Dee sostiene di comunicare con gli angeli, gli angeli ci sono per davvero.* E quando Marlowe scrive nel Faustus invocazioni appena un po’ troppo realistiche, il diavolo soprannumerario in scena è un diavolo autentico.  E l’ossessione di Giacomo di Scozia per le streghe è più che giustificata – così come la nomea del Conte di Bothwell, il re delle streghe è molto più che superstizione o ruse politica…

Ipotesi II: Sir Philip Sidney, il primo gentiluomo d’Europa, poeta, soldato e studioso, non è affatto morto delle sue ferite dopo la battaglia di Zutphen, ma è sopravvissuto per diventare il campione della Regina, oltre che uno dei migliori maghi d’Inghilterra.

Ipotesi III: essendo vivo nel 1593, Sir Philip è riuscito ad irrompere a casa di Mistress Bull proprio un istante prima che Frizer, Poley e compagnia assassinassero Christopher Marlowe. E avendogli salvato la vita, lo ha anche preso sotto la sua protezione.

Sir Philip

Sir Philip

Cosicché, quando la storia comincia nel 1595, con un’oscura minaccia stregonesca ai danni di Giacomo di Scozia – possibile/probabile futuro re d’Inghilterra – l’ormai anziana Elisabetta e i suoi consiglieri hanno pochi dubbi su chi mandare in soccorso: Sydney, uomo d’azione e di magia. E con lui anche Marlowe, che per la sua appartenenza alla Scuola della Notte e per la sua inclinazione ad impicciarsi di tutto quel che è proibito, può vantare una competenza superiore alla media in fatto di diavoli.

E qui cominciano guai in abbondanza, perché la corte di Scozia è un nido di vipere faziose intente a contendersi il controllo del re. E perché la forte componente religiosa delle pratiche magiche significa che il diavolo è sempre a caccia di aperture per corrompere i maghi. Perché Marlowe è ancora, nonostante tutto e con scarsissima convinzione, una spia del subdolo Sir Robert Cecil. E perché il sospettoso, incostante Giacomo non è la persona più facile a proteggersi…

Così, mentre Sidney danza in precario equilibrio sui crinali tra efficacia e hybris, mentre un Mefistofele molto teatrale tenta ad ogni passo un eminentemente tentabile Marlowe, e mentre gli attacchi di Bothwell aumentano in sanguinosa intensità, mezza Scozia e mezza Inghilterra fanno la loro comparsa in scena: dai Cecil al completo alla Pléiade francese, da Ned Alleyn agli inaffidabili fratelli Ruthven, da John Dee a Shakespeare, da Frances Sidney née Walsingham al conte di Mar, da Ben Jonson (offstage) a Walter Raleigh… E mi fermo qui, ma ci sono proprio tutti.

Marlowe

Kit

E qui veniamo al primo difetto di questo libro: è troppo corto per tutta la gente che contiene. Porta in scena un sacco di personaggi interessanti, promette sviluppi a diritta e a mancina, gioca sulle relazioni che il lettore sa esistere tra gli uni e gli altri, si avvia in una quantità di direzioni – e poi ne percorre solo una parte ridotta, abbandonando per strada dozzine di possibilità.

C’è molta più carne al fuoco di quanta ne venga effettivamente cucinata, il che è più che un nonnulla frustrante. E non so nemmeno dire se il resto del menu sia lasciato indietro in vista di un secondo volume: molto di quel che ci si lascia intravvedere è strettamente legato a questa storia – e comunque, per quanto ne so, non c’è seguito.**

L’altro difetto è la scrittura, che è funzionale, e non molto di più. A tratti mi sarebbe piaciuto che fosse più… levigata, ecco.

Perché quel che c’è, in fatto di storia e di ambientazione e soprattutto di personaggi, mi è proprio piaciuto. Sir Philip Sidney, preso tra ritegno protestante e gusto del potere – magico od otherwise – e ansioso di conquistare l’intelligente e risoluta moglie sposata per politica, è un ottimo personaggio. Marlowe, tormentato dal suo passato, dall’ingombrante reputazione che si è costruito con troppa cura, dalla gelosia e riluttante ammirazione che sente per Sidney, dall’inaspettata vena di integrità che si va scoprendo, è ancor meglio.

