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Set 17, 2012 - anglomaniac, gente che scrive, scribblemania    Commenti disabilitati su Sette Maestri Sette

Sette Maestri Sette

Questa faccenda va girando di blog in blog quasi come un meme – ovvero quella cosa che vado ripetendo di non fare e poi invece ci ricasco sempre.

Ma il fatto è che, quando si comincia a parlare di maestri ideali, scrittori sulle cui opere ci siamo formati… come può una ragazza resistere?

A dire il vero, Ferruccio Gianola ha cominciato parlando di scrittori preferiti, ma poi Alex Girola e Davide Mana hanno aggiunto alla faccenda questo taglio vagamente jedi, e allora eccoci qui.

E siccome vedo che a numeri funziona alla ciascuno-per-sé, qui andiamo per sette, in un ordine vagamente cronologico – non tanto di lettura, quanto di consapevole apprenticeship

I. G. B. Shaw. Perché quando avevo dodici anni e mi chiedevano “che cosa vuoi fare da grande?” io rispondevo “la commediografa”. E rispondevo così solo perché allora studiavo francese e non sapevo che esistesse la parola playwright, che mi piace tanto di più – ma non divaghiamo. Volevo tanto, ma in quella maniera informe, you know. Non era che non ci provassi, ma non avevo troppo idea. Poi, nell’estate dei miei quattordici anni, entra in scena Shaw, nella forma delle Quattro Commedie Gradevoli, edizione Anni Sessanta, BUR con la copertina rigida – di mia madre. Folgorazione. In particolare Cesare e Cleopatra e L’Uomo del Destino. Teatro a sfondo storico – proprio quello che volevo fare. E la costruzione dei dialoghi, e l’uso delle fonti, e il tratteggio dell’ambientazione storica, e il funzionamento teatrale…

II. Joseph Conrad. In un sacco di modi. La profondità cui si poteva spingere l’indagine psicologica. Le possibilità infinite dei punti di vista. La possibilità di raccontare una storia attraverso l’accumulo di prospettive. La cesellatura di un personaggio centrale. I dubbi e le domande senza risposta. L’intensità. E poi l’uso della lingua – e di una lingua appresa. È in buona parte per via di Conrad che scrivo in Inglese.

III. Patrick Rambaud. Rambaud non se lo ricorda più nessuno, credo. A un certo punto ha letto nella corrispondenza di Stendhal di un romanzo mai scritto. Allora ha preso l’ambientazione (una battaglia napoleonica), ha preso Stendhal in persona, ha preso una manciata di personaggi storici e ne ha cavato un bel romanzo. Nulla d’immortale, solo una buona storia ben raccontata, fedele alle fonti e romanzesca quanto bastava. All’epoca in cui mi trastullavo con l’idea di scrivere romanzi storici ed ero paralizzata dall’incertezza dei confini tra fonti e immaginazione, Monsieur Rambaud è stato piuttosto fondamentale.

IV. R. L. Stevenson. Ah, i narratori di Stevenson, inaffidabili anche quando sembra che non lo siano, sottilmente minati nella loro attendibilità, irragionevoli, opinionated, a volte nemmeno terribilmente intelligenti… O Lettore, a te il delizioso mestiere di trarre conclusioni. E poi Alan Breck e l’Appin Murder – un personaggio minorissimo e un processo celebre ripresi, rivoltati come guanti, dipinti a colori irresistibili e avventurosi là dove in origine si trattava di un figuro losco e di una vicenda cruda e grigia. Ah, saper indurre il lettore a voler credere a me – persino quando sa benissimo di non poterlo fare…

V. Rodney Bolt. Quando uno scrittore mi fa entrare da una porta saggistico-divulgativa con qualche pretesa, poi mi fa sospettare che si tratti di una parodia accademica, e infine mi scodella in pieno romanzo, quando fa tutto ciò con grazia, sottigliezza e intelligenza, quando mi conduce pei prati in questa maniera e non mi irrita nemmeno un po’, tutto quel che voglio è imparare a barare così a mia volta.

