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Nov 21, 2016 - teatro    Commenti disabilitati su Delitto e Castigo

Delitto e Castigo

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Immagini c/o Teatro Campogalliani

Dostoevskij a teatro? Quegli enormi, intricati romanzi fatti per lo più d’interiorità tormentata?  Sembra un’idea da far tremare i polsi, nevvero?

Ebbene, sono vagamente (e piacevolmente) stupita di scoprire che in Italia esistono ben due versioni teatrali di Delitto e Castigo, nientemeno. E su una delle due, quella di Glauco Mauri, è caduta la scelta di Maria Grazia Bettini, regista e direttore artistico dell’Accademia Campogalliani, per l’apertura della stagione regolare nel settantesimo anniversario della compagnia.

Scelta audace – per la difficoltà del testo e perché, diciamolo, non è facile portarsi in giro Dostoevskij. Ma Grazia era affascinata dall’attualità di certi temi – un certo superomismo alla russa, l’idea che qualche forma di superiorità intrinseca giustifichi il crimine… – e dalla natura teatrale del rapporto tra il protagonista Raskol’nikov e il Giudice Porfirij, fatto di dialoghi, silenzi, menzogne e reti tese. E così ha scommesso sull’autore “difficile”, sulla riduzione di Mauri, sulle sue idee, sui suoi attori… E ha vinto. ASI

Questo Delitto e Castigo è uno spettacolo teso, denso, asciutto, pieno di ritmo e di tensione. Raskol’nikov e il Giudice si girano attorno, si studiano, si attirano allo scoperto, si tendono trappole a vicenda – ma è chiaro fin da subito che Porfirij sa esattamente dov’è diretto, mentre Raskol’nikov annaspa nel suo stesso buio, spaventato e delirante, aggrappato alle sue teorie ma inconsciamente bisognoso di essere scoperto, perso tra un’arroganza maldestra e il disgusto per la meschinità di tutto.

È una partita a scacchi ineguale, in cui uno dei giocatori si sfilaccia – mente e nervi – scena dopo scena.

CatturaE gli interpreti sono superlativi. Diego Fusari è tutto scatti, terrori, impeti, controllo che sfugge, con una gradualità, una finezza e una profondità meravigliose. E Adolfo Vaini disegna alla perfezione l’umanità amara e lucida del giudice, e l’apparenza di bonomia non perde mai il suo filo malinconico. Menzione d’onore anche ad Alessandra Mattioli, Sonja dolente e luminosa.

Questi tre e pochi altri bravi Daniele Pizzoli, Michele Romualdi e Andrea Frignani) Maria Grazia Bettini muove con raffinata sobrietà nel riquadro grigio di muri cadenti e porte polverose, che le belle luci di Giorgio Codognola trasformano di volta in volta in stanzette d’affitto, stazioni di polizia, strade notturne e luoghi della mente… Il meccanismo è perfetto, la tensione non cala mai un attimo, e due ore volano in questa esplorazione delle regioni cupe dell’animo umano. Uno spettacolo magnifico.

(Delitto e Castigo resta in cartellone al Teatrino d’Arco fino al 18 dicembre).

 

 

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Nov 14, 2016 - elizabethana, Shakespeare Year, Storia&storie, teatro    Commenti disabilitati su Enrico a Quattro Mani

Enrico a Quattro Mani

NSONel mondo anglosassone la cosa sta facendo una certa quantità di rumore – ma immagino che alla Oxford Press se l’aspettassero: The New Oxford Shakespeare, la nuova edizione critica delle opere complete di Shakespeare, pubblicata a fine ottober essendosi l’anno che è, affibbia a Shakespeare un coautore per ben 17 delle sue opere.

E a dire il vero, gliene assegna 44 invece delle tradizionali 38/39 – incluso Arden of Faversham – ma quel che appare nei titoli dei giornali sono le tre parti dell’Enrico VI, scritte, secondo Oxford, a quattro mani con Christopher Marlowe. D’altra parte, Laggiù Marlowe è molto più noto della maggior parte degli altri coautori, anche a un pubblico generale, e addirittura uno dei candidati alternativi di punta in molte delle (francamente bizzarre) teorie sul Vero Autore.4

E vi ho detto un sacco di volte che secondo me il Canone shakespeariano l’ha scritto Shakespeare – ma non necessariamente tutto da solo. C’era questo modo – probabilmente un retaggio bardolatrico e poi vittoriano – di guardare al Bardo come a un genio solitario e siderale, che produceva in orgoglioso isolamento… C’era e da qualche parte c’è ancora, visto che qualcuno grida allo scandalo a proposito delle collaborazioni. Ma d’altra parte, le teorie in proposito non sono molto più giovani delle colline: già il buon Edward Malone, che pure era un fiero bardolatra, aveva i suoi dubbi a fine Settecento. Quindi, in realtà, quel che fanno a Oxford non è terribilmente nuovo. Solo più vasto, più approfondito, supportato da nuove analisi linguistiche e statistiche – prove empiriche sufficienti a scrivere “Enrico VI, di William Shakespeare e Christopher Marlowe”.

566003394Ora, dalla fine di ottobre in qua, amici e famigliari sghignazzano su quale debba essere la mia soddisfazione in proposito… e sì, non posso negarlo. Ma non tanto – o almeno non soltanto – per via di Marlowe. Il punto è che, se non ho mai creduto alle teorie cospirative del Vero Autore, non ho mai creduto nemmeno all’idea dell’Astro Solitario. E non perché Will Shakespeare da Stratford fosse un guantaio mancato di approssimativa istruzione – ma perché non è così che funzionava la Londra teatrale al tempo della Regina Bess. Era un mondo fitto, incandescente e piuttosto piccolo, in cui tutti conoscevano tutti e collaboravano con tutti, e s’influenzavano e copiavano a vicenda… per dirla con John Donne, nessun poeta è un’isola. Perché Shakespeare dovrebbe essere diverso – e tanto più perché le sue opere lo mostrano profondamente immerso nel suo mondo? Sil2