Nel complesso, una buona storia, molto ben popolata, alla fin fine un po’ inferiore, alas, alla somma delle sue parti.

 

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* Ma Edward Kelley resta nondimeno un (defunto) lestofante.

** Se qualcuno sapesse il contrario, sarei grata.

Set 11, 2013 - Elsewhere, Festivaletteratura, guardando la storia, romanzo storico, teatro    Commenti disabilitati su Su BooksBlog

Su BooksBlog

festivaletteratura, somnium hannibalis, booksblog, sara raniaIl post di oggi sembra essere al fulmicotone, perché di fatto consiste in un link – ma non allarmatevi: il link conduce all’intervista che, dopo avere visto Somnium Hannibalis davanti alla Rotonda di San Lorenzo, Sara Rania mi ha fatto per BooksBlog.

In pieno Festivaletteratura, sedute al tavolino di un caffè in Piazza Mantegna, Sara e io abbiamo fatto una chiacchierata su teatro e romanzi, storia e romanzi storici… Il genere di cose da cui non mi so (ne mi voglio) tirare indietro. Anzi, una volta che sono partita, per fermarmi bisogna abbattermi a sediate.

Sara è riuscita a stringare e concentrare le mie ciacole, e potete leggere il risultato qui.

Oh, e il Somnium è andato molto, molto, molto bene. Tanto che non ho nulla di esilarante e disastroso da raccontarvi… Mi verrebbe da scrivere che gli spettacoli felici si somigliano un po’ tutti e gli spettacoli infelici sono infelici ciascuno a modo suo, ma non è vero.

È che è andato proprio bene: intenso, ben ritmato, bello a vedersi… Onestamente, che si può volere di più?

Il Diavolo È Bianco

william palmer, the devil is white, romanzo storicoAvviso ai naviganti: Libro Non Tradotto ahead.

Non avevo mai letto nulla di William Palmer, fino al giorno in cui mi è capitato fra le mani, a fini di HNR, il suo The Devil is White.

Ed è stata una sorpresa. 

La storia comincia in Inghilterra, nel 1792, con un gruppo di entusiasti decisi a fondare la loro utopia coloniale su un’isola vicina alla costa occidentale dell’Africa.

Una società libera e democratica, senza schiavitù, basata sul duro lavoro, sul merito e sull’onesta interazione con le tribù della costa.

E sì, è vero, le tribù della costa praticano il commercio degli schiavi con lucroso entusiasmo – ma solo per mancanza di solida guida morale. L’esempio degli isolani liberi&felici e la conversione al Cristianesimo sono destinati a cambiare tutto… 

E sì: ingenui fino a questo punto.

Almeno alcuni di loro.

Perché noi non tardiamo ad accorgerci che accanto agli idealisti in perfetta buona fede, come il Capitano Coupland, l’aristocratico poeta Caspar Jeavons e il Reverendo Tolchard, ci sono anche sogetti meno disinteressati, come il futuro governatore Sir George, più ansioso di gloria personale che di duro lavoro, o i Meares, in fuga dalla prigione per debiti…

E ci accorgiamo anche che tutti – candidi e profittatori alike – vanno alla ventura nella più superficiale delle maniere. Nessuno ha mai messo piede sull’isola, nessuno si preoccupa del perché i precedenti coloni portoghesi abbiano rinunciato dopo pochi anni, nessuno ha pensato di selezionare in qualche modo gli aspiranti isolani, nessuno si preoccupa della stagione delle piogge.

A pagina 7 sappiamo già che l’impresa è destinata al disastro. Ma i personaggi non lo sanno, e noi li seguiamo, con affascinato orrore, mentre precipitano. Leggiamo le lettere senza destinatario di Caspar, alternate alla voce onnisciente e a una manciata di altri punti di vista. E simpatizziamo viepiù con Mr. Knox, il disincantato mercante (di non si sa troppo bene cosa) che fa da interprete e balia a questi sconsiderati. E guardiamo i nodi venire al pettine, l’uno dopo l’altro. E ci domandiamo a quale punto idealismo e perseveranza diventino follia…

E il tutto in un linguaggio asciutto ed elegante e apparentemente distaccato persino nel descrivere la ferocia dell’isola nei confronti dei suoi would-be colonizzatori. Ma dietro l’eleganza, è l’incrociarsi dei punti di vista a costruire spessore e ironia drammatica.

