Browsing "Vitarelle e Rotelle"
Mar 18, 2013 - Vitarelle e Rotelle    6 Comments

Idee

N. ha dodici anni e vuole fare la scrittrice. Legge tanto, ha buoni voti nei temi, tiene un diario, inizia racconti e non sempre li finisce… Scommetto che siamo in molti a riconoscere il territorio.

Però il mio problema sono le idee. Io voglio scrivere, solo che non so che cosa scrivere. A volte mi vengono in mente delle cose, però sono già state scritte, oppure appena mi metto a pensarci vedo che non sono davvero storie.* Dove si trovano le idee? Come si fa a farsele venire?

Ah, N.! Le idee…

Adesso magari non mi credi, ma se perseveri lungo questa strada verrà il giorno in cui avrai più idee che tempo per scriverle. Molte più idee che tempo. Chissà se hai mai visto quel vecchio documentario della BBC sul mestiere del documentarista. A un certo punto racconta la storia di una troupe che voleva riprendere i salmoni occupati a risalire non so più quale fiume. Decisero di piazzare un operatore con cinepresa sul fondo – e un altro a riprendere gli sforzi del primo. Ed è così che abbiamo le immagini di un cameraman inglese degli Anni Cinquanta seduto sul fondo di un fiume e travolto dai salmoni. Gli arrivavano addosso fittissimi e senza posa, tanto che il poveretto non riusciva a manovrare la macchina da presa, e poteva solo cercare di difendersi schiaffeggiando salmoni… 

Ecco, lo ripeto: magari adesso non ci credi, ma verrà un giorno in cui ti sentirai seduta sul fondo di un fiume a schiaffeggiare idee per impedire che ti facciano deviare troppo da quel che stai facendo.

Come succederà? Quando succederà? Succederà quando comincerai a vedere idee dappertutto. Quando, in ogni circostanza (anche le meno adatte) ti chiederai “come potrei scrivere questo?” Quando non riuscirai più a leggere un libro o guardare un film senza che almeno un pezzo del giocattolo ti faccia spalancare gli occhi e pensare che ehi! ci vuoi giocare anche tu. Quando guarderai gli estranei seduti di fronte a te in treno chiedendoti dove stiano andando. Quando invece di studiare storia ti perderai a strologare storie su Anna Comnena, i tercios spagnoli e Michael Faraday. Quando le figure minori negli angoli dei quadri, le sottotrame dei romanzi ottocenteschi, i servizi al telegiornale, le leggende locali le vecchie copertine sulle bancarelle e la musica intrasentita in una strada sconosciuta non la pianteranno di sussurrare. Quando ti sveglierai nel cuore della notte per annotare un sogno. Quando, navigando in cerca di documentazione, ti smarrirai per la rete inseguendo qualcosa di completamente diverso e così narrabile. Quando ogni lapsus, ogni frase udita male, ogni assurdità, ogni paio di parole accostato per caso prenderà la forma di una storia. Quando ti commissioneranno un lavoro e tu dirai che non è il tuo genere, e poi non avrai pace finché non l’avrai scritto…

E allora riempirai taccuini e hard disk di idee di cui al momento non sai che fare – oppure lo sapresti benissimo, ma davvero non hai tempo. E tirerai un sacco di accidenti, e pregherai per avere giornate di trentasei ore, ma non vorrai mai che sia diverso.

È tutto qui, N. Leggi, studia la teoria, impara quali sono i pezzi con cui si costruisicono le storie e come li si combina, e guardati attorno. Abituati a vederli dappertutto, i pezzi – e senza nemmeno accorgertene, ti troverai seduta sul fondo del fiume, felicemente intenta a schiaffeggiare salmoni… er, volevo dire idee.

_______________________________________________

* Non è bello quando una dodicenne vi scrive che ha imparato dal vostro blog che ci sono storie e poi ci sono cose che non sono storie?

Feb 22, 2013 - Poesia, Vitarelle e Rotelle    2 Comments

La Poesia È Duro Lavoro

poesia, sudare inchiostro, mattia nicchioOggi vi segnalo l’iniziativa di un amico blogger.

Il blogger è Mattia Nicchio di Sudare Inchiostro – fresco terzo posto al Premio Darwin: Mattia è un sonneteer, e razzola come predica.  E quel che predica è un principio caro al mio cuore, quello secondo cui (e cito) la tecnica è alla base dell’arte.

Per cui non sarete stupitissimi nell’apprendere che ll’iniziativa di cui parlo è una serie di post intitolati Come scrivere poesia. È proprio quel che dice l’etichetta: tecnica e teoria della poesia spiegate in modo agile, chiarissimo, sensato e pratico. Ci sono esempi, ci sono esercizi e c’è persino una sana dose di sense of humour – che si può volere di più?

Per ora la serie si compone di due post – e confesso di non sapere se ce ne siano altri in programma, ma già così Mattia offre un’abbondanza di strumenti essenziali per chi crede che la poesia non consista nell’aprirsi le coronarie, gettarne il contenuto in ordine sparso sul foglio e andare a capo a fantasiosi intervalli… poesia, sudare inchiostro, mattia nicchio

Perché vi dirò: non scrivo poesia (ed è un serio motivo di rammarico non possedere quella capacità estrema di sintesi che serve) e in generale non mi occupo di poesia, ma mi è capitato di essere assunta per valutare poesie. E in una desolante quantità di casi mi sono trovata di fronte a prosa spezzettata come gli spaghetti per la minestrina. Quando va proprio bene, si riesce a convincere qualche aspirante poeta che è più complicato di così, che ci sono una teoria e una tecnica, che metro e ritmo non sono mezzi di trasporto, che è duro lavoro… E allora quelli benintenzionati chiedono: dove si può studiare tutto ciò?

La prossima volta, almeno a titolo d’introduzione, indirizzerò senz’altro l’aspirante dalle parti di Sudare Inchiostro – sperando che Mattia trovi modo di dar corso all’intenzione di mettere insieme un manualetto.

Intanto, se scrivete poesia, se volete scriverne, e anche se non volete ma v’interessa sapere come funziona il giocattolo, Come scrivere poesia lo trovate sul blog – a episodi come un romanzo ottocentesco: Prima Puntata e Seconda Puntata.

Will there be more? Chi può dire? Speriamo…

Il Guardiamarina Inesistente

c. s. forester, hornblower, meridian, mr. midshipman hornblowerOddìo, forse proprio inesistente no, perché in Mr. Midshipman Hornblower, che riesce ad essere sia il nono che il primo dei romanzi navalnapoleonici di C.S. Forester, il Guardiamarina Kennedy compare per un paio di paragrafi, in cui lo vediamo scherzare con l’altrimenti riservatissimo e tetro protagonista eponimo. Poi viene nominato tre o forse quattro volte, presente a margine di situazioni in cui Hornblower scintilla ma non può far tutto da solo – e poi più. Non ha nemmeno un nome di battesimo, e mi par di ricordare che non compaia in nessuno degli altri romanzi. 

