Ago 13, 2010 - scrittura, teorie    8 Comments

Scrittura ed Efficacia Secondo Orwell

george-orwell-writing.jpgNel 1946 George Orwell scrisse un saggio intitolato Politics and the English Language, in cui lamentava una serie di difetti che affliggevano il giornalismo di entrambi i lati dell’Oceano, a scapito di chiarezza, efficacia e comprensibilità della scrittura. Come s’intuisce dal titolo, ciò che Orwell deplorava non era tanto un’epidemia transatlantica d’incuria, quanto un uso deliberato di certi vezzi a fini ideologici, demagogici o manipolatori.

Si potrebbe discutere molto sulla validità della lettura di Orwell applicata a cinquant’anni abbondanti di distanza – non solo al giornalismo ma anche alla narrativa. Per ora, limitiamoci a dare un’occhiata ai sei punti principali del saggio, il rimedio che Orwell prescriveva per combattere la genericità dilagante della scrittura.

1) Mai usare una metafora, una similitudine o un’altra figura retorica che si è abituati a vedere stampata. Sembra facile, sembra ovvio, ma non lo è. Ci sono figure retoriche che sono diventate luoghi comuni. La resa dei conti, il canto del cigno, il tallone d’Achille, l’ultima spiaggia, l’arena politicae compagnia cantante sono talmente logorati dall’uso che non suscitano più nessuna risposta nel lettore. Il problema è che sono così comode e automatiche che le si usa senza quasi accorgersene. Quando cessa di stimolare il pensiero (o almeno l’attenzione) associando concetti in modo inedito, la figura retorica decade al rango di blando riempitivo. La scelta è tra cassarla del tutto e sostituirla con un’immagine nuova, che colpisca e stimoli il lettore.*

2) Mai usare una perifrasi al posto di un verbo o sostantivo. Fare uso di invece di usare, utilizzare, consumare; andare incontro a invece di affrontare, incontrare, attendersi; i militi dell’Arma invece de i Carabinieri. Questa la prenderei con il proverbiale granello di sale, perché ci sono circostanze in cui una perifrasi può esprimere un’infinità di sfumature (dall’atterrita cautela al sarcasmo più pungente, passando per molti stadi intermedi) ma si può qualificare con un riferimento al n° 1 e al n° 3: mai usare una perifrasi logora, e mai usare una perifrasi che non aggiunge significato – a sfumature o a palate, a scelta.

3) Mai usare una parola difficile al posto di una semplice. Una parola lunga al posto di una breve, sarebbe una traduzione più letterale, perché in Inglese le parole lunghe tendono ad essere di origine latina – e perciò di uso erudito, quando non pretenziose. In italiano non è sempre così (ialino ha cinque lettere in meno di trasparente), ma il concetto non cambia. Un uso eccessivo di parole distrae, irrita e confonde il lettore – e il lettore distratto, furibondo o confuso non è un lettore felice: nella peggiore delle ipotesi, potrebbe anche sentirsi manipolato. Ricordate Calvin e Hobbes? Poi possono esserci buone ragioni letterarie per usare parole difficili: l’importante è sapere quel che si fa. Ne riparleremo al punto 5, 

4) Se è possibile eliminare una parola, eliminarla. Sempre. Secondo Ezra Pound la grande letteratura non è altro che linguaggio caricato di tanto significato quanto ne può portare. Di conseguenza, ogni parola che non aggiunge significato alla frase in cui si trova non fa altro che diluirne l’efficacia. Uno degli esercizi più illuminanti che si possano fare è prendere qualcosa che si è scritto (articolo, racconto, post – meglio cominciare con qualcosa di breve) e riscriverlo in due terzi o metà delle parole. La quantità di parole inutili che si scopre di poter potare è sempre uno shock. La maggiore efficacia della versione breve tende ad essere una sorpresa. Provare per credere.

5) Mai usare un verbo passivo al posto della voce attiva. Posto che in certe circostanze il passivo è cosa – se non proprio buona e giusta – necessaria, non si può negare che L’uomo è stato morso dal cane è più fiacco de Il cane ha morso l’uomo. Provate a leggerle entrambe ad alta voce per sentire quanto è più compatta e fluida la seconda versione.