Adesso sono molto curiosa di leggere i saggi che accompagnano l’edizione – e, dato il prezzo proibitivo dei quattro volumoni, mi sa che dovrò aspettare e confidare in qualche biblioteca. Ma intanto mi dichiaro soddisfatta, in effetti, per questa visione meno romantica di Shakespeare, e perché è davvero facile immaginare la Compagnia dell’Ammiraglio che chiede allo spregiudicato e celebre Kit Marlowe di reggere la mano all’inesperto ragazzotto del Warwickshire, pieno di buone idee ma teatralmente ingenuo da non dirsi…

Quanto poi piacesse a Marlowe la faccenda, è un altro discorso – e qui sconfiniamo in territorio narrativo. Il mio territorio, d’altra parte: sono certa che più d’una di queste collaborazioni si presterà ad essere raccontata/drammatizzata… Un altro felice prodotto del New Oxford Shakespeare.

Nov 2, 2016 - teatro    Commenti disabilitati su Campogalliani70: Allieva Benazzi a Rapporto…

Campogalliani70: Allieva Benazzi a Rapporto…

ScuolaAbbiamo parlato di tante cose a proposito dei settant’anni dell’Accademia – tra le altre la Scuola, ovvero lo strumento con cui la Campogalliani coltiva la sua continuità nel segno della grande tradizione teatrale italiana. I prossimi settant’anni (come minimo), come ha detto il Direttore Artistico, si fondano anche su questo.

E allora oggi schiudiamo i battenti della Scuola, e facciamo quattro chiacchiere con una degli allievi…

Chiara Benazzi, come sei arrivata al teatro in generale e alla Campogalliani in particolare?

come spettatrice sono sempre stata, sin da piccola, affascinata dal mondo del teatro ma allo studio vero e  proprio mi sono approcciata quasi per scherzo. Un’amica, una quindicina di anni fa, mi ha chiesto di partecipare assieme a lei a un corso di teatro, perché non voleva farlo da sola. Lei ha seguito solo le prime tre lezioni mentre io non solo ho portato a termine quel corso ma ho anche proseguito con altre esperienze tra Mantova e Verona. Alla Campogalliani sono arrivata solo lo scorso anno, anche se li ho sempre seguiti,  grazie all’indicazione di un’amica di Diego Fusari che mi ha avvisata dell’istituzione della borsa di studio per partecipare ai loro corsi.

È inevitabile arrivare a un’istituzione come la Campogalliani con delle attese – e forse anche qualche ansia:  com’è stato l’impatto con la scuola e con la vita della compagnia? La scoperta più inaspettata? Il momento che hai preferito?

Ansia moltissima, che si è però stemperata subito alla prima lezione grazie agli attori della compagnia che mi hanno fatta sentire subito parte della “famiglia”. Credo che questa sia stata anche la scoperta più inaspettata: proprio la disponibilità degli attori a condividere le loro esperienze e conoscenze, senza porsi su di un piedistallo. Vederli sempre sul palco me li aveva fatti vivere un po’ come irraggiungibili… Ai corsi si respira un’aria professionale, sì, ma anche di divertimento – e ho avuto la fortuna di avere anche compagni molto simpatici e collaborativi.
Il momento che preferisco è quell’attimo di buio e respiro trattenuto che precede l’apertura del sipario – sia che debba recitare sia che faccia da direttore di scena. L’adrenalina è forte così come l’entusiasmo. Un altro momento che amo è quello che segue lo spettacolo, quando la compagnia si riunisce per la cena e commenta la serata. Oltre ad essere divertente è anche un ulteriore momento formativo. Insomma amo vivere e respirare il teatro. man_074_01

Come ti capisco… E adesso quali sono i tuoi programmi futuri, in fatto di teatro?

Al momento sto frequentando il secondo anno di corso esplorando altre realtà teatrali, come la possibilità di scegliere le musiche piuttosto che l’illuminotecnica o la scenografia… Poi spero di continuare  a collaborare con la Compagnia.

E c’è un ruolo dei sogni  – un personaggio, un testo, un autore con cui desideri cimentarti?

In realtà due sono i testi che vorrei poter affrontare, entrambi contemporanei, che mi hanno appassionata nella lettura. Piccoli crimini coniugali di Éric-Emmanuel Schmitt e From Medea di Grazia Verasani. Sono due testi drammatici che descrivono donne apparentemente forti ma con una fragilità interiore che traspira dai loro gesti folli – o almeno questa è la mia lettura.

Ebbene, Chiara – ti auguro Schmitt e Verasani, e una felice continuazione con la Scuola.

Se, o Lettori, ve ne pungesse vaghezza, potete trovare informazioni sui Corsi di Teatro qui. E non abbiamo finito con Campogalliani70, ma può darsi che saltiamo la prossima settimana…

Ott 28, 2016 - teatro    Commenti disabilitati su Campogalliani70: Alle Luci con Giorgio Codognola (II Parte)

Campogalliani70: Alle Luci con Giorgio Codognola (II Parte)

Rieccoci qui, ad esplorare il lato tecnico del teatro – e in particolare dell’Accademia Campogalliani – con Giorgio Codognola. Gli abbiamo chiesto dei suoi inizi, dei suoi spettacoli prediletti e dei momenti più avventurosi. E adesso…

Com’è cambiata la vita dietro le quinte attraverso gli anni, nel rapporto tra palcoscenico e tecnologia?

