Mar 20, 2013 - grilloleggente    5 Comments

Il Teorema Di Sheherazade

Va bene, parliamo di serie.

L’atteggiamento logico sarebbe quello di cominciare con il primo libro della serie e poi continuare nel giusto ordine. Talmente logico che per molto tempo non mi sono nemmeno posta il problema.

Né, d’altra parte, posso dire di avere letto moltissime serie.  Sì, c’è la soddisfazione di ritrovare personaggi, ambientazione e vicende che si sono apprezzati. E on the other hand c’è sempre il pericolo d’indigestione. Ho ricordi men che piacevoli del ciclo di Shannara – che a un certo punto ho abbandonato per un motivo che ancora oggi trovo ragionevolissimo: non ne potevo più.

In compenso ci sono stati O’Brien, Forester e Cornwell, che ho letto con molto piacere dal principio alla fine – ed è possibile che sia anche una questione di genere. A mio timido avviso, sia O’Brien che Forester scrivono meglio della Rowlings, però ammetto che il diluvio di gergo navale o militare possa irritare quanto la sovrabbondanza di Quidditch – uno dei motivi per cui, pur avendo letto tutto Harry Potter, l’ho fatto con crescente impazienza e, se devo dire la verità, di sette tomi viepiù spessi, me ne sono piaciuti solo due.

Naturalmente non era solo questione di sport: il mio problema era la ripetitività dello schema, anno scolastico dopo anno scolastico… E perché, nonostante questo, li ho letti tutti e sette? Per la natura delle serie, concepite per trascinare il lettore di volume in volume, coniugando la rassicurante riconoscibilità dello schema con la curiosità solleticata. Ma guarda, il nostro eroe si è cacciato nei guai un’altra volta: riuscirà a uscirne? E in quali altri guai lo precipiterà la soluzione di questi? Il principio è sempre lo stesso (problema – soluzione – problema più grosso…), solo che è spalmato su un numero variabile di volumi. Ed è pur vero che una ciliegia tira l’altra proprio per la ragionevole certezza che anche la prossima sarà una ciliegia. Poi a volte la successione di ciliegie diventa un po’ troppo rassicurante – ma è una percezione soggettiva e comunque non è detto che ci si riesca a staccare pur avendo l’impressione di cominciare ad annoiarsi.

Che dire? La narrazione seriale è concepita per generare dipendenza. Sheherazade, anyone? La mia teoria è che dopo un volume è perfettamente possibile piantare tutto, dopo due diventa difficile, e dopo tre ci si può considerare perduti.

E badate, parlo di un volume, due volumi e tre volumi – non del primo, secondo e terzo…

Perché credevo che fosse il caso di leggere le serie in ordine cronologico – con la possibile eccezione dei gialli d’ambientazione contemporanea – ma comincio a ricredermi.

Dacché scrivo per HNR, però, mi capita di entrare in una serie da… well, da dove capita che serva una recensione. E talvolta mi irrito fin dapprincipio, come nel caso di Edward Marston, che scrive gialli storici in quantità industriale e in una collezione di periodi, l’uno più interessante dell’altro, ma poi li scrive tutti uguali, vaghi nell’ambientazione, piatti nei personaggi*, legnosi nei dialoghi e tutt’altro che al di sopra di errori ed anacronismi. E allora poco importa da quale volume abbia iniziato: mi sono ritrovata a leggere un singolo volume a caso di non una, non due e nemmeno tre, ma quattro serie di Marston, e non ho il minimo desiderio di vederne altri.

Ma quando invece mi capita di essere catturata, poco importa da dove ho iniziato: torno al principio e proseguo. Con risultati di varia natura, perché vado constatando che la redazione di una serie attraversa varie fasi, man mano che l’autore trova la sua voce, fa esperienza e poi comincia a stancarsi.

Così per esempio ho scoperto gli elisabettiani Carey Mysteries di P.F. Chisholm a partire dal quarto volume, sono tornata indietro, li ho adorati tutti e adesso, dopo avere finito il quinto, continuo a sperare che l’autrice ne scriva ancora un po’. E lo stesso è stato per i bellissimi gialli ottoman-ottocenteschi di Jason Goodwin.