Fine – ma d’altra parte, nessuno è molto importante negli Hornblower Novels, a parte naturalmente Hornblower…

E invece, nella miniserie* che una quindicina di anni fa Meridian Television ha tratto da Forester, il Guardiamarina Kennedy si chiama Archie, è scozzese e di buona famiglia, cita Shakespeare a ogni pie’ sospinto e sarebbe di natura gaia e avventurosa, non fosse che il malvagissimo bullo della nave lo ha vittimizzato fino a fargli venire – letteralmente – le convulsioni**. Ed è anche uno dei due soli amici del diciassettenne nuovo arrivato Hornblower. L’altro è un guardiamarina più anziano, che non fa carriera per una propensione ad alzare il gomito, e Malaggiustati di questa nave, uniamoci! è l’inespresso motto di questi tre quando fanno inefficace comunella. Prima della fine, il Perfido Guardiamarina Simpson avrà trovato il modo di togliere di torno entrambi gli amici, ma Hornblower sarà maturato a sufficienza per mettere fine alle sue malefatte.c. s. forester, hornblower, meridian, mr. midshipman hornblower

Ora, tutto ciò è assai più truculento e dimostrativo di quanto non sia nel romanzo: l’Hornblower di carta è un rimuginatore solitario fino alla misantropia, che calcola le probabilità di morire e nuota nell’ingiustificato disgusto di sé, perennemente intento a denigrarsi in monologo interiore e a considerarsi incapace, sleale e codardo proprio mentre compie ogni genere di prodigio di valore e d’intelletto. Il che costituisce la sua originalità, ed è un’ottima cosa. Ma supponendo di voler portare il giovanotto sullo schermo, e tenendo a mente che lo spettatore medio non possiede capacità telepatiche, come rendere un personaggio che vive di conflitto interiore & autocontrollo – e non parla mai con nessuno?

Eliminando dubbi e rimuginamenti per fare del giovane Horatio un altro eroe navale standard? Uh… Affibbiandogli una Voce Fuori Campo? Oh poveri noi.

L’impressione è che lo sceneggiatore Russel Lewis abbia deciso di rendere il protagonista meno taciturno, dandogli due amici con cui parlare – e da perdere. Voglio dire, la Perdita dell’Amico è un classico, in fatto di motivazioni&maturazioni, giusto? All’apparire della paroletta di quattro lettere, il nostro Hornblower è solo come si deve, risoluto come si deve, taciturno come si deve – e se è diventato misantropo, why, come biasimarlo?

c. s. forester, hornblower, meridian, mr. midshipman hornblowerHornblower di celluloide ricondotto all’Hornblower di carta? Tutto sommato pensavo di sì, fino a quando il terzo film non ha restituito a Horatio e a noi tutti il Guardiamarina Kennedy. Perché vedete, non era proprio morto – solo disperso in mare, preso prigioniero e, dopo vari tentativi di fuga, finito proprio nella stessa prigione spagnola in cui si ritrova Hornblower. Ah, le coincidenze. Ma perché disperarsi a resuscitare un personaggio che in fondo era poco più di un device narrativo? Perché, dopo una certa quantità di melodramma, promuoverlo a sidekick

A quanto pare, per una combinazione di ragioni narrative e commerciali. Da un lato, il ragazzo era piaciuto al pubblico, e la sua eliminazione aveva scatenato una di quelle rivolte (e)postali che costellano la storia della televisione a puntate***. E sì, non sarò io a negare che Jamie Bamber, l’attore che interpreta Kennedy, sia piuttosto attraente – ma a quanto pare non era solo questione di ragazzine infatuate. Perché cercando qualche notizia in proposito, si scopre che il Guardiamarina Narrativo mancava anche agli autori. Adesso che avevano reso Hornblower stoico e taciturno, non sapevano bene cosa farne, e si ripresentava il problema iniziale: c’era bisogno di qualcuno al suo fianco.

E coc. s. forester, hornblower, meridian, mr. midshipman hornblowersì, riecco Archie Kennedy, promosso non solo ad Amico Difettato****, ma anche a Confidente e col tempo persino a Coscienza. Il che funziona, in effetti, perché per essere un device narrativo, Kennedy è un device efficace e ben riuscito. Il problema è, semmai, che le intenzioni degli autori finiscono un po’ fuoribordo, e questo Hornblower più ciarliero e fraterno è molto diverso dallo Hornblower di carta.

Entra in scena la C.S. Forester Estate, che detiene i diritti dei romanzi, e chiede la testa di Kennedy – tanto più che con il quinto film è in arrivo il blando, stolido e canonico Tenente Bush, l’unica vaga parvenza di amicizia che Hornblower coltivi nei romanzi. E con l’arrivo di Bush, insistono alla Forester Estate, Kennedy diventa ridondante ed eminentemente eliminabile. Off with his head. Seguono veri e propri negoziati di una notevole ferocia, alla fine dei quali emerge questa soluzione: il ragazzo si elimina, ma muore in scena. E sinceramente è possibile che alla Forester Estate avessero in mente qualcosa di meno protratto e meno tragico, ma Meridian ha impiegato tutto il quinto e il sesto film per disfarsi dell’ormai Tenente Kennedy, con tanto di sacrificio eroico e morte strappalacrime.

Nuova rivolta popolare – leggenda vuole che il volume delle proteste facesse saltare il sito dell’emittente americana A&E, che trasmetteva la serie Oltretinozza – ma ormai era tardi: Kennedy era eliminato oltre ogni possibilità di risurrezione, Bush era installato, almeno in parte, al suo posto al fianco di un più taciturno e meno dimostrativo Hornblower, e la Forester Estate era tanto soddisfatta quanto si poteva esserlo nelle circostanze. Il settimo e l’ottavo film potevano ricondursi nell’ovile del canone foresteriano. Un po’ tardino, forse, e non del tutto, ma ci si era arrivati.

E perché vi ho raccontato tutto questo? Perché è istruttivo in tutta una varietà di maniere.

c. s. forester, hornblower, meridian, mr. midshipman hornblowerPer prima cosa, insisto nel dire che non tutti i libri si prestano ad essere adattati per il cinema o, in questo caso, per la televisione , perché si tratta, udite udite, di mezzi diversi. Un personaggio come Hornblower funziona solo sulla carta – e se proprio si insiste a volerlo sceneggiare, bisogna rassegnarsi all’idea che il film racconti una storia diversa, o quanto meno un personaggio diverso.

Per seconda e correlata cosa, il primo episodio della serie è un esempio da manuale della differenza. Per iscritto va benissimo che a diciassette anni Hornblower sia già cupo e taciturno e tendente alla misantropia. Sullo schermo no: lo spettatore si identifica molto meglio con lui se lo vede diventare cupo, taciturno e misantropo in conseguenza di una Terribile Esperienza – tipo perdere due amici per mano di un Malvagio e poi dare al Malvagio stesso il fatto suo. Prova Dolorosa, Vendetta/Giustizia, Disillusione… Ed è pur vero che poi le cose sono un tantino sfuggite di mano, but still.