TeatroPer tanti anni ho fatto anche il sonoro, finché non è arrivato Nicola [Martinelli]. C’erano commedie più semplici, con pochi cambi di scena, facili da gestire. Poi abbiamo cominciato a fare cose più complesse – addirittura una con settantadue cambi di scena… gente che entra ed esce in continuazione, cambi luci… Non si riusciva a fare con un piccolo regolatore. Allora abbiamo comprato un regolatore a ventiquattro canali con le memorie. Era il primo di quel tipo che usciva. l’abbiamo acquistato da una ditta locale che lo importava dall’Inghilterra e, a metà anni Novanta, costava tre milioni. Erano apparecchiature nuove e costosissime, all’epoca, a livello professionistico. Costava una cifra spropositata, ma ci ha consentito di mettere in scena cose molto complesse. Sono dell’idea che valga sempre la pena di avere il meglio, in fatto di tecnologia, e ho sempre cercato di averlo. Il fatto che anche per il mio lavoro mi occupassi di cercare impianti, materiali e macchinari era d’aiuto: sapevo dove andare a cercare. Ho sempre voluto le cose più moderne, e adesso saranno vent’anni che non abbiamo problemi con le luci. Poi quando andiamo in giro e incontriamo dei service vado subito a curiosare, e vedo che le mie attrezzature sono uguali a quelle dei professionisti. Ho speso tanto, ma alla fine ne è valsa la pena. Quel che costa poco va a catafascio presto. Naturalmente tutto questo vale anche per il sonoro. È facile trovarsi nei guai con la musica… Quando siamo andati a Nevers con gli Innamorati avevamo un registratore a nastro a otto piste. Il mio predecessore era abituato a tenere su quelle enormi bobine, in un senso e nell’altro,  tutte le commedie… Quindi va’ a pescare quella giusta! E quando siamo arrivati a Nevers, mentre scaricavamo dal pullman il cassone del registratore è caduto per terra. Mamma mia…! Per fortuna si è rotto solo il coperchio, ma non t’immagini la paura.
Una delle cose più paurose – e ridicole, perché dopo ci abbiamo riso su – è stata una volta a Pesaro, dove facevamo una commedia con un gruppo di ragazze che dovevano ballare. E al momento di partire… la musica non c’era. Allora loro si sono messe a cantare per accompagnarsi, e dopo abbiamo scoperto che si era staccata una spina. Capita. Adesso abbiamo imparato a stare molto attenti, leghiamo tutto… si impara da queste tragedie.

È chiaro che hai da fare in abbondanza dietro le quinte – ma in tutti questi anni non hai mai, ma proprio mai recitato?

Sì, una volta. In una trasferta dalle parti di Casalmaggiore. Facevamo una commedia in dialetto, Trenta Secondi d’Amore. Uno non era venuto, e dovevo fare la sua parte, e poi correre a fare le luci. All’apertura del sipario del secondo tempo, dovevo fare il paziente del dentista, che era Adolfo. Allora ero là, girato di spalle. Si apre il sipario, e io… Che cosa devo dire? Non mi ricordo più nulla. Passa un’eternità, entra Adolfo e mi dice “Va bene, va bene, se ne vada.” Io esco con il cuore in gola, la pressione non so dove, sudato come una bestia… “Ma cosa dovevo dire?” “Niente!” E ho capito che lì sopra non ci sarei andato mai più. L’esperienza mi è bastata: mi sembrava di morire. Che poi fuori fai cose più critiche che star seduto su una poltrona senza sapere che cosa dire. A volte ci sono emergenze, imprevisti, lampade che non funzionano… Ho sempre avuto la fortuna di restare calmo e trovare la soluzione immediata senza troppi problemi. Quello è sempre stato, e me lo dico da solo, un mio pregio: non perdo la testa. Il che è un bene, perché è facile sbagliarsi, e gli errori capitano – ma una delle cose che impari è minimizzare gli errori. Quello mi piace – ma sul palcoscenico… mai più!

Voi vi spostate spesso, frequentate rassegne e concorsi in tutta l’Italia e all’estero, e portate in giro i vostri spettacoli in ogni genere di posto. Questo complica molto la vita, immagino… Gioie e dolori del tecnico delle luci itinerante?Cattura

Ti dirò che da un po’ di tempo abbiamo preso l’abitudine di andare a vedere che cosa c’è nei posti, giusto per sapere che cosa ci aspetta – ma andiamo sempre attrezzati per essere autosufficienti, con il nostro materiale che ho progettato come un meccano, da potersi montare senza usare attrezzi. Anche quando andiamo nei teatri grossi, come Pesaro o Macerata, dove ci sono grandi impianti e tanto personale tecnico, ci portiamo sempre il regolatore – perché il mio lo so usare, ma il loro… chi lo sa? Un anno siamo andati a Imperia: bel teatro grosso, un sacco di fari e un banco luci da qui fin là. E l’operatore non lo conosceva e non sapeva usarlo. Ma abbiamo fatto presto: abbiamo tolto il cavetto – benedetto il digitale! – abbiamo attaccato il mio regolatore, e via così. L’importante è avere buon senso in fatto di sicurezza, stare molto attenti e provare tutto. Se lo spettacolo dura due ore, bisogna far andare tutto per due ore – e mai spegnere prima di cominciare – perché quel che è acceso va, ma se spegni non sai mai se si riaccende. Sono cose che impari piano piano. Bisogna essere sempre preparati a tutto, e così non ci siamo mai trovati in guai che non potessimo risolvere, nemmeno nei teatri più strampalati, nemmeno nei teatri parrocchiali dove non c’è una spina nell’angolo in tutto e per tutto. Però andando per teatri grossi, c’è sempre da imparare dai macchinisti, la gente che monta le scene e le quinte, le attrezzature. Soprattutto dove ci sono i tecnici di una certa età, gente che ha la tecnica, falegnami e macchinisti eccezionali da cui abbiamo imparato tante, tante cose. Poi se vedono arrivare gente non del tutto sprovveduta, che sa come muoversi, condividono volentieri. A Pesaro è capitata per la prima volta una compagnia di Livorno, abituata a lavorare con sei fari. Al Rossini ce ne sono duecento. Sono andati in crisi, poverini. Non sapevano più dove andare… Noi ci siamo fatti la fama di gente che lavora a livello professionale e per lo più ci lasciano fare, e ci siamo trovati bene – quasi sempre.

Grazie, Giorgio. È stato molto interessante scoprire un aspetto della vita teatrale inconsueto e intrigante. La settimana prossima andremo a curiosare tra gli allievi della Scuola.

