Oggi esce Anonymous, di Roland Emmerich.
E no, non sono oxfordiana – why, non sono nemmeno anti-stratfordiana – e temo di non avere un briciolo di fiducia né in Emmerich né in Orloff.
E però.
Da un lato ne avete tutti fin sopra i capelli della mia infatuazione nei confronti del posto e dell’epoca: potrei mai trascurare un film ambientato in epoca elisabettiana – e che parla di teatro? Giammai.
E d’altro canto è pur vero che attorno alla fama postuma del buon Will nei secoli si è prodotta la fauna più straordinaria…
A partire dal dibattito di base: che cosa sappiamo dello Zio Will? Tutto quel che c’è da sapere, appena quanto basta, una ragionevole quantità di cose, o non sappiamo un bottone? Inutile dire che le opinioni in materia divergono selvaggiamente: c’è chi lo fa sembrare l’uomo del mistero, poco più di una cifra nascosta dietro lo straordinario corpus di opere che si sa, e chi sostiene – non del tutto a torto – che per essere stato un teatrante di epoca elisabettiana (categoria popolare fin che si vuole, ma non proprio socialmente comme il faut), si è lasciato dietro un considerevole numero di tracce.
La domanda successiva è: che cosa si deduce da quello che si sa? Una sorprendente quantità di gente sembra dedurne che Will Shakespeare non può avere scritto le sue opere, che era una specie di prestanome, un autore mediocre, attore, mezzo impresario e mezzo mercante di granaglie, un provinciale poco meglio che illetterato, pronto a vendere il suo nome per consentire a qualcun altro di pubblicare di nascosto tutte quelle opere geniali.
Chi altro di preciso? Su questo c’è ogni genere di sconcertante ipotesi.
Parlando di Elisabetta I, c’è anche chi sostiene che sia stata proprio lei a scrivere le opere di Shakespeare, solo che non stava bene che una regina scrivesse teatro, e quindi… Però gli elisabettisti sono una sparuta e malconsiderata minoranza, nulla a che vedere, per esempio, con i baconiani o gli oxfordiani.
Non è finita qui, c’è anche chi tifa per la bella e colta Lady Mary Sidney, con o senza la collaborazione del suo celebre fratello, Sir Philip Sidney, oppure per Walter Raleigh, o per William Stanley, conte di Derby, o per un’altra quarantina di candidati in ordine sparso.
Ora, diciamolo piano perché il dibattito è violento ai limiti della fisicità, ma tutte queste teorie tendono a fare acqua in un modo o nell’altro: Marlowe era… be’, un tantino morto per scrivere; Bacon condusse una vita politicamente e intellettualmente molto piena anche senza infilarci l’opera omnia di Shakespeare, e poi aveva l’abitudine di pubblicare a suo nome, proprio come Oxford, il quale oltretutto, essendo morto nel 1604, avrebbe dovuto preparare in anticipo una considerevole parte della sua opera, lasciandola da pubblicare postuma. Improbabilità analoghe affliggono anche tutte le altre teorie…
E tuttavia, se vi siete fatti l’idea che gli spostati stiano tutti in campo anti-stratfordiano, provvedo subito a correggere l’impressione.
Dove vogliamo mettere, per esempio, William Henry Ireland che, a cavallo tra Sette e Ottocento, per
Si potrebbe continuare con l’eccentrica coppia americana che dedicò buona parte della sua vita e del suo patrimonio a fare ricerche negli archivi inglesi – e sempre si credette spiata e perseguitata dai servizi segreti di Sua Maestà Britannica; o con Freud che, dopo essere stato un oxfordiano si convertì all’altrettanto bizzarra convinzione che lo Zio Will fosse in realtà un Francese di nome Jacques Pierre; o con la gente che vuole il Bardo italiano (specificamente siciliano) o tutto fuorché inglese. Potrei sbagliarmi, ma credo proprio di ricordare un tempo in cui Gheddafi giurava sull’origine maghrebina di Sheik Spear.
Non del tutto sorprendentemente, tutto questo marasma pseudo-accademico ha dato origine anche a una certa quantità di letteratura narrativa. Qui mi limiterò a citare tre titoli: The Propagation of Knowledge, un racconto di Kipling in cui Stalky, Beetle e M’Turk fanno sfoggio delle teorie di Delia Bacon ai danni del detestato professor King; Il Manoscritto di Shakespeare, di Domenico Seminerio, che ambienta il dibattito in Sicilia e mostra una versione all’acqua di rose della scrittura un romanzo storico; e il ripetutamente citato History Play di Rodney Bolt, meraviglioso gioco letterario che si fa garbate beffe delle teorie marloviane e del mondo accademico, a mezza strada tra una sciarada, un saggio e un romanzo storico.
Ma se volete qualche lume in più su questa narrativa anti-stratfordiana, date un’occhiata a questo articolo, il mio primo intervento bardocentrico su Thriller Magazine – perché, di nuovo, la fauna è abbondante e bizzarra.
Ce n’è di gente bizzarra al mondo, vero? E per di più, date loro una causa di qualsiasi tipo e vi solleveranno una quantità di polvere, accademica e otherwise.