Per terza cosa, a conti fatti la Forester Estate ha perso la partita. Immagino che sia stata presa alla sprovvista dalla risurrezione del Guardiamarina Narrativo nel terzo episodio, e a quel punto che poteva fare? Pretendere l’eliminazione del personaggio, come ha fatto – ma resta il fatto che nessuno può morire in scena in quel modo senza guadagnarsi una certa quantità di imperitura simpatia da parte del pubblico. Leggenda vuole che esista una corrente di mugugni per il fatto che il settimo e l’ottavo film sono scritti come se Kennedy non fosse mai esistito. Ma, ripeto, che si poteva fare a quel punto?

Per quarta e ultima cosa, qui si dimostra che un personaggio può essere un device narrativo senza per questo essere di cartone. Per ricoprire la funzione, gli autori di Meridian hanno preso un cognome e un’impressione, ci hanno aggiunto una manciatina di (semitragiche) circostanze altrui, poi ci hanno ricamato sopra una personalità – e alla fine del primo episodio avevano un personaggio abbastanza significativo e interessante perché a tutti spiacesse non rivederlo mai più. E così lo hanno ripreso, lo hanno sviluppato con una combinazione di melodramma e sottigliezza, gli hanno dato ombre, guai e imperfezioni, e il risultato conserva soltanto la più vaga delle parentele con il paragrafo da cui ha preso le mosse ma, nella narrazione del film, il Guardiamarina Inesistente è un personaggio a tutti gli effetti – e uno tutt’altro che cattivo. Al punto che, quando muore per davvero, tutti spargiamo una lacrimetta.

Missione compiuta, Mr. Kennedy.

______________________________________________

* Scoperta recente, su segnalazione di amici che conoscono la mia ossessione per le storie navali. Tutt’altro che male: belle navi, bei costumi, ricostruzione ragionevolmente accurata, bravi attori (con l’occasionale masticatore di scenario, ma non troppo), scrittura più che decente… Almeno all’inizio. Poi a un certo punto la produzione si fa un po’ più cheap, ma ehi, le navi costano. 

** E se vi state domandando perché mai la Marina dovesse tenersi un allievo ufficiale incline ad avere rumorosissime convulsioni, che so, durante un abbordaggio notturno a sorpresa, me lo sono chiesto anch’io. E tuttavia l’episodio viene pari pari dal libro, con l’eccezione che sulla carta a soffrire di fits non è Kennedy, ma un marinaio semplice. Durante l’abbordaggio, Hornblower reagisce allo stesso modo: zittisce il malcapitato con un colpo in testa. In entrambi i casi, non finisce bene.

*** E non solo della televisione. Dickens riceveva questo genere di posta: lettori e letrici lo sommersero di biasimo e indignazione quando finalmente si decise a liberarsi della Piccola Nell.

**** Oh, sapete come funziona. L’amico devoto ma provvisto di difetti fatali, quello a cui il protagonista deve badare, perché è bene intenzionato ma incline alle idiozie, il fratello minore de facto… La metà delle volte ha anche un certo complesso del martire.

Gen 21, 2013 - Vitarelle e Rotelle    14 Comments

La Consolante Provvisorietà Delle Prime Stesure

Scrivere una prima stesura è come orientarsi a tentoni in una stanza buia, o traudire una conversazione sussurrata, o raccontare una barzelletta senza ricordarsi come va a finire. Non so più chi abbia detto che si scrive più che altro per riscrivere e revisionare, perché è riscrivendo e revisionando che la nostra mente prende piena confindenza con ciò che abbiamo scritto.

E questo era Michael Seidman, citato da Cindy Vallar sulla HNR, un paio di numeri orsono.

Credo che sia qualcosa di terribilmente difficile da imparare, e in tutta probabilità la prima causa di morte letteraria. È difficile, difficile, difficile convincersi che la prima stesura è soltanto una prima stesura, il cui scopo è quello di buttar fuori un ragionevole abbozzo della storia. Per poi lavorarci su. Sistemare la logica, aggiungere folgorazioni, intonare la voce, aggiustare lo schema di colori, il ritmo e i particolare, scuotere la struttura e i meccanismi finché non funzionano alla perfezione – questi sono tutti compiti per la revisione.

E credete, non sto predicando – o, se lo faccio, predico prima di tutto a me stessa, perché per molti anni ho strologato fino alla nausea su ogni virgola della prima stesura e, una volta giunta alla fatidica paroletta di quattro lettere, non sapevo mai indurmi a nulla più di un safari a caccia di errori di battitura, una spolveratina qui, una timida sfrondatina là…

Ma ogni volta che si presentava la necessità – o la possibiltà – di un intervento più energico ripensavo a tutto il lavoro certosino e alla bruta fatica che avevo profuso nella prima stesura, e mi mancava il coraggio.

E questo, ammettendo che alla fatidica paroletta ci fossi arrivata affatto. Non vado per nulla orgogliosa della quantità di inizi che giacciono qua e là nel mio hardware, come ciclopiche ossa in un cimitero degli elefanti. Oh, sono tutte ossa lucidate a cera – talmente lucidate che ogni volta, alla prima difficoltà, al primo intoppo, al primo colpo di noia, ho ripensato a tutto il lavoro certosino e alla bruta fatica eccetera, e mi sono scoraggiata. 

Oppure sono ossa più nature, in cui mi pareva di non trovare la voce e il ritmo e il colore che volevo e, invece di dirmi che per quello c’era tutto il tempo, e avanzare da bravo soldato… indovinate un po’? Mi sono scoraggiata.

E ancora adesso, per quanto sappia che non è così che funziona, faccio una fatica del diavolo a non perdere una sessione di scrittura fissando lo schermo e tambureggiandomi sullo sterno la Marcia Funebre di Chopin con le dita, nell’insana fissazione di trovare la replica perfetta alla battuta del personaggio X.

E poi qualche volta mi rendo conto che non è affatto detto che la battuta di X resti così com’è indefinitamente, e forse se non riesco a trovare una risposta adatta è anche perché quella fettina di dialogo non va bene in generale, e comunque non è un problema che devo risolvere adesso, e allora aggiungo un’annotazione tipo [Y TAGLIA X A FETTINE MOLTO SOTTILI – CONCLUDENDO CON UNO SCONSIDERATO AFFONDO IN CUI NOMINA Z > CONSEGUENZE] e passo oltre. Ci penserò in fase di revisione – ammesso che debba ancora farlo.