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Ott 26, 2016 - teatro    Commenti disabilitati su Campogalliani70: Alle Luci con Giorgio Codognola

Campogalliani70: Alle Luci con Giorgio Codognola

Rieccoci qui con Campogalliani70. Abbiamo parlato con presidenti, registi, attori… Ebbene, questa settimana facciamo due passi dietro le quinte, accompagnati dallo storico tecnico delle luci (e non solo) Giorgio Codognola.

Lighting-Grid- Allora, Giorgio, prima curiosità: sei arrivato al teatro attraverso le luci o alle luci attraverso il teatro?

Io sono di origini chimiche. Ho lavorato 35 anni nella chimica – materie plastiche – però ho sempre avuto una passione per l’elettronica, e da ragazzotto  le mance di mio nonno andavano in Scuola Radio Elettra, e lì ho imparato i rudimenti di molte cose. E un giorno Signoretti, che lavorava in Comune con mia moglie le ha chiesto se non potevo andare a vedere di far qualcosa con la Campogalliani… Allora sono venuto qui. Aldo mi ha presentato il mio predecessore, Alberto Camurri, e con lui ho cominciato piano piano a fare l’impianto del teatro. L’abbiamo proprio costruito noi, fisicamente. Allora il teatrino non era ancora il Teatrino. Dopo un anno che ero qui hanno cominciato gli scavi per fare la platea a gradinata che vedi adesso. Poi ho cominciato a occuparmi delle colonne sonore con delle apparecchiature che all’epoca erano abbastanza buone, ma rispetto a oggi mi sembrano antidiluviane… Registratori con delle bobine da trenta centimetri, e fari che si dovevano smontare ogni volta che andavamo fuori. Ne avevamo talmente poche… Poi un po’ per volta, negli anni – e sempre seguendo tutte le norme di sicurezza – abbiamo costruito tutto quanto. Mi piace molto preparare gli impianti da un punto di vista fisico e pratico, risolvere problemi, fare le cose. Io monto le spine e i cavi, per dire… Non c’è filo, non c’è tenda che non sia passata per le mie mani in questi anni.
Quindi sono le luci e l’aspetto tecnico che mi hanno portato al teatro, e non viceversa. A me piace molto costruire, risolvere problemi, fare le cose. Poi, sotto la direzione di Signoretti, che era veramente un mago, ho imparato a usare le luci. Non che mi  abbia mai insegnato in senso stretto, ma io stavo sulla scala e lui giù, e mi dava indicazioni, “Destra, sinistra, alto, basso, stringi un po’, allarga un po’…” E così ho acquisito la pratica del disegno luci. Poi la parte teorica me la sono costruita un po’ per conto mio, leggendo cose come il Trattato di Scenotecnica – che è ancora basilare. C’è materiale sulle tecnologie nuove, naturalmente – ma la teoria generale è ancora quella, e a fare testo sono ancora le vecchie apparecchiature con i fari come abbiamo qui, con le gelatine, le lampade…

 Con i quali, in questi anni, hai illuminato davvero tanti spettacoli. Qual è il tuo preferito?Re Lear

Ce ne sono tantissimi. Tutti quelli dove c’è movimento, cose “strane” da fare. Re Lear, per esempio, che aveva degli effetti di luci e colori, delle situazioni davvero belle e notevoli… Ma a me di solito piacciono tutti quelli che faccio, anche perché tutto sommato io devo solo interpretare il desiderio del regista. Ti chiedono cose come “una luce lunare, fredda” – e all’inizio ti affanni a cercare un effetto lunare e freddo, chiedendoti se sia proprio quello che vogliono… Poi si impara a intendersi su quello che si vuole: tonalità, effetti… Poi c’è il fatto che questo è un teatrino piccolo, con i soffitti bassi, e abbiamo montato un’infinità di fari, cosicché riusciamo a ottenere effetti che non sarebbero possibili con un palcoscenico più alto e più grande. Al contrario, ci sono cose che riescono meglio con un impianto più alto – ad esempio concentrare la luce senza che si spanda… Una volta abbiamo fatto una commedia la cui scena aveva delle vetrate. E quando eravamo quasi pronti ci siamo accorti che dalla platea si vedevano i fari attraverso le vetrate… Il che non va bene, perché distrugge l’illusione scenica, che invece va mantenuta a tutti i costi. Abbiamo risolto chiudendo la parte alta delle vetrate, e tutto è andato bene.
Una soddisfazione diversa e particolare è stato il Sogno di una Notte di Mezza Estate fatto con delle attrezzature davvero primitive. L’abbiamo fatto qui e in giro. Una volta a Vicenza, in un giardino privato, con tre lampade per terra. L’importante è sapere dove posizionare quello che hai. Con quelle tre lampade, sfruttando i cespugli e le ombre del giardino, abbiamo fatto una cosa meravigliosa.
E chiaro che poi ci sono cose come le dialettali, dove accendi e spegni e basta, e quelle non sono di gran soddisfazione – ma anche in quelle bisogna essere attenti a come si dà la luce. Troppo poco, troppo, troppo in fretta… È un attimo rovinare l’atmosfera del momento e fare disastri.

E parlando di disastri, quali sono stati i tuoi peggiori incubi scenotecnici?

lightboardL’incubo peggiore è stato durante una trasferta a Bari. Noi ci siamo portati tutto, caricando sulla corriera le luci che là non c’erano. Arriviamo a Bari, montiamo quello che dobbiamo – e io mi accorgo di non avere il regolatore delle luci. La centralina dei comandi era rimasta a casa. Era mezza mattina, e la sera dovevamo recitare… Per il resto della giornata ho girato mezza Puglia con uno del posto, racimolando unità di potenza qui e là. Abbiamo messo insieme qualcosa e abbiamo cominciato – ma mano a mano che procedevamo con la commedia, i canali saltavano uno dopo l’altro. Sono arrivato alla fine con pochissima luce – quasi niente. Che stress! La mia esperienza più tragica. Se lo ricordano ancora tutti… Ma da tutto si impara. Per esempio, abbiamo imparato che, quando si arriva in un posto, prima di tutto bisogna vedere dove sono gli interruttori. Così anche se saltano le luci e bisogna andare fuori dal teatro nel buio, sappiamo dove andare. E succede, sai? Sono avventure.

