Apr 5, 2013 - Vitarelle e Rotelle    4 Comments

Al Momento Migliore, Al Momento Peggiore

Il momento migliore per fornire informazioni è quando il lettore è ansioso di saperle, ci diceva Karl Iglesias a un seminario.

E, aggiungerei io, quando possono causare la maggior confusione e/o il maggior danno possibile.

Prendete Dickens…

Sì, lo so, avevo detto basta Dickens, but bear with me. Vedrete che si tratta più di tecnica che di Dickens. le due città, charles dickens,

Prendete Le Due Città.

Prendete il Dottor Manette. Ecco, il Dottor Manette, so sappiamo fin dal capitolo I del Libro Primo, si è sciroppato quasi diciotto anni di prigionia alla Bastiglia. Ci è finito da innocente, ma non sappiamo perché. Nessuno lo sa. Nemmeno lui, perché mentre fabbricava scarpe da signorina nella cella n° 105, ha avuto tutto il tempo di perdere il lume della ragione.

Ma poi il buon dottore viene liberato, ritrova una figlia che era cresciuta credendosi orfana, e che è ben felice di riprendersi un genitore – per danneggiato che sia. E Lucie Manette, creatura luminosa fin dal nome, è quel che ci vuol per ricondurre all’ovile le sparse meningi del povero babbo.

charles dickens, le due cittàEd è chiaro che, mano a mano che recupera il senno, il Dottor Manette ricorda quel che gli è capitato. Però non lo dice a nessuno. Certo, ogni tanto ha una ricaduta e si rimette a fare scarpe. E certo, per quanto si sforzi, non è capace di farsi piacere fino in fondo quel pur bravissimo ragazzo del suo futuro genero, l’émigré francese Charles Darnay. Ed è pur vero che Charles ha per zio, il malvagissimo marchese di St. Evremonde, che è così curioso a proposito del medico liberato dalla Bastiglia. Ed è pur vero che, quando Charles vorrebbe rivelare al Dottore questi suoi sgradevoli vincoli famigliari, Manette lo supplica di non farlo fino a dopo il matrimonio con Lucie. Ed è vero anche che la terribile Madame Defarge si stupisce molto che una Manette possa sposare il nipote di un Evremonde.

E quindi ogni tanto ci si ricorda che c’è un mistero attorno alla prigionia del Dottor Manette. Un mistero che potrebbe riguardare in qualche modo Charles. Un mistero potenzialmente devastante per tutte le brave persone di questo romanzo. Un mistero che solo il Dottore potrebbe sciogliere…

Solo che non lo fa. Mai.

Ci sono mille occasioni in cui il Dottore potrebbe raccontare quel che gli è capitato a Lucie, a Charles, al Dottor Lorry – o a se stesso nelle notti insonni. Però non lo fa. charles dickens, le due città

Almeno non direttamente. Perché quando la rivelazione alla fine arriva, arriva sì dalle parole del Dottor Manette, ma sono parole scritte e dimenticate. Sono di Defarge a ritrovare e produrre il drammatico manoscritto che il Dottore aveva lasciato nella sua cella alla Bastiglia, piene di nomi, accuse, rabbia e maledizioni – contro gli Evremonde.

Maledizioni che adesso il Dottore vorrebbe non avere mai scritto, perché l’ultimo degli Evremonde è il marito della sua adorata figlia – ma è troppo tardi.

La rivelazione lungamente attesa, promessa e dilazionata alla fine arriva – per mano di altri – al momento peggiore, quello in cui serve a condannare senza appello il povero Charles nel suo terzo processo capitale nel giro di sette anni.

Ed è una lunga rivelazione, un’abbondanza di backstory che occupa quasi un capitolo – però il lettore non se ne irrita perché, oltre ad essere molto drammatica, la rivelazione, invece di essere solo un sacco di informazioni, è diventata una minacciosissima svolta della trama – e arriva in modo del tutto inatteso, nel momento in cui nessuno se l’aspettava più.

Nel momento peggiore per i personaggi, e nel momento migliore per il narratore e i lettori. Oh… e sì: anche il momento in cui i lettori sono davvero ansiosi di riceverla.