E poi, quando arrivo alla revisione, qualche volta il problema si è risolto da sé, qualche volta è superato, qualche volta richiede ulteriori cogitazioni, ma…

Badate a questo, perché è importante – ed è l’acqua calda, I know, eppure vorrei che qualcuno me l’avesse detto prima, e anche adesso che lo so, sentirei il bisogno di incidermelo in fronte*. Dico davvero, badateci:

Il punto è che, quando si arriva a riscrivere e revisionare un nodo lasciato indietro, si è forti di tutto il resto della storia. Si sa che cosa succede dopo. Si sa come va a finire. Si sa dove e come possono germogliare le conseguenze del nodo. E, cosa non indifferente, si ha molta, molta, molta più confidenza con la storia in generale. 

Per cui, a parte tutto il resto e a parità di problema, le probabilità di saperlo risolvere in seconda stesura sono infinitamente superiori a quelle che si avevano prima.

Ecco.

Perché è in revisione che si trova l’interruttore, o ci si avvicina alla gente che sussurra, o ci si ricorda come va a finire la barzelletta. E, a differenza dei narratori di barzellette, si può tornare indietro e raccontarla meglio.

______________________________________________

* Modo di dire che mi piace, ma non posso fare a meno di considerare un po’ scemo, perché una volta che me lo fossi inciso in fronte, non avrei modo di leggermelo. Avrei bisogno di qualcuno che me lo leggesse. Oppure dovrei farlo incidere a rovescio per poterlo leggere allo specchio. Ma c’è anche la possibilità che un’incisione in fronte sia un procedimento abbastanza doloroso da restare memorabile a lungo – insieme alla causa della sua adozione? Ma allora forse basterebbe un’incisione meno elaborata e da qualche altra parte che non fosse la fronte? E lo so, tutto ciò non ha un briciolo di senso e i modi di dire son modi di dire, ma abbiate pazienza: sono convalescente.

Who Is Who

Se avete mai presentato un libro, odds are che qualcuno, quando il vostro relatore ha sollecitato le domande del pubblico, ve l’abbia chiesto: Quanto C’è Del Tuo Vissuto In Questo Libro? Maiuscole non casuali, perché questa, in questa forma o in qualche variazione, sembra essere La Domanda. Why, magari non c’è nemmeno bisogno che venga dalla platea, magari ve l’ha posta il relatore.

E voi, a dire il vero, vi siete mordicchiati il labbro inferiore e avete ingoiato un sospiro, e vi siete silenziosamente chiesti perché, perché, perché diavolo lo vogliono sapere. Che importa? Che cambia? È una storia, dammit, non possono apprezzarla senza sapere che è basata su un incidente della vostra infanzia, o su nulla in particolare?

Poi vi siete detti che, se non altro, siete in buona compagnia e avete risposto con la necessaria buona grazia.

Perché sì, siete in buona compagnia. In ottima compagnia, se ci pensate: tutte quelle prefazioni, quegli articoli, quei tomi in cui biografi, critici e psicanalisti si affannano a dissezionare Jane Eyre, Casa Desolata, Camera con Vista, Grandi Speranze, Circolo o La Musa Tragica o qualsiasi altro romanzo a caccia di elementi autobiografici… E magari vi è anche piaciuto scoprire che tutti i protagonisti maschili di Charlotte Brontë sono basati sul professore belga di cui si era innamorata infelicemente. Per cui, in fondo, chi siete voi per andare immuni dalla Domanda?

L’umanità, a quanto pare, non solo è insaziabile in fatto di storie, ma vuole anche sapere che cosa c’è di vero.

E voi in realtà continuate a domandarvelo: che diamine cambia, in realtà? Che importa, ai fini del romanzo, se Lord Jim sia basato su Rajah Brooke o su Stephen Crane – o su una combinazione di entrambi?

Sì, ok: Jim si costruisce a Patusan un regno de facto alla maniera di Sarawak – ma più ufficioso e più tragico – e l’affetto tra protettivo, amarognolo ed esasperato di Marlow nei confronti di Jim può rispecchiare il rapporto tra Conrad e il più giovane e tormentato Crane.

Ma poi, se cercate con sufficiente pazienza*, v’imbatterete in articoli che individuano the real life Jim in gente come Jim Lingard, altro rajah bianco non ufficiale, che vestiva sempre di bianco e i suoi indigeni chiamavano Tuan Jim. O in Augustine Williams, ufficiale mercantile di buona famiglia che si rovinò la carriera abbandonando un piroscafo carico di pellegrini – e il piroscafo non affondò affatto… E d’altra parte, basta una capatina su Wiki per scoprire che Conrad decise di voler andare per mare a sedici anni, fuori dal blu e sulla solida base dei romanzi d’avventura.

Tutto molto interessante – fino a quando il saggista/biografo/critico/psicanalista non comincia a insistere di avere trovato il vero Jim. E no, perbacco: Brooke può avere fornito Patusan, e senz’altro i guai di Williams sono serviti da base per l’incidente del Patna, in particolare all’inizio, quando Conrad intendeva farne solo un racconto breve, o al massimo una novella. Ed è difficile negare che Lingard, Crane e Conrad stesso entrino nella caratterizzazione di Jim, ma il fatto è che il vero Jim è quello del romanzo, quello di carta e inchiostro, quello che ha pensieri, reazioni, paure e debolezze così umane e reali eppure non invecchia mai.

C’è una pagina di una stesura precedente, in cui Marlow descrive Jim ritrovato a Patusan, un po’ appesantito, con qualche ruga attorno agli occhi, un po’ meno immacolato ed elegante…

Poi però, nella versione definitiva, Conrad ha cassato questo passaggio. Per noi lettori è necessario che, dopo anni di fughe, tormenti, fatica e clima tropicale, Jim sia ancora impossibilmente giovane come a pagina 1. È, se ci badate, l’Autore che ci dice come il vero Jim non sia una persona reale da cercare sull’Enciclopedia Britannica o negli annuari della Marina Mercantile, ma un personaggio letterario, una creazione artistica, un simbolo complesso e stilizzato al tempo stesso.

E non dovrebbe importare quanto c’è del Vissuto dell’Autore – salvo il fatto che il messaggio** diventa più chiaro e più rilevante quando andiamo a spulciare tra le stesure, alla luce dei dubbi e delle decisioni dell’autore stesso…

Perché alla fin fine, la storia funziona lo stesso, ed è amaramente bella lo stesso, ma si direbbe che sia nella nostra natura voler sapere, se non proprio che cosa c’è di vero, almeno che cosa c’è dietro.

________________________________________________

* A dire il vero, con sufficiente pazienza, troverete anche un’interpretazione freudiana secondo cui nel non-naufragio del Patna Conrad sta esorcizzando la morte precoce di sua madre… Per cui, sappiatelo, il Patna resta a galla non perché altrimenti la storia non funzionerebbe, ma perché il piccolo Konrad si era sentito tradito dalla sua mamma tisica, e vuole drammatizzare l’evento – ma con un finale diverso, catartico e consolatorio al tempo stesso. Yes, well.

** Non il Messaggio, scampi&liberi. Questo specifico messaggio.

Ott 26, 2012 - cinema, Vitarelle e Rotelle    6 Comments

The (Silent) Call Of Cthulhu – Parte II

Venerdì – e il venerdì torna Sean Branney con… Behind The Scenes of Cthulhu.