E di altre avventure parleremo venerdì, nella seconda parte dell’intervista a Giorgio Codognola.

Ott 24, 2016 - teatro, Vitarelle e Rotelle    Commenti disabilitati su Di Madri Single e di Zuccheriere

Di Madri Single e di Zuccheriere

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Capita, per varie ragioni, che si venga a riparlare di Compagni d’Ombra/Bibi e il Re degli Elefanti, e “Ma questa bambina non ce l’ha un padre?” mi domanda M.

No, spiego che non ce l’ha. Era originariamente previsto, ma poi è stato cassato perché non c’era lo spazio né la necessità di portarlo in scena.
“Ma potevi almeno nominarlo,” insiste M. “Come si parla del nonno, perché non parlare anche del padre?”

In realtà no, non lo si poteva nominare. Se ci fosse, il padre dovrebbe essere lì quando fanno il trapianto di midollo a sua figlia, oppure avere delle ottime ragioni per non esserci – ragioni che andrebbero dettagliatamente spiegate.
“Magari lavora all’estero,” suggerisce M. – ma francamente non basta. Da che diamine di lavoro non può prendersi qualche giorno per il trapianto di sua figlia? Con M. ci siamo lanciati in speculazioni selvagge – piattaforma petrolifera? Stazione spaziale? Negoziati di pace? Spionaggio? – ma il fatto è che tanto la sua presenza quanto, in alternativa, le spiegazioni dell’assenza, appesantirebbero inutilmente la vicenda. I nonni, on the other hand…  Be’, ok: in origine non se ne vedeva nemmeno l’ombra, ed erano dove sono per l’ottimo motivo che un loro problema di salute costringe la madre di Bibi ad assentarsi la notte prima del trapianto: era un particolare importante che faceva procedere la storia, e al tempo stesso giustificava perfettamente il fatto che i nonni non si vedessero mai in scena.

Poi, quando si è trattato di aggiungere un quadro alla versione lunga, ho considerato l’ipotesi di aggiungere il padre, ma non l’ho fatto. Per quello che volevo fare la nonna funzionava meglio, e poi le questioni matrimoniali dei genitori avrebbero inevitabilmente spostato il baricentro della storia da dove volevo tenerlo… Così niente padre. Nessuno lo nomina mai, e il pubblico è libero di decidere se la madre di Bibi sia single, maldivorziata o vedova…

Dopodiché M. è professionalmente predisposta per considerare valido l’argomento del baricentro narrativo – e nondimeno, “Ma povera donna!” ha commentato “Figlia malata, madre con l’ictus e pure vedova da giovane?” Vero anche questo, per cui magari vedova no. Inclino per l’opzione madre single. Ma d’altra parte, diciamo la cinica verità: non ci dispiace ancora di più per lei, sapendo che non ha nemmeno un marito a cui appoggiarsi?*

Ricordo di avere letto che Renzo Tramaglino è orfano di entrambi i genitori, mentre nessuno – ma proprio nessuno – spende mai un pensiero per il padre di Lucia. Una genitrice su quattro è un personaggio favoloso e un caposaldo della trama; due (distribuiti in qualunque modo) avrebbero sollevato simmetrie o asimmetrie e conseguenti necessità di divagazioni; tre o quattro sarebbero stati d’ingombro. Manzoni ha scelto la soluzione più elegante, quella che giova meglio alla struttura del romanzo e che si spiega perfettamente con l’aspettativa di vita dell’epoca.PP
Infine, una rimembranza d’infanzia. Nel delizioso Penny Parrish, di Janet Lambert**, durante le prove di una commedia, il regista raccomanda alla protagonista eponima di non girare per il palco portando la zuccheriera a tutti i membri della famiglia. “A nessuno importa se la zia Carrie beve il caffè amaro, e andando da lei impalli un sacco di gente.” Lo zucchero della zia Carrie sarebbe un particolare realistico, ma è innecessario e nuoce alla scena? E allora lo zucchero della zia Carrie è destinato all’oblio – perché la logica interna della narrazione, se è abbastanza solida, diventa una specie di realismo interno, che (e tanto più a teatro) finisce per essere più importante del realismo assoluto.

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* E se è vero che tutto quel che è sulla pagina deve servire a tutti gli scopi possibili, mi piace proprio questo padre, che nemmeno c’è e serve ad aggiungere uno strato di ricatto morale… Che pessima gente questi scrittori, eh?
** Invece di parlarvi di Penny Parrish, vi rimando a questa recensione – che condivido in pieno (a parte il fatto che non ho più ripreso in mano PP da molto tempo). Tra l’altro, se non siete rabidly antiamerican, potete sorridere al commento con l’interpretazione complottista – la cui autrice, a decenni dal Piano Marshall, ci penserebbe bene prima di far leggere un libro simile a sua figlia…

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Ott 21, 2016 - teatro    Commenti disabilitati su Campogalliani70 – Adolfo Vaini (II parte)

Campogalliani70 – Adolfo Vaini (II parte)

Rieccoci qui con Campogalliani70. E riprendiamo la nostra chiacchierata con Adolfo Vaini che, quando ci siamo interrotti, ci stava dicendo di ritenersi soddisfatto della sua carriera…

Carriera  impegnativa, perché voi sarete anche una compagnia amatoriale, ma lavorate a livelli da professionisti – come risultati e come impegno. Come si organizza la vita quotidiana attorno a questo livello di impegno?