VI. Josephine Tey. Anche lei scriveva teatro in una maniera che mi piace molto, ma non è questo il punto. Il punto è La Figlia del Tempo, che è una riflessione sulla storia, il modo in cui si costruiscono, mantengono e smantellano le leggende nere e un sacco di questioni che mi stanno a cuore – ed è scritto nella forma di un giallo originalissimo, popolato di personaggi ben fatti che parlano in dialoghi scintillanti. Tecnica impeccabile, idee, spirito – e soprattuto il modo di raccontare le storie.

VII. Jeffrey Hatcher. Ci voleva qualcuno che mi scrollasse fuori dalla maniera di Shaw, ed è stato Hatcher, che scrive un teatro d’ambientazione storica vivido, spigoloso e pieno di ritmo, appeso a un cambiamento epocale per rendere tutto più irreparabile, thank you very much.

E poi sono sempre la solita che si dà dei numeri e non riesce a tenerli neppure per sbaglio, per cui lasciate che aggiunga ancora Emily Dickinson. E no, non scrivo poesia, ma la densità e iridescenza del linguaggio… non si può scrivere prosa in questo modo, ma il principio mi piace proprio tanto.

E voi? Chi sono i vostri mentori di carta?

Ago 23, 2012 - editing, elizabethana, scribblemania, teatro    Commenti disabilitati su Piccolo Bollettino Notturno

Piccolo Bollettino Notturno

Un po’ più presto del solito.

Upstart Crow, la scena di oggi, l’avevo in buona parte sistemata come assignment per il corso di Karl Iglesias – il che è un bene, perché la giornata è stata, come previsto, impossibile*.

Qualche ora di lavoro post coenam mi ha condotta a un punto soddisfacente. È ancora troppo lunga, ma alas mi ci ritrovo affezionata.

Robert Greene è divertente da scrivere…

Prima di sfrondare vorrei sentirla letta, perché sulla carta sembra tutta necessaria. Ma in tutta probabilità sono io che non vedo le lungaggini per miopia da giornata e da malguidato affetto. Mi piace pensare che sarei capace di sentirle, le lungaggini…

Oh well – per stasera basta così, grazie. Domani non promette molto meglio, ma ho anche una specie di turno di guardia, potentially graveyard watch, in cui potrei riuscire a lavorare un po’ sull’ultima scena del I Atto.

O magari vedere se, col vantaggio di qualche ora di sonno, riesco a potare Robert Greene.

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* E mi piacerebbe vantarmi di avere eroicamente resistito alla tentazione di cominciare a leggere Foe, recapitato in tarda mattinata – ma ad essere sinceri è mancato il tempo materiale di cedere alle tentazioni, per cui…

Ago 21, 2012 - elizabethana, scribblemania, teatro    Commenti disabilitati su Piccolo Bollettino Notturno

Piccolo Bollettino Notturno

Sistemato la scena di oggi (Different Stages) e, già che c’ero, anche un pezzetto della successiva (Once In The Service).

Scene corte, but still.

Adesso Will è del tutto a disagio, ha l’impressione che non riuscirà mai a sfondare, ha assistito a un alterco che non ha capito e forse comincia a detestare la persona che più ammira al mondo.

E siamo a metà del Primo Atto.

E ho finito il corso con Karl Iglesias (UCLA): interessante, utile – e il teacher ha detto cose lusinghiere dei miei esercizi.

Sono ragionevolmente soddisfatta di me stessa, stasera…

Ago 19, 2012 - scribblemania, teatro    Commenti disabilitati su Piccolo Bollettino Notturno

Piccolo Bollettino Notturno

Revisionato la scena di ieri.

Quella nuova.

Vale?

Questa cosa decisamente non sta andando come previsto…

Ago 18, 2012 - scribblemania, teatro    Commenti disabilitati su Piccolo Bollettino Notturno

Piccolo Bollettino Notturno

Ecco, invece di revisionare una scena della prima stesura, oggi ho scritto una scena nuova.

From scratch.

Una scena che ha a che fare con il Babington Plot.

E detto così porebbe quasi sembrare una buona cosa, ma non lo è.

Domani cercheremo di far meglio.