6) Mai usare un’espressione straniera, un termine scientifico o una parola gergale al posto dell’equivalente in Italiano corrente. Qui farò bene a dichiararmi colpevole ancor prima di cominciare, visto il mio indiscriminato e selvaggio uso di espressioni inglesi. In questo post ho tentato di trattenermi, ma avrete notato che ci sono appena cascata di nuovo: che cos’è che sto scrivendo? un post. Ho appena perso dieci punti… Si capisce, Orwell scriveva in epoca pre-Internet – e scriveva in Inglese**: potrei davvero scrivere che ogni mattina mi siedo all’elaboratore e scrivo una pagina del mio diario elettronico da pubblicare nella Rete, dopodiché controllo se ho ricevuto qualche lettera elettronica, apro Finestre e mi dedico al mio lavoro di curatrice editoriale? Potrei, ma siamo sinceri: nessun lettore si farebbe un’opinione elevatissima della mia salute mentale. Fondamentalmente, il punto è avere ben presente il tipo di lettore per cui si scrive e mantenersi comprensibili.

Ecco fatto. Nel 1946 Orwell combatteva una crociata che aveva per stendardi semplicità stilistica e trasparenza intellettuale, e la sua ricetta si restringe a tre parole (di cui un aggettivo): buon senso, efficacia. Queste regole, come tutte le regole di scrittura, sono una guida di massima. Non delle forche caudine inesorabili, ma un piccolo radar ausiliario da tenere sempre in funzione – formulato in pochi punti chiari e semplici da memorizzare. Ho davvero bisogno di questa figura retorica, di questa parola, di questa forma verbale? Se la risposta è sì, bene, grazie e avanti tutta; se è no, sarà valsa la pena di essersi posti la domanda.

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* Il che mi fa ricordare un analogo consiglio di Margie Lawson: give them fresh fundamentals, ovvero descrivete le reazioni basilari con immagini nuove.

** Agli Anglofoni piace negare che l’Inglese sia una lingua voracemente acquisitiva. Qualcuno, come James Nicol, lo ammette: Inglese – una lingua che si apposta nei vicoli bui per assalire le altre lingue e

Scrittura ed Efficacia Secondo Orwellultima modifica: 2010-08-13T08:36:00+02:00da laclarina
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8 Commenti

  • Mi sembrano consigli molto saggi. L’unico consiglio che non ho mai sopportato è quello che impone di eliminare gli aggettivi, inserito spesso in prontuari di questo tipo. Adoro gli aggettivi. Al massimo posso essere d’accordo con chi dice evitare, quando possibile, gli accostamenti logori (tipo “sguardo languido”, “viso radioso”, “entusiasmo contagioso” ecc.). Ma non vorrei generalizzare troppo, intendiamoci. Per esempio, alcuni dicono di non usare le frasi fatte. Ma io posso citare frasi fatte davvero bellissime. Per esempio, “John ha fatto il suo tempo”. La trovo meravigliosa.

  • A volte frasi come “La resa dei conti”, proprio perché molto molto usate, possono dare un tocco di ironia (per esempio, John e Cindy lottarano a lungo per ottenere l’ultima fetta di torta, fino alla resa dei conti… oppure, l’ultima partita a rubamazzetto fu la resa dei conti)
    Io le uso spesso con questo preciso scopo.

  • Naturalmente tutto dipende dal contesto e dall’intenzione, ma ti dirò, cerco sempre di essere cauta. Ad ogni modo, vale la n° 4: se aggiunge significato, la parola/frase/espressione si è guadagnata il suo posto, sennò raus! 🙂
    Quanto agli aggettivi, una volta ho editato una cosa in cui ce n’erano 29 in due paragrafi nemmeno lunghissimi… a volte è davvero una questione di densità! Però, quello che Orwell dice è di non appiccicare un aggettivo o un avverbio a un verbo generico – o un aggettivo a un sostantivo generico – invece di cercare un verbo o sostantivo più efficace e specifico.

