Senza Errori di Stumpa

Crampi Verbali: I Miei Orribili Dieci

Si parlava di allergie, in un convivio di colleghi, insegnanti, attori e gente che, per lo più, ha a che fare con le parole.

Allergie verbali.

Quelle parole o combinazioni di parole che, incontrate per iscritto o udite in conversazione, scatenano violente reazioni in una gamma che va dal latte alle ginocchia ai travasi di bile. Qualcuno ha lamentato anche casi di crisi epilettica – ma si sa che la gente di teatro tende ad esagerare.

La conversazione è diventata subito una di quelle faccende à la figurine Panini, in cui ciascuno espone i pezzi della sua collezione personale, salutati da cori di “anch’io!” e proposte di pena. C’è stato chi ha proposto il gatto a nove code per gli abusatori di “virtualmente”, ma si sa che la gente di teatro, eccetera.

Tutti abbiamo questo genere di pet peeves, vero? Mi rifiuto di credere che il fenomeno sia limitato a me e ai miei commensali. Tutti desideriamo ringhiare di fronte a certi tic verbali, certi svarioni radicati al punto da franare in usi invalsi, certi luoghi comuni. Tutti concepiamo irragionevoli antipatie per gente colpevole solo di ripetere a ogni pie’ sospinto quell’avverbio che detestiamo. Vero?

Ecco, se mai ho accarezzato l’idea di darmi alla politica, è stato solo nell’intenzione di legiferare e rendere penalmente perseguibile l’uso di cose come… Vediamo un po’, in ordine sparso…

1) Il vissuto. Sostantivo, in genere accompagnato da un aggettivo possessivo. Quanto c’è del tuo vissuto in questo libro? Ho sentito l’esigenza di elaborare il mio vissuto… Cose così. E mi dà l’orticaria quando lo sento nella conversazione, ma trovarlo per iscritto… A meno che non si stia scrivendo la diagnosi di uno psichiatra, perché far suonare il proprio romanzo – o poesia* – come la diagnosi di uno psichiatra?

2) Solare. Riferito a persona. Immagino che di per sé non abbia nulla di male – voglio dire, non è la parola che sceglierei per descrivere qualcuno, perché è uno di quegli aggettivi pigri che voglion dire tutto e niente, ma non ci facevo nemmeno caso prima che diventasse più ubiquo di Hello Kitty. Possibile che le donne, le ragazze e le bambine siano tutte solari – specie se per un motivo qualsiasi se ne parla al telegiornale?

3) Ampio. Altro aggettivo pigro – il preferito dagli scrittori novellini, per i quali le scale sono sempre ampie, le porte sono sempre ampie, le stanze sono sempre ampie, le terrazze, le finestre, le strade, le scrivanie, le facciate, le distese di qualunque cosa… Che ne è di vasto, largo, sterminato, sconfinato, imponente, spazioso – e cito soltanto i primi cinque o sei che mi vengono in mente così, off the top of my head.

4) Forte. Terzo aggettivo pigro. Il momento forte, la presenza forte, e soprattutto l’abominevole segno forte. In alternativa, c’è chi usa “importante”, esattamente allo stesso modo – con l’eccezione del lettore forte. Oh, la gente che, senza preavviso e senza provocazione, annuncia: io sono un lettore forte – e dice sul serio!

5) Vicino casa. No, no, no, perbacco: vicino a casa. A casa. A. A. A casa!

6) Riappacificare. No, no, no, perbacco: rappacificare. Rap-pa-ci-fi-ca-re!

7) In velluto/legno di rosa/marzapane/pizzo spagnolo. Con i miei precedenti, non mi aspetto di essere presa sul serio se mi lagno di un francesismo, e allora dirò invece che usare “in” anziché “di” è brutto. La Grande Elisabetta entra nella sala del trono con le labbra strette e la fronte aggrottata. I cortigiani s’inchinano tanto a fondo quanto possono, e nessuno osa sollevare lo sguardo a incontrare quello furioso della regina. Tutti trattengono il fiato mentre Elisabetta raggiunge il trono tra due ali di schiene piegate, e per una piccola, scomoda eternità non si sente altro suono che il ticchettio dei regali tacchi e il fruscio delle regali gonne in velluto… Ed ecco che, dall’Inghilterra del Cinquecento, siamo precipitati nel Catalogo Vestro.

8) Uèlfar. Et caetera similia. Di nuovo, non dico che dobbiate prendermi sul serio, ma davvero: perché usare parole straniere per poi pronunciarle alla maniera degli gnu? Sì, d’accordo, riconosco che tutti diciamo compiùter e ci sentiremmo enormemente buffi a pronunciarlo alla maniera giusta, ma nondimeno…

9) Docciarsi. Giuro che non avevo idea. Poi una volta un’allieva l’ha usato in un racconto. Poi l’ho trovato su una rivista. Poi ho sentito un vicino di posto in treno che, al telefono, giurava che non sarebbe stato in ritardo: “Il tempo di docciarmi e arrivo”. È talmente orribile che non mi sentirei di scartare drasticamente il gatto a nove code.

10) Piuttosto che. Cosa, cosa, cos’ha che non va il buon, vecchio, collaudato, monosillabico, elegante “o”?

Ecco. Dieci, come promesso – e per una volta non intendo sforare, anche se potrei proseguire a lungo. Ci sono svarioni, ci sono vezzi giornalistici, ci sono immotivate avversioni personali, ci sono questioni di logorio. Il guaio è che tutte queste magagne – meno la n° 6, ma solo perché per iscritto non si pronuncia – le vedo penetrare, mettere radici e proliferare nella scrittura, con la giustificazione che “si dice”, e allora alle volte mi prende un tantino di sconforto e di acidità di stomaco… E poi mi vien da dirmi: chissà quanti idiotismi uso che fanno sobbalzare il prossimo, e allora sospiro, e scuoto il capino e mi astengo dall’omicidio – anche in forma lieve.

E voi che mi dite? Quali sono le vostre allergie linguistiche e verbali? Cos’è che, in conversazione, al tiggì e in lettura, scatena il vostro spirito glottocrociato? 

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* No, really. Giuro che mi è capitato. Una poesia – almeno nelle intenzioni dell’autore – con il dannatissimo vissuto conficcato in un verso…

 

Crampi Verbali: I Miei Orribili Dieciultima modifica: 2013-01-25T08:10:00+01:00da
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