Ago 17, 2012 - angurie, scribblemania, teatro    Commenti disabilitati su Piccolo Bollettino Notturno

Piccolo Bollettino Notturno

Buona parte della giornata se n’è andata in preparativi per la cena di compleanno a sorpresa di mia madre – così sono riuscita solo a trascrivere la scena e a fare qualche aggiustamento minore.

Intenderei ridurla di circa un quarto e rendere più taglienti diverse battute di Kit. Domani, però, perché sono le due e mezza. Il che vuol dire, tecnicamente, oggi…

Oh, never mind.

Si Eseguono Rammendi, Orli E Cuciture.

Con l’eccezione del Marchese di Lantenac in Novantatré, Victor Hugo aveva per massima di mandare i suoi protagonisti al camposanto prima dell’ultima pagina. E a dire il vero, non solo i protagonisti, visto che nell’Hugo medio si fa prima a contare i sopravvissuti che i trapassati…

Ma a Victor Hugo pareva di seguire così i suoi personaggi fino alla fine, di non lasciare domande senza risposta, di non abbandonare la sorte della sua gente immaginaria al caso.

O – anche se questo non poteva saperlo – agli autori di sequel.

Perché non c’è nulla da fare: lasciare in pace i classici è quasi impossibile. Prima o poi la tentazione di metterci penna è più forte di ogni altra considerazione. E siamo sinceri: non vi siete mai domandati che ne sarà di Isabel Archer dopo l’ultima pagina di Ritratto di Signora? O che cosa farà Orazio dopo il funerale di Amleto? O che ne sarebbe stato di Grantaire, se non fosse morto con Enjolras a barricate cadute? O come crescerà Alice dopo il Paese delle Meraviglie? O come sarebbe invecchiato Julien Sorel se non fosse stato condannato a morte? O da dove saltavano fuori di preciso Fagin, Jago e Brian de Bois-Guilbert?

Io sì, lo confesso. Tutto il tempo. E a quanto pare sono in buona compagnia, visto il diluvio di seguiti, antefatti, rinarrazioni, stravolgimenti – e fanfiction, ma questa è un’altra faccenda. Parliamo di narrativa pubblicata: romanzi che riprendono un classico e ci danzano attorno in vari possibili modi.

Il più ovvio è il seguito. Si prende la storia dove l’autore l’ha lasciata e si va avanti – perché onestamente non c’è lieto fine che tenga: che cosa succede dopo? Tra gli autori più saccheggiati a questo proposito c’è Jane Austen, e non è nemmeno troppo sorprendente. Visto che tutti i suoi romanzi si chiudono con un matrimonio, la domanda “e come funzionerà il matrimonio in questione?” viene quasi da sé. Per cui c’è tutta un’abbondanza di romanzi che esplorano in ogni possibile luce (dal giallo all’erotico, passando per la saga generazionale) le vicende matrimoniali delle eroine austeniane – in particolare Lizzie Bennet in Darcy, ma non solo. Mi viene in mente una cosa di cui non ricordo né titolo né nome, la cui protagonista è Susan, la sorella minore dell’insopportabile Fanny di Mansfield Park. Ma poi ci sono anche Georgiana Darcy (la timida cognatina pianista di Lizzie), le altre sorelle Bennet, Marianne ed Elinor Dashwood e chi più ne ha più ne metta.

Anche Dickens ha avuto la sua parte, con Evrémonde, di Diana Mayer, che si concentra sul figlio di Charles e Lucie Darnay – ma non prima di averci mostrato Charles prigioniero e in attesa di esecuzione. Yet again. Considerando che ho sempre trovato due processi capitali nel corso di una decina d’anni un’improbabilità non indifferente, confesso di non essere ansiosissima di leggere un seguito che ne impila un terzo sulla testa del povero Charles – ma resta il fatto che il seguito c’è.