E no, non è tradotto – né potrei giurare che lo sarà mai. Però è una storia crudele, intelligente, aguzza e scritta magnificamente, e vale del tutto la pena.

Annibale, Di Nuovo? – II

Annibale, dicevamo…

Dove eravamo rimasti? Ah sì. Eravamo rimasti alla decisione che, dopo tutto, forse era meglio un romanzo.

Anche perché nel frattempo col teatro credevo di avere chiuso – little I knew, ma non importa. Allora ero convinta di avere chiuso, e comunque non anticipiamo.

E romanzo fu. La stesura propriamente detta richiese più o meno un anno, e la soddisfazione maggiore fu Antioco di Siria, il Gran Re. Antioco non veniva dagl’inizi teatrali, era una scoperta recente, una possibilità di identificazione per il lettore e qualcuno con cui Annibale potesse parlare. E di fatti parlavano parecchio: la struttura era diventata un dialogo lungo una notte, con Antioco che, fresco di sconfitta ad opera dei Romani, sfogava la sua bile in un interrogatorio impietoso, e Annibale che raccontava, non raccontava, ricordava…

Ah, la sensazione di arrivare in fondo a un romanzo e non esserne insoddisfatta. È fatto. Meglio che potevo. Finito.

E devo ammettere un pochino di smarrimento: ma come – dopo vent’anni era tutto finito? Finito per non tornare mai più? Ma, d’altra parte, era lo stesso senso di vuoto che avevo immaginato per Annibale la sera dopo Canne, e quindi andava bene anche quello. Era ome essere ancora all’interno del romanzo, in qualche maniera…

Dopodiché, sapete anche voi che procurarsi un agente e un editore è una faccenda lunga e truce. Credo che ne abbiamo già parlato, e comunque non è del tutto rilevante qui, se non per l’euforia di tenere in mano la prima copia stampata con il Goya in copertina, e della prima presentazione all’Accademia Virgiliana, nientemeno… bei momenti, ma non divaghiamo.

E poi la proposta di un adattamento teatrale. Lions Club, progetto didattico per le scuole, Hic Sunt Histriones, e nessun altro che G.-La-Regista, ovvero la mia insegnante di teatro, back in the day.

Gioiosa riunione – con il romanzo, con il teatro e con G.? Sssì… fino a un certo punto.

Perché era molto bello riprendere in mano il Somnium, ma condensare duecento e tante pagine in meno di un’ora di spettacolo è un mestiere, e doverlo fare per le scuole mi metteva in uno spirito abominevolmente didattico, con il quale G. non concordava affatto.

Prima stesura.

Settimane di silenzio.

“Non dovremmo incontrarci per discutere eventuali modifiche?” “Già fatto, grazie.”

What the hell!? Tempestoso incontro. Prima stesura macellata da altri. Ira funesta della Clarina.

Seconda stesura.

Perplessità di G.-La-Regista. “È teatro per le scuole, mica SuperQuark!”

Doom. Gloom. Despair.

Terza stesura.

“Questa non sei tu. Possibile che sia questo che volevi scrivere quando hai cominciato…?”

Possibile che sia questo che volevo…?

Folgorazione.

Quarta stesura: via la cronologia, via la struttura scolastica. C’è Annibale, c’è Antioco, c’è la luce delle torce, ci sono i fantasmi di Annibale, c’è il giavellotto – e tutto comincia da Canne e da Maarbale: nimini dii nimirum dederunt… Il cerchio che si chiude. Oh, non avete idea del momento a notte alta, del rendersi conto all’improvviso che ero tornata al punto di partenza: Maarbale. Con i dubbi. Sul palcoscenico.

Stavolta va bene. G. ne fa uno spettacolo asciutto e spigoloso. Mi sa che magari a tratti sia un po’ ermetico per i fanciulli… “Chissenefrega. Abbi fiducia nel teatro e nei fanciulli. I fanciulli capiscono,” è il verdetto di G. “Basta che ci siano le emozioni – e qui ci sono.”