Con le indagini di Abigail Adams di Barbara Hamilton, invece, ho cominciato dal secondo volume che ho trovato un po’ lento, ma ho apprezzato l’ambientazione nella Boston prerivoluzionaria abbastanza da fare un altro tentativo. E il primo volume si è rivelato molto più fresco ed efficace. Non sembra un gran buon segno, vero? Esiste un terzo volume, ma esito perché non so se credere a un lapse momentaneo o a una rapida disillusione. E per di più, mi par di capire che nel terzo giallo sia assente il mio personaggio prediletto, il Tenente Coldstone**.

E sì, considero la sparizione o mancanza di un personaggio particolare una questione di una certa rilevanza all’interno di una serie. Per dire, Fratello Cadfael (scoperto al terzo volume) mi piace molto, ma non riesco a trovarci troppo gusto quando manca Hugh Beringar, e lo stesso vale per Martin Wirthir nelle avventure di Owen Archer (iniziate dal secondo volume). Tornare indietro, in entrambi i casi, è stato di relativa soddisfazione: ho scoperto che non ero poi troppo interessata ai primordi in cui l’autrice non aveva ancora creato il sidekick adatto***.

Per Tancred a Dinant, il cavaliere normanno di James Aitcheson, è stata uan faccenda diversa. Il secondo volume mi è piaciuto tanto da indurmi a procurare il primo, salvo scoprire che trama, caratterizzazione e voce cigolavano sotto il peso dell’inesperienza del giovane autore. Inutile dire che, dato il miglioramento drastico, in questo caso sarò ben felice di veder comparire il terzo volume.

Sulle avventure navali di John Pearce, di David Donachie****, lettura recentissima, I’m of two minds. Premetto che avere cominciato dal nono volume non è stata la migliore delle idee, e forse non l’avrei fatto se non fosse stato per esigenze di redazione. Sia chiaro: la storia pregressa è gestita piuttosto bene, e il lettore non viene lasciato in dubbio su chi sia chi, chi voglia cosa e perché. Il problema è che questo nono episodio è più che altro una transizione, con il protagonista che chiude la missione precedente e si prepara per la successiva – e non è che succeda granché. E quel poco che succede ha l’aria di essere un po’ grautito… Dopodiché i personaggi sono davvero buoni, l’ambientazione accurata e vivida, i dialoghi efficaci, e i precedenti stuzzicano la mia curiosità. Sono alquanto tentata. Staremo a vedere, ma può darsi che ricominci.

E con questo non voglio dire che vada sempre così, perché ci sono serie come i gialli seicenteschi di Judith Rock e quelli di Nicola Upson con Josephine Tey per detective, o Sorcery&Cecelia, i fantasy Reggenza di Wrede e Stevermere – tutte serie che ho cominciato dal principio, dal volume 1, come la maggior parte della gente sensata… Upson probabilmente la abbandonerò, ma con le altre intendo continuare: buone fin dall’inizio e ancora niente delusioni.

La morale di tutto ciò? In primo luogo, si direbbe che quando sostengo di non leggere serie io menta. In secondo luogo, scrivere serie richiede una serie di competenze e astuzie distinte da quelle necessarie a scrivere un romanzo singolo, o anche una trilogia che racconta una storia compiuta.

Bisogna saper dosare i propri effetti e le proprie vicende su un numero non necessariamente prevedibile di volumi. Bisogna incuriosire il lettore senza spiazzarlo troppo. Bisogna dargli l’impressione di sapere dov’è (o non si fiderà abbastanza per comprare il prossimo volume) pur elargendogli il giusto tipo di sorprese al momento giusto (o si annoierà e non comprerà il prossimo volume). Bisogna architettare ogni volta un finale che sia soddisfacente e al tempo stesso tale da catapultare il lettore verso il volume successivo. Bisogna amministrare i loose threads, lasciarsi aperte abbastanza strade per il futuro e al tempo stesso non disperdersi e mantenere la storia generale sensata e coerente. Bisogna scegliere bene i propri personaggi – e badare a quando li si toglie di scena*****. Bisogna calibrare bene il passo. E bisogna essere certi di aver voglia di scrivere più o meno indefinitamente su un certo personaggio, mantenendolo attraente quanto basta. Può durare a lungo  – e allora si corre il rischio di annoiarcisi – o può durare poco, e allora immagino che sia dura abbandonare personaggio e ambientazione…

E bisognerebbe consentire al lettore di cominciare da qualsiasi parte, avendo l’impressione di leggere un libro che sta in piedi da solo e, al tempo stesso, di volerne sapere di più, molto di più…

Una volta a un seminario ho sentito un agente americano dire che in una serie, con ogni volume vendi il volume successivo. La mia impressione è che un buon singolo volume possa vendermi tutta la serie – ma il mio criterio fondamentale è questo: mi aspetto di leggere un romanzo, non una fetta di qualcosa di più grosso, senza inizio né fine, thank you very much.