Untitled 16Ho la fortuna di essere libero professionista. Io non lavoro otto ore in miniera, e quindi anche se lavoro mezza giornata, il resto è dedicato al teatro, allo studio delle parti e poi alle prove qui, la sera. Le due cose non s’intralciano. Quando studiavo, al Liceo, e andavamo in trasferta e tornavamo alle due di notte, poi la mattina a scuola dormivo sui banchi, letteralmente – e non potevo dire a mio padre: sto a casa perché sono andato a recitare. Mi uccideva. Ma non ho mai pensato di smettere perché facevo fatica a scuola. Ho sospeso per un anno, quando ho finito la quarta ginnasio con un quattro e due cinque in pagella,  e mio padre mi ha detto: quest’anno tu non reciti. Ho saltato quell’anno – soffrendo moltissimo – però poi ho ripreso ad andare bene a scuola, e sono tornato a recitare.  E a dire il vero io avrei voluto fare il professionista, però i miei non volevano. Ho di dire che potevo fare Scienze politiche – mezza giornata di scuola e metà di università – ma ero osteggiato in modo radicale…. e d’altra parte ai miei tempi il pezzo di carta era importantissimo. Allora ho scelto Medicina e ho abbandonato l’idea. E dire che gli anni Settanta sarebbero stati il periodo d’oro, se avevi qualità, sia in teatro che nel doppiaggio. Adesso sarei non dico un nome, ma uno di quelli consolidati, perché era un momento favorevolissimo. Adesso c’è la pletora: tutti vogliono fare i professionisti, basta che siano appena bravini, ed è un disastro. Troppi non hanno le qualità. Qui da noi, tra le centinaia di allievi che abbiamo avuto, conto due persone a cui avrei consigliato di provarci. Il fatto è che essere bravi non basta, e pochi hanno le qualità e il carattere. Ci vuole un sacco di pelo sullo stomaco e un sacco di determinazione, perché se si perde un ingaggio non si mangia per due mesi. Quando mi chiedono consiglio, mi viene sempre da dire di non provare la via del professionismo. Poi non lo faccio, perché al loro posto io ci proverei – ma vanno incontro a grandi delusioni. C’è posto per pochi. A parte tutto il resto, mancano i fondi e si fanno produzioni piccole e con poche persone. E poi c’è da dire che adesso dalle scuole escono tutti un po’ uguali. Sento gli attori, e sembrano tutti fatti con lo stampino…

Ah, bravissimo: gli allievi. Parliamo della scuola di teatro, di cui tu sei presidente. Com’è strutturata? Che cosa ha di speciale?Untitled 15

Sì, sono il presidente – quello che taglia i nastri e mangia le torte… Non ho diretta esperienza di altre scuole, a parte uno stage di una settimana che Diego [Fusari] e io abbiamo fatto in Toscana. Noi ricalchiamo il curriculum delle scuole italiane classiche – come il Piccolo di Milano o lo Stabile di Genova. Facciamo teatro impostato sulla parola: recitazione, mimica, dizione, respirazione… le cose classiche – a differenza di altre scuole che si concentrano di più sulla gestualità e sull’improvvisazione. Ecco, il famoso corso in Toscana era un lavoro di ricerca e improvvisazione su un Riccardo III completamente stravolto. È servito ad arricchirci, è stato un’esperienza nuova – ma noi facciamo altro. Come all’Accademia, solo che invece di otto ore al giorno, noi ne facciamo due alla settimana. Mentre è sempre stato sottinteso che i migliori sarebbero stati inseriti nella compagnia, adesso è un principio base della scuola: chi ha le qualità entra. E non è solo questione di recitazione: abbiamo introdotto qualcosa che si fa di rado: l’insegnamento degli aspetti tecnici. Fonica, luci, costumi… Ed è una cosa utile per dilettanti e professionisti. Conosco un professionista che non solo recita, ma ha imparato a fare l’addetto alle luci e alla fonica – e di conseguenza lavora sempre, anche di questi tempi in cui c’è lavoro per pochi. E poi non tutti possono essere prim’attori. Chi è scarsino può dedicarsi anche ad altre cose, e alcuni si sono appassionati al lavoro dietro le quinte e continuano a frequentare facendo i tecnici. Un suggeritore, qualche fonico… e di questo siamo molto contenti. Poi è chiaro che, per entrare nella compagnia, serve la capacità d’impegnarsi quanto noi. Quelli che vengono ogni tanto, che non hanno tempo, che devono andare al mare… tanti saluti! E ti dico una cosa: la maggior parte di quelli che rinunciano a una parte lo fanno perché non sono disposti a impegnarsi, oppure per una certa presunzione. Non voglio dire che è una cosa di oggigiorno – perché poi sembro vecchio – ma vogliono subito delle parti importanti. E invece la gavetta si deve fare. Si comincia dalla particina e poi, se si merita, si va su. Per carità, il teatro è anche così. Chi dice che recita per  fare cultura… bah. Sì, c’è anche quello, ma si va sul palco per narcisismo e vanità. Io, per lo meno, sono fatto così. Però serve anche l’umiltà di imparare – però l’umiltà non è sempre facile.

Secondo te le cose sono diverse nel mondo anglosassone?

Untitled 17Ah, sai – là fanno sul serio. Là è una religione, il teatro. Ci mettono dentro il meglio di tutto: soldi, impegno… – e vanno avanti quelli davvero bravi. Forse è un segno di una civiltà diversa, e il risultato è che anche nelle parti piccole sono tutti bravissimi. È raro vedere un cane che recita, là. Per me il teatro londinese è il massimo. Il mio sogno sarebbe dire “Il pranzo è servito” su un palcoscenico a Londra. Mi accontenterei di una battuta così, qualcosa che possa imparare in un Inglese decente.  Sarebbe la gioia più grande della mia vita.

Che dire? Ti auguro che possa succedere.

Grazie, cara. E adesso non mi chiedi il mio ricordo preferito della mia vita teatrale?

Ma sì che te lo chiedo: qual è il tuo ricordo preferito…?