E bisogna dire che sia vero se, a vent’anni dal primo incontro con Tito Livio, ci sono volte in cui, mentre assisto alle prove, mi ci emoziono ancora per conto mio. Poi non vuol dire, perché questa faccenda e io abbiamo una lunga storia, e perché nulla mi convincerà mai che sia solo questione di emozioni – ma fa nulla. Lo spettacolo è bello, e gira, e piace.

E sembra sempre un pochino incompiuto, se lo chiedete a me…* Ma è un’incompiutezza vaga e quasi dolce, una wistfulness di fondo che è inseparabile da tutto quel che ho scritto. Non è forse vero che, ogni volta che mi cade l’occhio su un passaggio del romanzo, vedo treni merci di cose che potrei fare diversamente, che potrei fare meglio…? 

È una condizione diagnosticata, un male con cui si vive, e non ci penserei quasi più – anche se ogni tanto fa capolino un’idea nuova legata ad Annibale. Personaggi secondari che meriterebbero una voce, una storia, un monologo. Qualcuno lo inizio, qualcuno lo progetto, qualcuno lo annoto su un fazzolettino di carta… Ho tanti di quegli appunti in proposito, sparsi tra hard disks e taccuini, da cavarne un altro volume collaterale. E chissà, chissà che prima o poi…

E ogni tanto dico, a nessuno in particolare, che non mi dispiacerebbe riprendere in mano il play. Lavorarci ancora un po’. Allungarlo. Ma lo dico così, alla maniera in cui si dicono certe cose, e nessuno mi prende sul serio – salvo M., l’attore che interpreta Annibale e che, ogni volta che ci incontriamo dopo non esserci visti per un po’, me lo chiede: e allora, stai riscrivendo…?

Ma la risposta è sempre no: non sto riscrivendo. Non ancora. Magari mai. È, dopo tutto, una di quelle cose che si dicono. Finché…

“Non ti andrebbe di riscrivere un po’ il Somnium?” mi domanda allegramente G.-La-Regista.

Me lo domanda così, come se niente fosse, mentre camminiamo sotto la neve dopo che ho fatto una visita a sorpresa alla compagnia.

E non dico di sì, ma nemmeno dico di no. E il tarlo s’insedia e rode. Non mi andrebbe di riscriverlo un po’? Di eliminare certe superstiti necessità didattiche e un singolo compromesso stilistico che allora avevo inghiottito di traverso? Di riportare in scena altra gente del romanzo, come il segretario spartano Sosila, il veterano numida senza nome, la bella Capuana…? Di rendere più robusto il finale?

 Ah be’, il fatto è che mi andrebbe. Mi andrebbe dannatamente – e tanto più perché adesso ho idee tecniche più chiare di quattro anni fa. Ho studiato, ho scritto e ho pensato parecchio, nel frattempo. Potrei fare di meglio, rimettendoci mano.

Per cui, a occhio e croce, sì. Ci sarà un altro Annibale per le scene – e sarà molto diverso. Non so troppo bene quando, ma che diavolo, ci sarà. Così come, prima o poi, ci saranno i racconti collaterali. E qualche monologo, in tutta probabilità. E, col tempo, persino una versione rimaneggiata del romanzo.

E gli anni, vedete, gli anni si avviano ad essere venticinque, ma è molto, molto chiaro che Annibale Barca e io non abbiamo ancora finito.

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* E no, M.: non per mancanza della scena del Navarca…

Leggendo In Inglese

Ricevo una mail che, tra molte altre cose, dice anche questo:

Sul fatto che tu legga solo libri inglesi e americani, non dico niente. Sono fatti tuoi e ciascuno legge quel che gli/le pare e poi ne scrive sul suo blog. Quel che mi domando è perché tenere un blog in italiano e poi recensire libri che in italiano non sono stati tradotti. […] Tutti i tuoi lettori sanno l’inglese abbastanza bene per leggere le cose che recensisci? Io ti leggo da un po’ meno di due anni, e noto che ultimamente ti sei messa a recensire cose non tradotte. In tutta sincerità, quando trovo un post così, mi fai venir voglia di leggere e poi alla fine scopro che non posso. Ci resto male, non è divertente, e sinceramente ti fa anche sembrare un po’ snob. Possibile che non trovi niente di tradotto, che possiamo leggere anche noi?