 

Al Momento Migliore, Al Momento Peggioreultima modifica: 2013-04-05T07:30:00+02:00da laclarina
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4 Commenti

  • Sai Clarina questo tuo post mi ha fatto riflettere su quanto è difficile trovare “il momento giusto”.
    Penso che ci voglia una certa dose di coraggio per tirarla così per le lunghe.
    Forse ai tempi di Dickens ce ne voleva meno oggi credo che il lettore sia impaziente.
    Quando scrivo mi capita di cedere alla paura che il lettore sia troppo stupido o impaziente per accettare un qualcosa o uno status quo che non conosce per troppe pagine prima che gli venga svelato.
    Sarà che i libri di quest’ultimo periodo sembrano proprio scritti per lettori sciocchi incapaci di astrarre e aspettare che quel qualcosa prenda forma “al momento giusto”.
    In questo senso quando torno ai libri “vecchi” e non necessariamente ottocenteschi ma anche libri d’intrattenimento di una cinquantina di anni fa mi sembra sempre che lo scrittore sia un po’ “aggressivo” rispetto alle patinature recenti.
    Aggressivo nel senso che racconta la storia come pensa sia meglio, a volte in modo azzardato, altre volte in modo sfacciato non facendosi paranoie su “come la prenderà il lettore”.
    Certo scrive una buona storia per il lettore ma non si preoccupa di omogeneizzargliela per bene, confidando nel fatto che il lettore i denti ce li abbia.
    E la domanda è: il lettore di oggi i denti ce li ha o lo abbiamo instupidito al punto che non li sa più usare?
    Come si dovrebbe scrivere per il lettore di oggi?

  • È vero, tende ad esserci questo terrore che il lettore non ci arrivi… Ed è, a ben pensarci, una pessima cosa, perché non è bello scrivere per gente del cui acume dubiti in via di principio.
    Né, mi vien da pensare, dev’essere enormemente bello pubblicare per un pubblico del cui acume, eccetera.
    E sarà poi così vero che i lettori sono creature patologicamente abitudinarie, che fuggono inorridite verso altri pascoli nell’istante in cui si rendono conto di avere ricevuto da brucare erba non predigerita – nella forma di qualcosa che trascende appena appena le formule? E non parlo solo della narrativa di genere…
    A ben vedere, qualcosa di vero in tutto questo deve esserci, vista la quantità di fascette editoriali che paragonano il tale romanzo al tal’altro di grande successo. “Nella stessa vena di…” “Se vi è piaciuto X, adorerete Y…”, “Il nuovo Z…” eccetera eccetera.
    Potremmo andare sul filosofico spicciolo e dire che l’umanità ha bisogno di rassicurazioni, e allora la risposta alla tua domanda sarebbe che per il lettore di ciascuna epoca si dovrebbe scrivere ciò che ciascuna epoca trova rassicurante.
    Il che non significa necessariamente cuccioli e arcobaleni – magari invece vanno tanto le carneficine assortite, a patto che siano carneficine confezionate secondo la giusta e rodata formula?
    Oppure si potrebbe dire che il lettore attuale, abituato alla gratificazione istantanea e con una bassa soglia di attenzione, vuole un biscotto ogni due, tre, cinque pagine – hence the potboiler?
    Si può dirlo, ma allora vedi, il punto è che il buon Dickens era proprio un maestro del colpo-di-teatro-once-a-week, perché è così che pubblicava, ed era così che teneva legati i lettori di settimana in settimana – con una rivelazioncina, un scoglieretta, un indovinello narrativo, una sorpresa per ogni episodio.
    Quanto alla lunga, lunghissima rivelazione di T2C, immagino che sia questione di pratica e di tecnica: la rivelazione è promessa, fatta baluginare, dondolata davanti agli occhi del lettore un’infinità di volte, e ogni volta che sembriamo sul punto di scoprirla, natch! viene lanciata ancora un po’ più in là: corri, o Lettore. Corri ancora un po’ e acchiappala!
    E in queste cose, a parte tutto, il Dickens maturo è maestro. Queste cose si fanno generando la giusta tensione e tenendola sospesa finché non è quasi insostenibile. Mica facile – ma è proprio lì, il bello.

  • Merda, ci riesci sempre! Vado a scaricare il romanzo.

  • Good boy… 🙂