Ricordate? Avevamo lasciato la troupe bagnata fradicia per il primo acquazzone in sei mesi nella California del Sud – dove, secondo le canzoni, non piove mai…

Ma il bello doveva ancora cominciare…


R’lyeh in Cortile (4-6 novembre)

Il Piano
Sapevamo che, verso la fine dei lavori, avremmo dovuto filmare le scene di R’lyeh, però non volevamo farlo con un bel modellino o degli effetti digitali. Per dare il tocco finale a questo film ci serviva un set tridimensionale a grandezza naturale di R’lyeh. Andrew Leman sapeva che cercar di disegnare una pianta di R’lyeh era un’impresa da manicomio, così ha deciso di costruire invece un modello in scala. È venuto fuori una bellezza, tanto bizzarro quanto lo si poteva volere. Credevo di essere innamorato del modello – finché non ho chiesto ad Andrew in che scala fosse. È saltato fuori che dovevamo costruire un set di dieci metri per cinque, alto quasi otto metri. Un arnese delle dimensioni di una piccola casa, abbastanza solido perché otto attori più cameramen e tecnici potessero arrampicarcisi a piacere…  oh, e sto dimenticando il meglio: la geometria del tutto è così bizzarra che un angolo del set deve poter inghiottire un attore.

the call of cthulhu, sean branney, the h. p. lovercraft historical societyCostruzione
I nostri amici Noah e Brad, nella loro incredibile disponibilità, ci hanno permesso di usare il loro cortile delle riprese. Sono sicuro che, se avessero saputo quanto doveva diventare grosso questo affare e cosa avremmo combinato nel loro cortile, non avrebbero mai accettato. Ma siccome non potevano averne idea, lo hanno fatto e noi ci siamo dedicati all’impresa di ridurre l’improponibile costo del materiale necessario a costruire il set. L’idea dei ponteggi è stato un colpo di genio. A buon mercato, metallici, solidi, facili da montare… la soluzione perfetta. In men che non si dica, Leman, Branney, Barry Lynch e Matt Fahey hanno montato sei ponteggi, ciascuno con un praticabile teatrale in cima. Poi abbiamo coperto tutto con dei fondali teatrali, e poi è stata la volta del cartone. Un sacco, ma proprio un sacco di cartone. Perché il cartone sarà anche un disastro con la pioggia e con il vento, ma è a buon mercato e perfetto per ricreare le superfici di pietra di R’lyeh.

Ma per R’lyeh serviva anche della stoffa – una quantità di stoffa. Per fortuna Branney (che dirige Theatre Banshee) aveva appena chiuso una produzione le cui scene erano fatte di abbondante stoffa, pannelli da tre metri per tre che abbiamo smontato, portato sul set e usato per rivestire le torri di ponteggio. Serviva dell’altra stoffa per ricreare l’oceano che circonda R’lyeh, e per quello abbiamo trovato una speciale stoffa azzurra, trasparente e luccicante, che crea un bell’effetto d’aacqua – specie se filmata in bianco e nero con illuminazione notturna. 

E poi abbiamo dipinto, dipinto e dipinto, e poi abbiamo aggiunto una scialuppa e, in meno di una settimana, abbiamo messo insieme una massiccia struttura cthulhoide che si poteva filmare da diverse direzioni e andava benissimo per le necessità della nostra storia.

Mercoledìthe call of cthulhu, sean branney, the h. p. lovercraft historical society
Abbiamo riunito il cast, i tecnici, le squadre dei costumi e del trucco e abbiamo preparato i marinai per il loro primo sbarco a R’lyeh. Con soddisfazione generale (specialmente nostra), la struttura si è rivelata in grado di sostenere tutto il cast e di essere fotografata in diversi modi interessanti. Così i marinai terrorizzati si sono arrampicati su e giù per i ciclopici blocchi di cartone, mentre noi filmavamo la loro esplorazione della città.

Giovedì
Siamo tornati con qualche attore in meno per filmare alcune scene aggiuntive. La temperatura è calata parecchio – praticamente al gelo, per noi californiani dal sangue sottile… La sfida del giovedì consisteva nel filmare l’attore che interpreta Rodriguez mentre cade dalla cime della tomba di Cthulhu, giù nel vuoto pieno di miasmi. David Pavao non ha battuto ciglio quando gli abbiamo fatto fare un sacco di cose dolorose – e non una volta sola.

the call of cthulhu, sean branney, the h. p. lovercraft historical societyCi rendiamo conto che le fotografie che vi mostriamo qui sembrano incredibilmente stupide, ma fidatevi: quando vedrete le immagini attraverso la lente della cinepresa e in bianco e nero, sarete piacevolmente sorpresi da quanto può sembrare bello questa mostruosità di cartone.

Venerdì
Abbiamo riunito di nuovo tutto il cast e, con l’aiuto di una scala da quattro metri piazzata a tre metri e mezzo d’altezza sulla struttura, siamo riusciti a fare delle riprese grandiose. A tarda sera siamo arrivati a quella che forse è la scena più complicata tra quelle di R’lyeh, quella in cui l’architettura locale inghiotte Parker. Per ottenere l’effetto giusto, abbiamo costruito in una parte del set un angolo a novanta gradi verso l’interno che, con la giusta illuminazione, sembra uno spigolo rivolto verso l’esterno. In quel punto gli attori saltavano da una piattaforma all’altra, e poi Chris Lackey, che interpreta Parker, doveva cadere the call of cthulhu, sean branney, the h. p. lovercraft historical societyall’indietro nello spazio che sembrava non esserci. E magari detto così sembra facile, ma in realtà la faccenda richiedeva una discreta dose di coraggio, perché Chris doveva lasciarsi cadere all’indietro in un buco, senza vedere quello che faceva e sperando di atterrare sui materassi di schiuma nascosti di sotto. Chris capiva benissimo che cosa ci si aspettava da lui, ma il suo corpo non ne voleva sapere. Alla fine, però, siamo riusciti a gettare Chris tra le fauci dell’angolo diverse volte, e R’lyeh che lo inghiottiva faceva un gran bel vedere.

Per le due del mattino avevamo finito con R’lyeh. In seguito il set è stato smantellato e portato alla discarica e in un altro posto per il riciclaggio del materiale.

the call of cthulhu, sean branney, the h. p. lovercraft historical societyLa Camionetta (18 novembre)

Dopo vari tentativi di filmare la camionetta d’epoca – tutti sabotati dal clima, dai meccanici, da problemi logistici e quant’altro – ci abbiamo provato di nuovo. Stavolta abbiamo mandato un carro attrezzi a una certa stazione di polizia in una certa città californiana di cui non facciamo il nome, perché non vogliamo mettere nei guai nessuno. Abbiamo caricato il nostro veicolo e siamo partiti in direzione del cortile di casa Branney con la camionetta, una macchina di pattuglia e l’Agente Aaron – un’autentica scorta della polizia. Siccome nessuno sul set aveva la patente adatta a guidare una macchina d’epoca, l’abbiamo faticosamente spinta su per un vialetto molto ripido e piazzata al posto giusto. Andrew ha aggiunto dei fari elettrici (quelli originali erano a gas) e uno stemma della polizia di New Orleans, attaccato alla carrozzeria con un magnete, e poi con un giudizioso uso di luci e nebbia, abbiamo trasformato il cortile di casa Branney in un’autentica palude della Louisiana con dentro un’autentica camionetta della polizia d’epoca.