E voi? Leggete serie? Vi lasciate catturare? E cominciate dal principio o fa lo stesso? Vi capita di entrare da una porta laterale – e poi restare? Che cosa vi fa adottare una serie? Che cosa ve la fa abbandonare?

 

 

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* Quanto detesto i suoi protagonisti bidimensionalmente ipercompetenti…

** Sì, un inglese. Un magistrato militare inglese. A me nelle storie coloniali tendono a piacere gli Inglesi. Fatemi causa.

*** Anche se in realtà, nel caso di Martin Wirthir forse la definizione di sidekick non è del tutto adatta. Nel secondo volume è più probabilmente un foil.

**** Che è poi Jack Ludlow, e anche Tom Connery.

***** Acida per via di Coldstone? Io? Non capisco come vi sia potuto venire in mente…

Il Teorema Di Sheherazadeultima modifica: 2013-03-20T08:10:00+01:00da laclarina
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5 Commenti

  • Io non solo le leggo, ma ne studio la convergenza:
    http://it.wikipedia.org/wiki/Serie

    😀

  • La serialità è ormai la modalità standard della letteratura di genere, e del fantastico in particolare, al punto che si gioisce (e si prova al contempo un certo senso di angoscia) quando un autore produce un one-shot, un romanzo singolo autoconclusivo.
    Di più – da quando un certo romanzo in tre parti è stato etichettato “trilogia”, il fantasy si scrive in trilogie, al punto che capita di sentire adolescenti di belle speranze che si accingono a scrivere “la mia prima trilogia”.
    Detto ciò – non mi dispiace la serialità quando porta ad una esplorazione di aspetti precedentemente trascurati dei personaggi o dell’ambientazione. In questo senso, la serie di Lord Peter Whimsey (per fare un esempio al di fuori dell’ambito fantastico) mi piace perché ad ogni romanzo il personaggio evolve.
    La produzione di infiniti multipli tutti costruiti sullo stesso impianto strutturale, col protagonista monoliticamente uguale a se stesso, dopo un po’ stancano.
    C’è il rischio che la serialità diventi sintomo di pigrizia – dell’autore, del lettore o dell’editore.
    (il che, immagino, da un appassionato di vecchi pulp – nei quali un personaggio aveva successo se compariva il almeno 100 romanzi – potrebbe suonare contraddittorio)

  • @Simone: ma così non vale! 🙂

    @Davide: ah già, le trilogie – che poi nella maggior parte trilogie non sono. Ma suppongo che, nella maggior parte dei casi, faccia editorialmente comodo non distinguere troppo tra trilogia, romanzo in tre parti e serie di tre… E se poi il lettore si sente raggirato perché si ritrova con un tomo di quattrocentottanta pagine cui manca quell’interessante e utile accessorio – un finale… eh be’, pazienza. Vuol proprio dire che dovrà leggersi gli altri due tomi, se ci tiene.
    Sono acida stasera, vero?

  • Non sei più acida del giusto, io temo.
    E può anche essere peggio di come dici – può succedere che l’editore, timoroso che tre volumi da mille pagine ciascuno traumatizzino il fragile lettore, spezzi ciascun volume della “trilogia” in tre.
    Ricavandone, è ovvio, anche un certo extra in termini monetari (meglio nove libri a venti euro ciascuno che tre a quaranta).
    Il lettore si sente raggirato, ma il potere della serialità è di solito tale, che mugolando il lettore continua a scucire.

  • Ah già, le ennealogie. Che poi guarda, gliele si potrebbe anche perdonare, le ennealogie, se almeno si premurassero di farle per bene. Essere indotti a pagare di più con grazia, classe e competenza è molto, molto meno irritante che essere indotti a pagare di più per sei ulteriori colpi di mannaia più o meno indiscriminati, I find.