Così come c’è Scarlett, il seguito ufficiale di Via Col Vento, che la Margaret Mitchell Foundation commissionò ad Alexandra Ripley, con discutibile successo. Non ho letto, e mi si dice che sia così così, ma non negate: tutti ci siamo chiesti che cosa avrebbe fatto Rossella l’indomani, che era un altro giorno…

E, ironicamente, il drastico metodo di cui dicevamo, non è bastato a salvare Hugo dai seguiti. François Cérésa ne ha pubblicati addirittura due a I Miserabili, mostrando ai lettori come, dopo la purissima fiamma della passione adolescenziale, Mario e Cosetta non fossero poi fatti per intendersi troppo*. Ma forse questo non sarebbe bastato a sollevare le proteste dei lettori e dei discendenti di Hugo: ci voleva la ricomparsa dell’Ispettore Javert. Ma come? Non si era suicidato? Ebbene no, dice Cérésa: ci aveva ben provato, ma era stato salvato all’ultimo momento.

Forse ancora più diffusi sono gli antefatti. Come si è arrivati alla situazione di partenza? Che cosa ha reso il tale personaggio così come lo conosciamo? Cosa è successo prima? E allora ecco Finn: a novel, che racconta le vicende dell’eponimo Huckleberry prima di Tom Sawyer, o Peter and the Starcatchers, che segue Peter Pan… be’, immagino tra Kengsington Garden e L’Isola Che Non C’è. O ancora Flint and Silver, di John Drake, che immagina la storia dei due pirati in questione prima di Treasure Island, operazione simile a quella autorizzata nel 1924 dagli eredi di Stevenson per Portobello Gold. Parte antefatto e parte rinarrazione di Jane Eyre è Wide Sargasso Sea, di Jean Rhys, che racconta la storia di Bertha Mason: come è finita nella soffitta la moglie pazza e piromane di Mr. Rochester? E simile in intento è La Bambinaia Francese** di Bianca Pitzorno, che invece si concentra sulla dolce amante francese di Mr. Rochester. Si direbbe che la caratterizzazione del protagonista maschile come abbandonatore seriale di donne abbia scatenato gli istinti rinarrativi di un sacco di gente.

O forse non solo di quello si tratta, visto che JE conta ogni genere di rinarrazioni, dal fantascientifico Jenna Starborne, al goticone Rebecca (che ha a sua volta un seguito: Mrs. DeWinter), al giovanilistico Jane, al vampiresco Jane Slayre, in cui l’eroina è una cacciatrice di vampiri part-time. Oh, never look so shocked. Non avete mai sentito parlare di Pride, Prejudice and Zombies? O di Sense, Sensibility and Sea Monsters? Mescolare classici e paranormale è l’ultima moda in fatto di rinarrazioni – e sia Grahame-Smith che Winters ci mettono tanta ironia da dipingerci un ponte, sconfinando decisamente nella parodia.

Un altro filone rinarrativo, meno recente ma duraturo, è quello di prendere un personaggio minore e mostrare la storia dal suo punto di vista. Vi dicevo che Wide Sargasso Sea e La Bambinaia Francese cominciano come antefatti e poi approdano qui, e lo stesso vale per La Vera Storia del Pirata Long John Silver (Björn Larsson) e Jacob T. Marley (W. Bennet) che, ci crediate o no, racconta Canto di Natale attraverso gli occhi del defunto socio di Scrooge – quello con le catene. Rinarrazione in senso più stretto, per tornare a Jane Eyre, è Rochester, che è esattamente quel che dice l’etichetta: la stessa storia, raccontata da Mr. R. Qualcosa di simile (anche se si tratta in realtà di un’operazione leggermente diversa) ha fatto anche Stephen Lawhead, che ha preso la storia di Robin Hood, l’ha spostata nel Galles e l’ha raccontata tre volte, incentrandola prima sul protagonista, poi su Will Scarlet e poi su Frate Tuck. E immagino che in questa categoria ricada anche Gertrude and Claudius, un punto di vista alternativo su Amleto, immaginato da John Updike.

Poi ci sono i cosiddetti companion books, come March, in cui Geraldine Brooks segue le vicende del padre delle Piccole Donne nella Guerra Civile, ovvero quel lato della storia che nel romanzo arriva solo sotto forma di lettere e cattive notizie. Non la stessa storia – ma qualcosa di tanto strettamente correlato da avere un’influenza sulla storia del romanzo ed esserne influenzato.