Per Mare (24 novembre)the call of cthulhu, sean branney, the h. p. lovercraft historical society

L’ultima sequenza principale da filmare è quella con i marinai della Emma che salgono a bordo dell’Alert, il peschereccio abbandonato, prima di approdare a R’lyeh. Dopo un po’ di conversazione con gli indigeni, i marinai tornano di gran carriera sull’Alert, speronano Cthulhu e, piuttosto malconci, si lasciano alle spalle la dannata isola. Il che è un’ottima storia, ma una seria sfida per una troupe cinematografica a budget minimo. Per ciascuna nave serviva un set che a) fosse realistico, b) fosse uguale al modello della rispettiva nave, e c) somigliasse a un set cinematografico degli Anni Venti.

Ma tetragoni alle difficoltà, Leman, Branney e ciurma si sono lanciati nella costruzione di due set navali.

Siccome la sceneggiatura prevede solo una breve scena a bordo dello schooner Emma, abbiamo messo insieme un ponte con una ringhiera, un po’ di cordami e qualche vela. Aggiungendo una macchina della nebbia, un ventilatore industriale e i truccatori che spruzzavano acqua, siamo riusciti a catturare rapidamente una bella scena a bordo della Emma. Peccato che l’Alert fosse tutta un’altra faccenda.

the call of cthulhu, sean branney, the h. p. lovercraft historical societyIl set dell’Alert doveva comprendere una vista dall’interno e una dall’esterno della cabina di pilotaggio su un peschereccio malandato. Il nostro amico Nick Offerman ci ha fornito un magazzino accanto alla sua eccellente falegnameria, e per una settimana abbiamo trafficato come squilibrati con connettori, compensato, cartone, plexiglas, strumentazione d’epoca, carte nautiche, un dito mozzato e diverse centinaia di pezzi di legno, per creare la cabina di pilotaggio dell’Alert.

Abbiamo finito di dipingere il set mentre gli attori venivano truccati. Badate a come nessuno tocca la ringhiera: è perché la vernice era ancora fresca. Poi abbiamo filmato fino a tarda notte, e alla troupe si sono aggiunti Aaron Vanek (video e foto backstage) e Kirsten Hageleit (responsabile delle luci oscillanti). Abbiamo filmato delle magnifiche riprese di azione sul ponte per le sequenze prima di R’lyeh, rimandando alla settimana successiva le scene di panico disperato dopo l’incontro con Cthulhu.

Film d’Azione (6 dicembre)the call of cthulhu, sean branney, the h. p. lovercraft historical society

Dopo avere rivisto la scena della tempesta, abbiamo deciso che riprendere il ponte dall’oceano, anziché viceversa, avrebbe fornito un’inquadratura migliore. Così abbiamo rimesso in funzione pioggia, vento e nebbia e abbiamo ottenuto delle riprese molto migliori della scena in cui, in mezzo alla tempesta, l’equipaggio della Emma scopre l’Alert alla deriva.

Abbiamo riservato il resto della giornata alla sequenza in cui i marinai sopravvissuti, una volta tornati a bordo dell’Alert, si preparano per lo scontro finale con Cthulhu. Una volta montata, questa sequenza durerà meno di trenta secondi, ma le inquadrature erano complicate e andavano fatte nel modo giusto. Per tentativi siamo arrivati a degli eccellenti effetti di luce, alcuni esperimenti con il trucco hanno dato ottimi risultati, e Dan Harper e Matt Fahey hanno fatto faville nella parte dei naviganti in preda al terrore…

***

E dunque lo scontro finale si avvicina, ma la fine della storia non significa la fine del lavoro per la troupe…

Non perdete il prossimo emozionante episodio di Behind The Scenes of Cthulhu!

E nel frattempo, se vi è venuta voglia di vedere il film, potete procurarvelo qui.

 

Parliamo Di Numeri

Avrete notato che i Piccoli Bollettini – notturni, diurni e tutto quanto – si sono diradati.

Che devo dire? Non è come se scrivessi a carrettate, ultimamente. E qui potrei lanciarmi in alti lai sul Blocco dello Scrittore – ma non lo faccio, e invece vi mando a leggere un articolo sull’eterodosso psichiatra junghiano che sblocca gli sceneggiatori holliwoodiani. È improbabile che la lettura vi sblocchi, ma è pittoresca.

Invece vi metto a parte dei rimuginamenti indotti in proposito da un commento lasciato qui su SEdS.

Posso darti un suggerimento stupido? Smettila di contare. Se continui a contare, pensi di più ai numeri che non a quello che devi scrivere…

Ho considerato la questione, perché riconosco l’esistenza del rischio di scrivere come se si fosse a cottimo. Ma, dopo accurata considerazione, sono giunta a concludere che non è così. Che i numeri non sono una distrazione o una forma di paraocchi, ma parte del mio metodo.

E guardate, lo dico con una certa meraviglia perché sono davvero poco portata, e in via generale non riesco a contare nulla con un minimo di precisione. Eppure i numeri fanno parte del mio metodo in almeno due modi.

Da un lato, scoprire la possibilità di misurare ciò che si scrive in parole* è stato non poco liberatorio. Esiste un criterio semplice e convenzionale – per stabilire la lunghezza di pagine, capitoli e storie, e non devo occuparmene io. Eugé.

Sto facendo quel che devo fare all’interno della scena? Sto perdendo troppo tempo in convenevoli? Ho spazio per una piccola deviazione? Mi sono lasciata prendere la mano da una discussione sui massimi sistemi? Una rapida occhiata al contatore e so con ragionevole certezza se sono ancora sul sentiero che mi ero prefissa o sono andata per prati. E i numeri assomigliano a quel che dovrebbero essere, non ho bisogno di fermarmi a chiarire i dubbi. 

Poi è ovvio che le prime stesure sono prime stesure, e ci si allarga, si eccede, si ricama, si arriva alle questioni importanti non in linea retta ma di arabesco in arabesco… In prima stesura non mi sento obbligata ad essere tremendamente rigorosa – dopo tutto, per condensare c’è la revisione. Però a livello tattico avere una vaga idea di quanto si sta bighellonando per iscritto è già qualcosa. O almeno lo è per me.

E poi c’è l’altra questione, quella dei bollettini, del wordometer, dei conteggi serali. Questa è più strategica. Durante la WW mi ero prefissa un certo numero di parole in una settimana ed era importante vedere se stessi tendendo il ritmo. Adesso che non ho più questa scadenza, i numeri sono semmai ancora più utili come metodo anti-procrastinazione.