Ah già, le recensioni di libri non tradotti…

Ok, parliamone. Ho raccontato qui*, come e perché una ventina d’anni fa io abbia cominciato a leggere in Inglese e sia rimasta folgorata dall’esperienza. La versione breve della storia è che negli ultimi due decenni ho letto tutto quello che potevo in lingua originale – in Inglese, ma anche in Francese e, in anni più recenti, in Spagnolo. Sul Tedesco sto ancora lavorando, ma nutro speranze.

All’inizio è stata una faccenda di pura esuberanza, entusiasmo da scoperta. Ho riletto in originale libri che avevo già letto in Italiano, per il gusto del diverso colore della lingua, e per la quantità di parole, modi idiomatici, costruzioni e colloquialismi che si potevano assorbire. Il che può essere parzialmente responsabile delle sfumature dickensian-austenesche del mio Inglese, ma questa è un’altra storia.

Dunque, per un po’ di anni ho letto anche in Inglese, anche perché non è che fosse facilissimo procurarsi edizioni in lingua originale. A Pavia sì, ovviamente. A Cardiff e a Londra il problema non si poneva. Una volta tornata a Mantova… oh well, stendiamo un tulle misericorde.

Ma nel frattempo avevo scoperto internet e Amazon, e le possibilità si erano allargate enormemente – e anche di questo abbiamo già parlato.

Poi ho scoperto un’altra cosa. E cioè che, se volevo leggere nel mio genere, in Italia non c’era gran trippa per gatti. E non sto parlando di nulla di spaventosamente esoterico: romanzi storici.

Alas, non c’è paragone tra la scelta di romanzi storici italiani e romanzi storici inglesi e americani, in fatto di abbondanza, di varietà di periodi storici e ambientazioni e anche di qualità generale. Di tutto questo bendidio in Italia si traduce poco – qualche romanzo storico propriamente detto, un po’ di saggistica, pochissimi gialli storici – e quel poco non sono particolarmente ansiosa di leggerlo in traduzione, ma non è questo il punto. Il punto è tutto il resto che non si traduce affatto: treni merci di straight historicals, gialli ambientati nei secoli più improbabili, saggistica meravigliosa e fantasy storici.

Quindi, o Corrispondente, non leggo in Inglese perché sia snob, ma perché molto di quel che mi piace leggere si trova in Inglese o non si trova affatto e, se anche volessi leggerlo in traduzione, non potrei. Quanto alle recensioni…

Lo confesso: ho esitato prima di cominciare a dedicare post interi alla recensione di titoli non tradotti – e finora credo di averlo fatto non più di un paio di volte. Interesserà a qualcuno se lo faccio? Si sentirà maltrattato chi non legge in Inglese? A decidermi è stata la lettura di una certa quantità di ottimi fantasy storici e fantasy of manners, generi trascuratissimi alle nostre latitudini e, a mio timido avviso, meritevoli di scoperta. Perché sono diversi, perché tendono ad essere originali, intelligenti e ben scritti. Perché mostrano alcune affascinanti direzioni che può prendere la narrativa a sfondo storico se non vuole anchilosarsi.

E allora sì: credo che continuerò a recensire libri non tradotti – titoli recenti e classici da riscoprire, e bizzarrie vecchie e nuove, perché… be’, perché c’è un mondo là fuori. E perché leggere resta il mio modo preferito di imparare ed esercitare una lingua. E perché penso che valga la pena di sapere che ci sono altre possibilità.

Ecco, alla fin fine è questo il punto: credo davvero che ne valga la pena.

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* E a dire il vero un pochino anche qui

 

A Lume Di Candela

candele, luce di candela, romanzo storico, ricercaChiamiamola… boh, ricerca sul campo?

Qualche giorno fa una combinazione di guasto alla rete elettrica e giornata corta e bigia – come si conviene in vista del solstizio d’inverno, d’altra parte – mi ha costretta a un viaggetto nel tempo per un pomeriggio e parte di una sera.

Fuoco per riscaldamento e candele per luce e, una volta esaurita una batteria che per vari motivi era quasi scarica di suo, niente computer. E così ho lavorato, letto e scritto a mano nella stanza con il caminetto – e a luce di candela.