E infine voglio citare una forma più metaletteraria del gioco: la storia del romanzo fusa in un modo o nell’altro con la vita del suo autore – nella forma di incidenti più o meno autobiografici, più o meno reali, che possono averla ispirata. È il caso di Foe, in cui Coetzee fa incontrare (De)foe e un’ulteriore compagna di naufragio di Robinson Crusoe, oppure di Becoming Jane Eyre, che Sheila Kohler intesse intorno al periodo in cui Charlotte Brontë scrisse il suo romanzo più celebre.

E dunque vedete che non c’è limite a quel che si può fare a partire da un buon vecchio classico. Funziona? Dipende – ma il genere ha i suoi limiti. Da un lato, chi ha amato l’originale può riservare al rimaneggiamento reazioni che vanno dal disprezzo preconcetto allo sdegno più incendiario, mentre chi non ha letto o non ha conservato un particolare attaccamento, tende a nutrire un interesse limitato. Dall’altro, lavorare su un altro libro richiede un serio lavoro di equilibrismo tra omaggio e originalità – tanto in forma quanto in sostanza. Uno dei problemi più diffusi è il perenne tentativo di imitare lo stile dell’originale, operazione né facile né sempre necessaria. All’estremità opposta della gamma, interviene il livore, quando non si tratta tanto di omaggio quanto di catarsi. Se una delle principali debolezze del Marley di Bennet è quella di suonare terribilmente come un Dickens annacquato, d’altro canto la Pitzorno, nella sua ansia di correggere politicamente le innumeri riprovevolezze di Jane Eyre, fa della Bambinaia una raccapricciante collezione di anacronismi psicologici***…

Ma ci sono anche le gemme, e in ogni caso, nonostante tutte le difficoltà e i limiti, non vedo all’orizzonte un declino del sottogenere. Dopo tutto, la pulsione ad aggiustare, abbellire, ricamare, inclinare a 45° e tingere di violetto le storie è vecchia come l’umanità – e guai se non fosse così, o che ne sarebbe della letteratura?

E voi? Se vi saltasse l’uzzolo di continuare, spiegare, riraccontare o altrimenti riprendere in mano un classico, che cosa fareste?

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* E a dire il vero, chi è che, leggendo come la felicità per Cosetta fosse ascoltare Mario che parlava di politica, e per Mario ascoltare Cosetta che parlava di nastri, ha pensato che tutto ciò fosse una solida base per un matrimonio felice e duraturo?

** Sì, sì, sì: quella Bambinaia Francese. Ho le mie ragioni.

*** E sì, sì, sì: sapevate che ci sarei arrivata. E ve l’avevo detto, che avevo le mie ragioni…

Scrivendo Scrivendo…

“Tu scrivi? Che bello. Anche a me piacerebbe tanto scrivere…”

“E allora scrivi.”

“Come? Cosa? Qui? Adesso?”

“Adesso. Qui. La storia che hai in mente da sempre – oppure la lista del droghiere. A mano o al computer, o con un chiodo intinto nel tuo sangue…”

“Ah, no, sai…” (risatina) “Non ho tempo, non sono capace, devo spazzolare il mio pastore alsaziano, non so da dove iniziare, ci vuole un sacco di tempo libero, mica a tutti riesce facile come a te…”

“Sssssssì, se ne potrebbe parlare. Ma resta il fatto che l’unico modo per scrivere è cominciare a scrivere. E leggere un sacco – cosa che avresti dovuto fare prima. E studiare la teoria – cosa che puoi cominciare a fare dopo avere provato a scrivere.”

“Eh, ma ci vuole il tempo. E soprattutto ci vuole l’ISPIRAZIONE. Mica puoi metterti lì e dire ‘adesso scrivo,’ no?”

“E invece è proprio quel che devi fare. Scrivere tutti i giorni, almeno un po’. Costruirti una disciplina. Pensa, se scrivessi 500 parole al giorno, cinque giorni la settimana, in otto mesi avresti la prima stesura di un romanzo di 80000 parol…

“Orrore! Sacrilegio! Anatema! Vade retro! Stiamo parlando di Letteratura, di Arte, mica di lavoro a cottimo! Forse così ci puoi scrivere la robaccia commerciale, ma la Scrittura vera… giammai!!!” 