Per essere sinceri, non è una parte o un momento sul palcoscenico. Il mio ricordo più bello è diagbynight una sera tardi, ad Agrigento. L’indomani recitavamo davanti alla casa di Pirandello, in Contrada Caos, e c’era un caldo bestiale. Di montare le scene di giorno non se ne parlava nemmeno. Così ci siamo andati dopo cena – e sai com’è la Sicilia… Diciamo che avevamo ben mangiato e ben bevuto, e nessuno aveva voglia di tornare in albergo. Dev’essere stata l’unica volta in vita mia in cui ho aiutato a montare le scene… Ero piuttosto allegro, e mi ricordo che giravo per il palco con la livella, controllando di qua e di là e chiedendo “È a bolla?” a nessuno in particolare – in questa notte siciliana calda e bellissima, nei posti di Pirandello, con l’idea di recitare lì il giorno dopo… Ecco, quello è davvero un ricordo meraviglioso.

E su questa immagine dell’attore ebbro d’arte, dello spirito di Pirandello e di buon vino siculo che si aggira nella notte brandendo una livella, ci congediamo per questa settimana. Campogalliani70 ritorna mercoledì prossimo.

 

Ott 19, 2016 - teatro    Commenti disabilitati su Campogalliani70: Adolfo Vaini

Campogalliani70: Adolfo Vaini

Rieccoci qui con i membri  dell’Accademia Campogalliani. Dopo la presidente e la regista nonché direttore artistico, oggi è la volta di un attore. Andiamo a incominciar…

FofoAdolfo Vaini, cominciamo con la domanda di rito: che cosa ti ha portato al teatro in generale e alla Campogalliani in particolare?

Io ho cominciato a fare teatro a nove anni. Recita scolastica importantissima, che coinvolgeva tutte le scuole di Mantova, circa 400 allievi. Abbiamo fatto due o tre recite al Sociale, e si chiamava Le Diavolerie del Mago Zurlì. Io ero il mago Zurlì, e il maestro mi ha detto: tu quest’anno non studiare, perché devi imparare la parte – e già questo era un’investitura rispetto agli altri. Abbiamo debuttato, e alla prima battuta ho detto “scusate” e sono tornato indietro. Applauso clamoroso. E quello che mi ha colpito di più era che, mentre le comparse erano tutte nei cameroni, io che ero il protagonista avevo un camerino tutto mio, con le caramelle. E poi gli applausi… ah! Che cosa mi ha portato a teatro? La vanità. Poi, quando ho avuto quattordici anni, in parrocchia si sono ricordati di me e mi hanno chiamato in compagnia a fare una parte in una commedia tipica dei repertori parrocchiali: Ho Ucciso Mio Figlio, di tale Pazzaglia, su una vocazione mancata, osteggiata dalla famiglia… Una roba di una drammaticità spaventosa. Cast tutto maschile, perché le donne non erano ammesse. E quello è stato il mio debutto “serio”. Il guaio è che non avevamo un regista vero e proprio, e  quindi non riuscivamo mai a combinare nulla, finché non è arrivato Bissoni della Campogalliani. Poi ho fatto teatro dialettale fino a vent’anni, ma mi andava stretto, perché volevo recitare in lingua. E già quelli della Campogalliani erano venuti a vederci e mi avevano notato, e io avevo chiesto di poter entrare. Prima, in realtà, sono andato al Teatro Minimo da Garilli, perché mi piaceva l’idea di questo teatro impegnato e moderno… Dopo tre mesi sono scappato via, perché erano di una serietà mortale, di una tristezza… sembrava sempre che ci fosse il morto in casa. E invece a me piaceva la compagnia, così dopo tre mesi sono  scappato dalle prove di un testo sui Nazisti, e sono entrato in Campogalliani. Avevo 21 anni – e il bello è che sono uscito dai Nuovi perché non volevo più fare dialettale, e la prima commedia che mi han fatto fare qui è stato Viva Al Cine – in dialetto. Però poi ho fatto gli Innamorati, e ho cominciato ad avere delle parti un po’ importanti. E questo è l’inizio.

Sei qui dal Settantuno – mezza vita. Ruolo preferito in tutto questo tempo?rs_0006_03

In assoluto, sia perché mi permette di dare sfogo alla mia mimica e alla mia voce, e anche filosoficamente come personaggio, Dolittle in Pigmalione. Sono innamorato di Dolittle. L’ho ripreso in mano per la rappresentazione al Sociale, e ho goduto nel ripassare. D’altra parte, sono così, io: nella vita godo con poco o con tanto – l’importante è che non abbia vincoli. Nemmeno il vincolo dei soldi: i soldi li spendo, ne godo, proprio come Dolittle. Mi ci riconosco e mi dà l’occasione di sfoggiare le mie qualità.

E il ruolo che vorresti tanto recitare?

No, mai avuto questo genere di pensieri. L’importante è avere un personaggio che mi obblighi a soffrire per entrarci. Quella è la grande soddisfazione. Se è facile, se è troppo nelle mio corde, non mi soddisfa. Dev’essere qualcosa che mi trasforma, arrivando a capire psicologicamente il personaggio. È qualcosa che mi ha insegnato Grazia (Bettini). Aldo (Signoretti) era un grande regista, ma dirigeva in tutt’altro modo, usava gli attori per cliché: attore comico, attore brillante, attore drammatico… E per tutta la vita si faceva quello, senza cambiare più. Grazia invece no. Presenta personaggi diversi e ci fa lavorare sulla psicologia di ciascuno. Non dice mai di fare l’una o l’altra intonazione, come le scimmie. Bisogna arrivarci, capirlo. Penso che la parte con cui Grazia mi ha cambiato come attore sia stata in Sei Donne Appassionate – praticamente Otto e Mezzo di Fellini. Avevo un personaggio radicalmente diverso da me, per cui ci ho messo molto, mi sono impegnato molto, e alla fine ce l’ho fatta ed è uscito un personaggio meraviglioso. Da quel momento ho cominciato ad amare Grazia non solo come donna e moglie, ma anche come regista, Ma, per rispondere, non ho desideri di fare personaggi particolari. Sono aperto alle scoperte. Spesso, davanti a un personaggio nuovo, mi capita di dirmi che non ho mai fatto niente del genere, che non sarò capace… Ma Grazia mi ha insegnato a superare questi ostacoli e raggiungere buoni risultati.