  • Ciao Clarina, credo che i giornalisti abbiano il dovere di essere comprensibili, perché il loro mestiere è informare, possibilmente senza manipolare (Utopia, utopia!). E lo scrittore? Le regole non potrebbero scontrarsi con lo stile? Ricordo una critica alla saga di Lemony Snicket “Una serie di sfortunati eventi” in cui si accusava l’autore di eccessiva complessità e pesantezza a livello sintattico e lessicale, del resto “è una storia per ragazzi!”. Forse Snicket avrebbe potuto essere più chiaro in alcuni passaggi e senz’altro avrebbe potuto evitare riferimenti “oscuri” a scrittori italiani defunti (Dante per esempio), ma il suo stile sarebbe stato ancora così affascinante? E, soprattutto, avrebbe suscitato ugualmente la curiosità di tanti ragazzi?
    Scusa se mi dilungo, ma vorrei chiederti delucidazioni su una “leggenda metropolitana” che riguarda il tuo lavoro: spesso mi è capitato di sentire che molti scrittori, anche di alto livello, presentano agli editori lavori decisamente poco curati su cui poi mettono le mani gli editor i quali, sostanzialmente, sistemano il testo e gli danno la forma definitiva. E’ davvero così? Quanto il vostro lavoro può influire su un’opera? Ti poni mai il problema di “cambiare troppo” quando correggi un testo?
    Mi rendo conto che per rispondere forse ci vorrebbe un post intero, perdona la curiosità… del resto però è colpa tua, sei tu che mi ispiri!
    Un saluto,
    Della

  • Ciao, Della!
    Montanelli diceva che l’obiettività nel giornalismo non esiste, però ci si può sforzare di essere onesti. In narrativa, quando la premessa è “stammi a sentire, o Lettore, che te la conto e te la canto”, l’onestà consiste nel non usare lo stile (o una pretesa di stile) per mascherare lacune di trama, di caratterizzazione, di logica… Non è obbligatorio essere comprensibili a tutti i costi; essere totalmente incomprensibili è una scelta un po’ suicida; tutto quello che sta nel mezzo è fair game, a patto di sapere quel che si fa. Non ho mai letto Lemony Snicket, ma se allo stile che descrivi corrisponde del solido storytelling, allora sono pienamente d’accordo con te. Tra l’altro, non c’è nulla, nullissima di male nell’introdurre le menti implumi dei fanciulli all’idea che là fuori esistono una sintassi, una letteratura e un mondo un po’ più complessi. E mi par di capire che i numeri editoriali abbiano dato ragione a Snicket, o no?
    E questo, in qualche modo, ci porta all’editing…

  • Uh, editing! Domanda da un milione di sterline, e temo che la risposta sia “dipende”. Cominciamo col dire che le leggende che hai letto hanno del vero. La storia che si racconta sempre in questi casi è quella di Gordon Lish, l’editor che ha “creato” Raymond Carver. Un anno o due fa, una ri-pubblicazione degli originali di Carver (“originali” as in “prima che Lish ci mettesse le mani”) ha mostrato che senza l’intervento dell’editor Carver sarebbe stato uno scrittore molto diverso. Un’altra storia è quella di Susannah Clapp, a cui dobbiamo l’affascinante asciuttezza delle opere di Bruce Chatwin, che invece di suo sarebbe stato disastrosamente prolisso… che dire? Questi sono casi estremi, ma l’intervento dell’editor varia moltissimo, da poco più che una correzione di bozze alla riscrittura di fatto, e dipende da un’infinità di fattori – non ultimi la politica in materia della casa editrice, il lato della Manica su cui ci si trova e il potere dell’editor stesso. L’ideale sarebbe lavorare con l’autore, suggerire delle direzioni in cui muoversi e poi seguire e discutere passo per passo tutto quello che si fa sul testo. Inutile dire che non sempre si può.

  • Grazie della tua risposta, Clarina… sapevo anch’io di Carver, ma mi chiedo: se l’intervento dell’editor in alcuni casi diventa così “caratterizzante” in un’opera, io, ignara lettrice, lo vorrei sapere! Non mi sembra molto corretto che l’editor rimanga nell’ombra, perché credo che per quanto un’idea possa essere geniale, anche la forma abbia il suo peso (eccome!) nel colpire l’immaginario di tanti lettori! Quando sento lodare i casi editoriali di scrittori sedicenni o giù di lì, i quali scrivono capolavori in due mesi, oppure “così, di getto, nella mia cameretta col sostegno di mamma e papà”, pubblicati da Mondadori, chissà perché quasi sempre di genere fantasy……….. (respiro profondo)……….. IO NON CI CREDO!!!! Ecco che, a mio parere, in questi casi l’editor ci ha messo più che il famigerato zampino!
    Un saluto,
    Della

  • @Della: a giudicare dalla qualità letteraria media delle opere, i cui pregi si riducono spesso all’esser state scritte da giovani autori, parrebbe proprio invece che nessun editr ci abbia messo mano. Almeno, da un alto lo si *spera*…