E a questo punto, se non ho ancora perso del tutto la pazienza, di solito faccio notare che Stevenson scrisse Treasure Island in due settimane. E che Dickens scrisse la maggior parte dei suoi romanzi consegnando X parole una volta alla settimana… 

E che poche cose giovano alla scrittura come la pratica costante e disciplinata – e le scadenze.

Detto ciò, non è che ci si sieda lì e si scriva un romanzo ex abrupto: si va in battaglia preparati. In un mondo ideale, si predispone una mappa di quel che si vuole fare, ci si procura il grosso della documentazione che servirà, si fa conoscenza con i personaggi – e poi si scrive. Si scrive la prima stesura senza fermarsi, seguendo i piani, tenendo conto degli sviluppi inaspettati, senza preoccuparsi eccessivamente dei particolari. Per le finezze stilistiche, lo spelling esatto del nome del fabbro di spade toledano e le rime estemporanee della protagonista ci sarà tempo dopo. È a questo che servono le revisioni.

E questo genere di sistema vale anche se si ha tutto il tempo del mondo, ma tanto più se cè (o ci s’impone) una scadenza. Che devo dire? È da quando ho scoperto la genesi di Treasure Island che voglio fare qualcosa del genere. Una volta l’ho fatto con una novella – 42000 parole in una settimana – ma mai con un romanzo.

In questi giorni – dopo un anno abbondante dedicato esclusivamente al teatro – mi è tornato un gran prurito di provarci, e il merito è in buona parte di Davide Mana. Perchè Davide l’ha fatto. In sei giorni. Con tanto di incendio. Sei giorni più la vasta preparazione di cui si diceva – ma in quei sei giorni DM ha messo insieme la prima stesura di un romanzo.

Awesome.

davide mana, romanzo, sei giorni per salvare il mondo,  Qui trovate* i post in cui si narra l’impresa, moorcockianamente nomata “Sei Giorni Per Salvare Il Mondo”.

Qui invece trovate 6GpSiM – Il Manuale, ovvero la serie di articoli, note e stralci d’intervista che costituiscono la base teorica dell’esperimento.Vedrete che Stevenson non c’entra affatto.

Esperimento, gioco, duro lavoro, esplorazione della struttura, narrazione. E, più di tutto, scrittura. Quella cosa che non si fa aspettando l’Ispirazione.

Riuscite a leggere tutto ciò senza volerci provare anche voi? Io – ma forse s’era intuito – assolutamente no.

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* O almeno dovreste trovarli – perché forse non sembra, ma sto sperimentando con un genere di link che non ho mai tentato prima. Se non ci riuscite fatemi sapere, per favore, e provvederò a qualcosa di più tradizionale…

 

 

 

 

E Fu La Scintilla

stephen king,alba de cespedes,branwell brontë,patrick rambaud,scritturaNel suo On Writing – quella cosa a metà strada tra una biografia e un manuale di scrittura, l’unico suo libro cui sia stata capace di accostarmi – Stephen King dice che c’è sempre un incidente scatenante, il momento in cui, leggendo qualcosa di altrui e pubblicato, l’aspirante scrittore viene colto dalla folgorazione: ma io posso fare meglio di così!

Quanto meno, così è stato per lui. Da ragazzino leggeva storie a puntate sulle riviste pulp, e a un tratto ha deciso che era capace anche lui. Non passava metà della sua vita a raccontarsene di simili?

Dopodiché, King non finge che dalla rivelazione in poi sia tutta una strada in discesa – anzi. Dopo la prima fiammata di entusiasmo cominciano le docce fredde, l’apprendimento dell’umiltà, i rifiuti, il duro lavoro… Però intanto la scintilla c’è stata, e ha spinto l’aspirante oltre la scogliera. L’aspirante ha smesso di aspirare e basta, e ci si è messo sul serio – tanto sul serio da mandare i suoi sforzi Là Fuori in cerca di fortuna.