Se non ho una scadenza, è più facile che, invece di scrivere, mi metta a far lanterne. Se non c’è una scadenza effettiva, posso sempre fissarmene una da sola. Una versione tascabile della scadenza è un wordcount quotidiano, magari piccoletto. Raggiungere il wordcount è di soddisfazione. Superare il wordcount è di soddisfazione maggiore. 

È un fatto: se conto procrastino meno. Non è che smetta miracolosamente di procrastinare da un giorno all’altro, ma le cose migliorano abbastanza perché lo possa considerare un buon metodo.

E tuttavia, lo dicevo, la ragionevolezza di un bollettino quotidiano comincia a sembrarmi un pochino dubbia, per cui… Non so, per ora ho smesso di postare quando non scrivo affatto**. Probabilmente posterò un bollettino la prossima volta in cui scriverò qualcosa – perché, visto come stanno andando le cose, sarà un avvenimento degno di menzione. 

Dopodiché staremo a vedere, ma per contare, si conta.

____________________________________________________________

* Scoperta avvenuta a Cardiff, la prima volta in cui mi è stato richiesto un essay di 2000 parole. E posso anche confessare di avere consegnato il mio primo essay di diritto CEE scritto a mano, contando le parole e annotando i numerini a matita sui margini del foglio. Se avesse potuto, il mio tutor mi avrebbe tirato il collo.

** Come ieri: nemmeno una parola. Però ho fatto due lanterne di cui non sono del tutto insoddisfatta…

Un Quarto Di Romanzo E Dieci Constatazioni A Caldo

E così ho finito.

No, non ho finito, non davvero, ma after a fashion.

Stanotte mi sono fermata appena dopo il traguardo delle 25000 parole – l’avete visto nel bollettino – per puro e semplice sonno.

E mi sono fermata a un terzo scarso della scena finale del I Atto, quella in cui succedono cose atte a precipitare il mio protagonista in problemi che passerà il resto del romanzo a risolvere – o cercare di risolvere, quanto meno.*

Ad ogni modo, ho scritto le mie 25000 parole in una settimana, come mi ero proposta di fare, il che è stato appagante, divertente e anche istruttivo.

Ho constatato una serie di cose, di cui vi metto a parte. Alcune sono più pratiche (e probabilmente più utili) di altre, e tutte sono crude, appena pescate e buttate giù alla rinfusa dopo una settimana di infreddatura, antibiotici e scarse ore di sonno.

1) Avere passato una buona quantità di tempo nel corso dell’estate a strologare l’ossatura di questa storia è stato fondamentale. Non mi sono tuffata alla cieca. Avevo parecchie pagine di appunti e cogitazioni su posti, personaggi e avvenimenti, e soprattutto un elenco di scene fondamentali. Sapevo dove stavo andando.

2) Come sono arrivata dove stavo andando è un cavallo di colore leggermente diverso. Capitano cose inattese, i personaggi prendono iniziative, delle transizioni germogliano in scene a pieno titolo… Progettare una storia non vuol dire ingabbiarcisi dentro.

3) Alla soglia dei quarant’anni, forse – e dico forse – sto imparando a non editare mentre scrivo e a non accanirmi sui dettagli in prima stesura. Benedetta sia Holly Lisle, che per mesi e mesi, durante How To Think Sideways, ci ha predicato di non preoccuparci della perfezione in prima stesura – quello è il santo graal cui dare la caccia in revisione. E dunque, quando mi sono accorta che sulla casa di un personaggio non ho le idee chiarissime, ma potrei averle consultando un libro che non possiedo ancora, ho scritto [THEY GO TO THE STUDY – MORE TO COME] tra parentesi quadre, e sono passata oltre. Quando di una scena si sono presentate due possibili versioni alternative, le ho annotate entrambe in sufficiente dettaglio, e le ho lasciate lì. Ciascuna delle due ha i suoi meriti, ma in tutta probabilità, quando sarò più avanti, mi ritroverò ad avere buone ragioni per scegliere l’una o l’altra. E quando mi sono accorta di non sapere di preciso quale fosse la locanda di posta di Greenwich, ho messo un punto di domanda tra parentesi quadre e – you guessed it – sono passata oltre. Liberatorio e produttivo.

4) Trovo che un buon metodo per impedirsi di editare mentre si scrive sia il timer. Sempre Holly Lisle: ci si danno dieci minuti e si scrive, scrive, scrive finché il timer non suona. Così non si ha tempo (o quanto meno ci si convince di non avere tempo) per cambiare “rosso” in “vermiglio”, e poi in “scarlatto” e poi di nuovo in “vermiglio”, e perché non “porpora”, dopo tutto… Non è che abbia scritto così, di dieci minuti in dieci minuti per tutta la settimana – ma soprattutto all’inizio e alla fine delle sessioni era di grande aiuto per prendere il ritmo e per non perderlo.

5) Nondimeno, a volte, aprire un libro di riferimento o cercare una fotografia su Google Images è quel che ci vuole per sbloccarsi. Son quelle volte in cui basta un particolare come una frase di un documento d’epoca o il colore di una facciata di mattoni per rimettere in carreggiata il flusso della scena.

6) Poi ci sono intoppi più brigosi. Alzi la mano chi riesce a scrivere alcunché senza impantanarsi, prima o poi, nella fase Orrore-Orrore-Non-Va-Bene-Non-Va-Bene-Affatto-Tutto-Da-Gettare-Alle-Fiamme-Cosa-Credevo-Di-Fare-Perché-Sto-Scrivendo-Questo? Alzi la mano, dicevo, e si abbia la mia invidia. È capitato, mi par di ricordare, alla volta di mercoledì. Ho abbandonato tutto per un pomeriggio, ho fatto un po’ di cime tempestose a beneficio della famiglia, ho preso una quantità invereconda di biscotti con il tè. Poi ho ripreso in mano il computer, ho deciso di andare avanti ancora un po’ e, prima di “ancora un po’” ero di nuovo in corsa. Se stia imparando a gestire questo genere di paturnie o se questo fosse solo un caso lieve, proprio non so dire.

7) Tremilacinquecento parole al dì sono un ritmo che riesco a tenere anche mentre tossisco come una locomotiva, sotto antibiotici e con la febbre tutte le notti. E, potrei dire, anche in languida convalescenza post-antibiotici. Mi piace pensare che, in buona salute, potrei fare di meglio. Detto ciò, tenendo questo ritmo, in tre settimane potrei completare la prima stesura. Neanche male, ad averne il tempo.

8) Tra l’altro non è come se non avessi mai procrastinato. A parte il mercoledì di cui dicevo, ci sono stati momenti in cui il ritmo si è allascato parecchio – e in forme indicibilmente subdole, perché cose come questa, sono capacissime di sembrare una buona idea. O magari sono solo io…

9) Scrivener è un magnifico programma, ma per la prima stesura Q10 resta il mio prediletto. Schermo nero, caratteri color ambra**, formattazione al minimo, conteggio parole, timer interno e poco più. Niente distrazioni – il che per me funziona alla perfezione.