E invece qual è in personaggio che ti ha dato più difficoltà? Il più faticoso, oppure quello di cui sei meno soddisfatto…

Malvolio-Adolfo-Vaini-369x450Il tuo Virgilio è stato difficilissimo da un punto di vista mnemonico – ma forse… Ecco, nella Finta Ammalata dovevo fare il sordo e renderlo comico. Processo molto lungo e molto difficile, perché non è facile far ridere con la sordità. Difficile. Poi non mi ha dato gran soddisfazione il mio personaggio in Rebecca. Parte secondaria, senza spessore, senza niente… bah. E invece un personaggio che detesto è Malvolio. Non lo vedo, non riesco ad avere simpatia, non ho feeling. Lo faccio, sì – ma non me lo sento addosso. Poi all’inizio ho toppato qualche interpretazione, magari perché diretto male. La direzione è importante, perché raramente un attore riesce a essere anche regista di se stesso, e quindi forse do più la colpa a chi mi ha diretto male. Però posso dire di essere soddisfatto della mia carriera.

***

Il che è un’ottima cosa… anche se devo confessare che a me il Malvolio di Adolfo piace proprio tanto. Per oggi ci fermiamo, ma venerdì Adolfo torna, per parlare ancora un po’ di teatro.

Ott 17, 2016 - Shakespeare Year, teatro    Commenti disabilitati su Shakespeare in Words a Castellucchio

Shakespeare in Words a Castellucchio

Ammaccati e doloranti (io, almeno) – ma indomiti, torniamo con Shakespeare in Words al Teatro SOMS di Castellucchio:

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Verba volant? Sarà – ma nel volare, dice Will Shakespeare, sono capaci di cambiare i destini dei singoli, delle città, dei regni, del genere umano…

Venite a scoprirlo insieme a noi, venerdì 21 ottobre a Castellucchio. Vi aspettiamo!

Ott 12, 2016 - teatro    Commenti disabilitati su Campogalliani70 – Intervista a Maria Grazia Bettini

Campogalliani70 – Intervista a Maria Grazia Bettini

Rieccoci qui con la serie di interviste in celebrazione del settantesimo anniversario dell’Accademia Campogalliani, e alla scoperta di storia, avventure e meraviglie della più longeva e premiata compagnia amatoriale d’Italia. Oggi si parla di regia.

GraziaMaria Grazia Bettini, regista e direttore artistico, come sei approdata all’Accademia Campogalliani?

Ho iniziato a fare teatro come attrice in una piccola compagnia del paese dove sono cresciuta. Sognavo di fare l’attrice ma, come tanti, avevo i miei genitori che disapprovavano e mi chiedevano di rinviare a dopo gli studi classici. Terminata l’Università e prese altre strade, ho deciso di provare in una compagnia importante di Mantova e quindi ho chiesto al Direttore artistico della Campogalliani. Aldo Signoretti mi aveva visto recitare e aveva apprezzato una mia regia (Aspettando Godot di Becket), e dopo un’esperienza come attrice mi ha proposto di affiancarlo nella regia. La visione e l’entusiasmo sono schizzati alle stelle e non ho mai smesso in questa attività.

Il tuo spettacolo preferito in questi anni?

Ne ho molti, ma Gli Occhiali d’Oro, che Alberto Cattini ha ridotto dal romanzo di Giorgio Bassani, rimane nel mio cuore come il preferito. Avevo letto il romanzo e visto il film. La sceneggiatura era stata pubblicata proprio grazie al Professor Alberto Cattini, critico cinematografico, al quale ho proposto questa avventura teatrale. I temi di grande attualità (omosessualità, razzismo, prevaricazione, dittatura, etc.) potevano essere riproposti al pubblico con una nuova scrittura. Avevo gli attori perfetti (Mario Zolin, Diego Fusari, Andrea Flora, Rossella Avanzi e tutti gli altri), che mi hanno seguito nella costruzione di uno spettacolo fatto a flash, come lampi di vita e di memoria. Ho sentito più di altre volte di avere ottenuto un risultato che arrivava diretto al cuore e alla mente degli spettatori. Quello che desidera di più un regista!

 E il titolo che prima o poi vorresti proprio dirigere?

Ogni regista ha nel cassetto dei testi  “desiderati”, tra cui un Dracula , Rumori Fuori Scena, e Il Giardino Dei Ciliegi, ma con la Campogalliani molti sogno li ho realizzati.

Che cosa spinge un attore verso la regia?

Il controllo di tutti gli elementi dello spettacolo, perché ha una visione globale. Il regista interpreta il testo oppure ne fa una lettura fedele e quindi dirige gli attori e tutti i collaboratori verso la propria idea. Io tendo per carattere a provare soddisfazione proprio nell’esprimermi attraverso tutto lo spettacolo e non solo attraverso il personaggio. Leggere un testo e capire che lo si vuole veder vivere sulla scena come se prendesse vita nuova, rappresenta per un regista la realizzazione della propria immaginazione e fantasia artistica. Naturalmente il regista deve scegliere un testo se ha gli attori e le possibilità tecniche e di spazio, e non solo per il desiderio di farlo.

Tra le tante compagnie amatoriali italiane, che cosa rende la Campogalliani speciale – e così longeva?

La continuità, la longevità, la crescita dipendono solo dalle persone che compongono la compagnia e che mettono da parte le antipatie, gli asti, le invidie e anche solo i diversi modi di vedere le cose per l’obiettivo principale, che è fare teatro di qualità.

E adesso? Che cosa vi proponete per i prossimi settant’anni?

Sicuramente altri 70 anni, e questo significa far crescere nuovi artisti in tutti i campi. La Scuola che dirigiamo è pensata proprio per questo motivo: trovare attori, tecnici e anche semplici innamorati della Campogalliani, per farla continuare nel tempo.

In bocca al lupo per i prossimi settant’anni, allora – e grazie. Campogalliani70 torna la settimana prossima, e sarà la volta di un attore…

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