blackwood's magazine, stephen king, branwell brontë, alba de cespedes, patrick rambaudQualcosa del genere avvenne a Branwell Brontë, noto a tutti come lo sciagurato fratello delle sue sorelle, ma con aspirazioni letterarie sue, in gioventù. A giudicare dalle lettere, fu leggendo le poesie sulla Edinburgh Review e su Blackwood Magazine che, ancora adolescente, Branwell decise che i suoi giochi letterari* meritavano platea più ampia delle sue tre sorelle. In realtà inclino a credere che il ragazzo coltivasse già un’ottima opinione di sé stesso e delle sue poesie: il confronto con quelle pubblicate sulle riviste non fece altro che spingerlo all’azione. Allora cominciò a tormentare i redattori di quelle che erano tra le maggiori riviste letterarie del tempo, sommergendoli di componimenti accompagnati da lettere introduttive in cui si definiva da sé un genio. In realtà nessuno gli diede mai retta** e col tempo Branwell abbassò il tiro: in vita sua non pubblicò mai più in grande che sulla stampa locale dello Yorkshire. stephen king, alba de cespedes, branwell brontë, patrick rambaud, scrittura

La storia di un incidente del tutto diverso, invece, ricordo di averla letta a proposito di Alba de Cespedes. Storia narrata in prima persona, letta più di vent’anni fa in un’antologia scolastica – of all places – e davvero non ricordo se fosse tratta da un romanzo o da qualcosa di più personale, ma all’epoca ebbi l’impressione di qualcosa di molto autobiografico. Ricordo con una certa precisione questa bambina sola in un salotto all’imbrunire, accoccolata sul “divanetto di seta celeste”, immalinconita per qualche motivo. E a un certo punto le “belle parole” cominciano ad eromperle dentro “dolorosamente”. La piccola Alba scoppia a piangere per l’impatto della rivelazione, e non sa come spiegare quel che succede al padre che l’ha trovata in lacrime. E da quel giorno comincia a scrivere. Nulla a che fare col confronto, e non ho idea di quanto la storia sia romanticizzata, ma ci siamo capiti.

stephen king, alba de cespedes, branwell brontë, patrick rambaud, scritturaE a dire il vero, un incidente scatenante l’ho avuto anch’io – composito. La lettura de La Bataille, di Patrick Rambaud, non scatenò nessuna certezza di poter fare di meglio***, ma mi fece domandare se non potessi fare altrettanto, e mi spedì in Francia a visitare possibili ambientazioni per una storia d’epoca napoleonica. Come poi invece finii in Vandea e cambiai periodo è un’altra storia, ma ancora mi si levano stormi di lepidotteri nello stomaco al ricordo di una certa notte insonne in una stanza d’albergo in una cittadina chiamata Cholet. La stanza era tutta bianca e verde, faceva un caldo assassino e io avevo una certezza nuova: avrei scritto un romanzo sulle guerre di Vandea. Sapevo farlo. Potevo farlo. L’avrei fatto. And sure enough, appena tornata a casa cominciai il romanzo e – cosa più rilevante – lo finii. Cosa ancor più rilevante, quindici anni più tardi sono ancora su quella strada.

Quindi, quando concordo con Stephen King in fatto d’incidenti scatenanti lo faccio per una commistione di fiducia, precedenti letterari ed esperienza diretta dell’esaltante, prometeico momento in cui la scintilla scocca e i sogni allo stato gassoso prendono fuoco****. Non è detto che funzioni, non è detto che bruci a lungo e non è nemmeno detto che conduca da qualche parte – ma a parte tutto, è un momento felice nella vita di uno scrittore.

 

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* Molta della poesia dei Brontë aveva a che fare con i mondi immaginari di Angria e Gondal – prima o poi ne parleremo.

** E a volte viene da domandarsi se qualcuno dei rifiuti non fosse motivato anche dalle lettere, perché il ragazzo poteva essere davvero obnoxious, quando voleva.

*** A parte tutto, è proprio un bel libro – battaglia di Essling con sottile taglio meta-letterario. A quanto pare la traduzione italiana non è più in commercio. Tocca cercare copie di seconda mano – o leggere in originale, che è sempre una buona idea.

*** Waxin’ lyrical, am I?