10) Mi mancava scrivere romanzi. La pura e semplice possibilità di spaziare, di entrare nella testa dei personaggi e restarci dentro, di giocare con i tempi e gli spazi senza preoccuparsi di come si potrà rendere tutto quanto in scena… ah. Il respiro è diverso. I ritmi sono diversi. Col che non voglio dire che alle volte non mi capiti di lasciarmi prendere la mano dai dialoghi – specie quando i miei personaggi si mettono a discutere di massimi sistemi – ma anche di questo mi occuperò in revisione. Per adesso, che parlino quanto vogliono. Dopo tutto, fa parte del gioco.

 

_______________________________

* Non posso nemmeno dire che, alla peggio, morirà nel tentativo, perché… be’, non posso. Storia di fantasmi, ricordate?

** Ma mi par di ricordare che ci siano anche altre combinazioni di colori.

Gente Nei Guai

E oggi, abbiate pazienza, un po’ di spudorata autopromozione.

Torna Gente Nei Guai, il mio corso di scrittura narrativa, nella versione in otto incontri – ma preceduto da due incontri introduttivi, tenuti da Alessandra Vedovello, che parlerà di narrazione orale e narrazione scritta…

Sapete che qui siamo spudoratamente anglosassoni per formazione e predilezioni, che non crediamo granché alla mistica della scrittura, e molto di più alla tecnica, al duro lavoro e all’immaginazione coniugata con la disciplina.

Il risultato si è che, in genere, a Gente Nei Guai si smontano e rimontano giocattoli, si fanno scoperte e ci si diverte un sacco.

Qui sotto c’è qualche dettaglio:

gente nei guai, chiara prezzavento, scrittura creativa, legnago

Qui c’è il sito di Scrittura & Arti Varie.

Mentre qui potete scaricare condizioni e programma.pdf.

E se volete farvi un’idea dei principi e del tono del corso, potete scaricare Lo Scrittore di Buon Senso, il mio piccolo non-manuale di scrittura.

Che dite, ci vediamo a Legnago in ottobre?

Ad Alta Voce E Con Le Cesoie In Mano

Era un po’ di tempo che non si parlava di tecnica, ma nel giro di pochi giorni mi è capitato un paio di volte di sentirmi dire (o implicare) che scrivere teatro è “più facile”, perché in fondo si tratta solo di scrivere dialoghi.

Perché a proposito dei dialoghi vige questo bizzarro mito: be’, quanto può essere difficile scrivere dialoghi? È la forma di linguaggio con cui tutti abbiamo, per forza di cose, più dimestichezza, no? Tutti parliamo, tutti usiamo il dialogo ogni giorno… ergo, scrivere dialoghi è facile.

Ebbene, no. È vero che tutti usiamo quotidianamente il dialogo, ma basta provare a trascrivere verbatim un pezzo qualsiasi di conversazione per accorgersi di che differenza abissale ci sia tra quel che si dice e un buon dialogo letterario – o teatrale.

Per prima cosa, trascrivendo, ci si rende conto che Nella Vita Quotidiana si dicono (e ripetono) un sacco di cose irrilevanti, sciatte e vacue, che per iscritto si condensano, rendono coerenti e intelligibili – possibilmente conservandone efficacia e sapore. Randy Ingermanson dice che il buon dialogo è pesce già sfilettato: solo le parti buone. Non si tratta di riprodurre pari pari il modo in cui parlano le persone, ma di trovare il giusto equilibrio tra realismo, registro ed efficacia, e servirsene per convogliare soltanto informazioni rilevanti.

Tutto quello che si mette sulla pagina deve servire a caratterizzare un personaggio e/o far avanzare la storia – possibilmente entrambe le cose. Ogni battuta di dialogo che non svolge almeno una di queste funzioni… a questo punto dovrei dire “va eliminata”, ma mi limiterò a qualcosa di meno drastico. Ogni battuta di dialogo che non svolge almeno una di queste funzioni, non ha una ragione narrativa per essere dov’è. Non è sempre facile. Personalmente, devo continuare a impormi di potare tutto ciò che è soltanto decorativo – non importa quanto mi piaccia. E non sempre ci riesco. A volte, nel tentativo di rendere rilevante qualcosa che mi piace troppo per poterci rinunciare, sono capace di dissennati equilibrismi, fino al momento in cui mi rendo conto che sto facendo John&Iris – e allora taglio tutto quanto, e in genere la scena ne guadagna.

Ma questo non mi rende necessariamente più saggia per la prossima volta.

Oh, e John&Iris è lessico famigliare per l’eccesso opposto al chit-chat decorativo, quando si lardella il dialogo di informazioni non plausibili. Può essere necessario informare il lettore sul rapporto tra il narratore, John e Iris, e del fatto che sono passati tre mesi dalla scena precedente, ma non per questo si può far esclamare al narratore “Buongiorno John, mio vecchio e fraterno amico! E come sta tua moglie Iris in questa splendida giornata di giugno?” In molti romanzi in cui una tecnica di qualche genere – non importa se si tratti di sottomarini, procedura legale, arazzi o curling – gioca un ruolo, capita di trovare lunghe pagine di dialogo in cui due o più personaggi si scambiano dettagliate informazioni su particolari che dovrebbero già conoscere a menadito. Ricordate il Comandante Phillips e la Regola del Sottomarino Nucleare?

Dopodiché trovare (e mantenere) la giusta combinazione di efficacia e plausibilità è tutt’altro che facile: è una questione d’orecchio, buon senso e intuito in parti variabili.

Io trovo utili due metodi – e li sto usando parecchio per la seconda stesura del Play Senza Titolo – di cui magari state seguendo le vicende via bollettini notturni. In primo luogo, mi leggo i dialoghi ad alta voce. Meglio ancora sarebbe farseli leggere da qualcuno – se avete una o due persone pazienti e disponibili, e so di gente che fa da sé, si registra e riascolta. Ora non dico che sia a prova di bomba, ma nove volte su dieci, se c’è, la magagna viene a galla.

Ma prima, o dopo, o prima e dopo, prendo la mia scena e fingo con convinzione di poterne tenere solo due terzi*. A che cosa proprio non si può rinunciare? È divertente quasi come farsi estrarre i denti del giudizio – ma la maggior parte delle volte, potato di fioriture, svolazzi e quisquilie varie, il dialogo ne esce più affilato, più efficace e più vivido.

Per cui, no: non c’è niente di facile nello scrivere dialoghi, thank you very much. È roba da liutai, una di quelle faccende di orecchio, precisione, tecnica, pazienza, numerose fasi e, tanto per cambiare, un sacco di lavoro. 

_________________________________________

* O tre quarti – anche se conosco anime avventurose e drastiche, che riducono alla metà.