Non è che non fosse mai successo prima, ma stavolta ho preso appunti su gioie, practicalities e improbabilità dell’illuminazione a fiamma libera, e ve ne rendo partecipi. 

candele, luce di candela, romanzo storico, ricerca1) La luce di candela è fioca. Molto. Due candele accese in una stanza 5×5 arrivano agettare un cerchiolino di luce gialla grande abbastanza per una pagina e lasciano il resto della stanza nella semioscurità. A patto di tenere la fiamma bene alimentata, si legge meglio accanto al camino – a patto di sedere in basso e tenere il libro orientato nel modo giusto. E provandoci si acquisisce una nuova comprensione della storia del piccolo Kipling che si rovina gli occhi leggendo di nascosto alla luce di un fuoco magro. Nonché un nuovo rispetto per tutti quegli scrittori che hanno prodotto capolavori a lume di candela… On the other hand, anche senza voler leggere, scrivere o cucire, la quantità di luce è limitatissima. Vista da un’altra stanza attraverso una porta a vetri, la luce di due candele è un pallidissimo alone bigio, e vista attraverso una finestra da una distanza qualsiasi, ci vuole spirito d’osservazione per rendersi conto che la stanza non è al buio. Con quattro candele (un lusso sfrenato) le cose migliorano un po’, ma occorre alimentare seriamente il camino (altro lusso) per avere anche solo un po’ di quella luce dorata che “piove dalle finestre” o “splende nelle fessure della porta” in tante descrizioni.

2) La luce di candela è instabile. Voi sospirate sui tormenti del protagonista e la fiamma tremola. Voi girate pagina e la fiamma sussulta. Voi urtate involontariamente la gamba del tavolo e la fiamma vacilla. Qualcuno si muove a tre passi di distanza e la fiamma ballonzola. Qualcuno pare una porta e la fiamma sternutisce, crepita, soffia, fa del melodramma e mostra la sua disapprovazione riducendosi a un lucignolo clorotico. E tutto questo senza contare gli spifferi. Casa mia è abbastanza vecchia da avere spifferi e correnti in ogni dove – specie nelle notti di vento. E uno spiffero è sufficiente a dare le convulsioni alla fiammella. E se può essere graziosa a vedersi con le sue intemperanze, una fiammella convulsa non fa proprio nulla per facilitare la lettura. A volersela portare in giro, poi, la candela è infelicissima. Occorre proteggere la fiamma con una mano, se non si vuole che si spenga al primo angolo voltato – e salire le scale con una candela e le gonne lunghe è scomodo, pessimo per la reputazione e francamente pericoloso. Provate, o signore, a reggere candela e gonne e proteggere la fiamma con la normale dotazione di mani, senza mostrare le caviglie e senza darvi fuoco. Provate – e ricordate che proprio non volete lasciar spegnere la candela, perché una volta spenta…

3) La luce di candela è scomoda da procurarsi. I fiammiferi sono stati inventati negli Anni Trenta dell’Ottocento e commercializzati più tardi. E anche ad averli, basta che siano un po’ umidi per rendere l’operazione di accendere una candela assai poco agevole. Figurarsi con l’acciarino – ma in realtà la cosa più comune era accendere al fuoco o a un’altra candela. Il che significa che, se la candela si spegne a metà scala, non resta che andarsene a dormire nel buio pesto, oppure tornarsene a tentoni al camino o all’altra candela, riaccendere e ricominciare daccapo l’ascesa. candele, luce di candela, romanzo storico, ricerca

E tutto ciò, badate, è stato sperimentato usando candele di cera d’api, di buona qualità e con lo stoppino industriale che non è necessario smoccolare. Figuratevi quando si trattava di candele di sego o, peggio ancora, di stoppini di giunco immersi nel sego – e quelli avevano tutta una collezione di problemi di durata, di colature, di odori…

Ma per il sego credo che mi fiderò dei romanzi altrui, perché non sono certa di voler fare la prova.

Non credo proprio.

Non penso…

O Forse…

Magari una volta sola…

Hm. Qualcuno ha idea di dove potrei procurarmi una candela di sego?

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