Senza Errori di Stumpa

Finali – Un’Altra Volta

Vi ricordate di questo post? Ci si parlava di lieto fine, e di come sia un passatempo cui non indulgo facilmente – perché in linea generale non mi ci riconosco.

Ebbene, in seguito è capitato che Davide Mana riprendesse l’argomento sul suo blog– no, non strategie evolutive, ma l’altro. Quello in Inglese, che si chiama Karavansara*.Se non ci avete mai fatto un salto, è il momento di provare: ne vale decisamente la pena.

Ma fatelo dopo, magari. Per il momento, il punto è che nel suo post su Karavansara, Davide approfondiva la questione del lieto fine e del finale aperto. Perché ogni storia è per forza di cose una sezione, un segmento, una carotatura di una storia più vasta, e si potrebbe dire che nessuna storia finisca mai davvero. Ma, dice Davide, in un certo senso ogni finale aperto è una sorta di lieto fine provvisorio. Le cose sono quel che sono, ma per il momento abbiamo salvato il mondo/rotto l’assedio/conquistato la città/salvato la principessa e va bene così. Domani è un altro giorno… er, no. Wrong story.

E poi neanche troppo sbagliata, a ben pensarci: il finale di Via col Vento è aperto. Un finale triste – per oggi. Dopodiché tutti sappiamo che razza di donna sia Rossella, e già la vediamo asciugarsi gli occhi, pizzicarsi le guance per apparire meno pallida e partire alla riconquista di Rhett Butler con la determinazione di un furetto. Per cui si potrebbe quasi dire che non esiste finale aperto veramente tragico. O finisce bene o, se finisce male, è comunque un male aperto a correzione.

Dopodiché, devo confessare di avere sempre qualche perplessità nei confronti dei finali aperti. È vero, lasciano spazio a sviluppi, ma non permettono quel senso di chiusura e di compimento che, da buona occidentale (in parte inconsapevolmente) tirata su ad Aristotele, mi piace trovare alla fine di una storia. Mi piace che i sipari si chiudano del tutto. Mi piace avere la certezza che ai miei personaggi non capiti nulla di veramente brutto – come mediocrità, demenza senile, disastri nucleari… E per definizione, ogni lieto fine è un finale aperto, per cui…

Ma sto divagando. Quel che volevo dire è che poi Davide ha sollevato la questione del perché. Non tanto del perché scrivere finali tragici, quanto del perché scrivere affatto con la prospettiva pressoché fissa** di un finale tragico. Diceva Davide (e spero che mi perdoni la traduzione):

Ma limitarsi a dire “la vita fa schifo e poi si muore”, e fermarsi lì suona vuoto – almeno per me.
Quel che resta fuori è che si può reagire, si può fare qualcosa prima di morire, e si può fare la differenza. Il singolo potrebbe persino fare la differenza semplicemente cercando di fare la differenza – il che è grandioso.
Se neghiamo tutto questo – se neghiamo all’individuo la possibilità di fare la differenza, di trovarci gusto e di farne trovare agli altri – perché disturbarsi a scrivere?

Già, perché?

Ecco, suppongo di essere una pessimista. Suppongo di avere maturato la convinzione che nessuno ottenga mai davvero quello che vuole. Che non vada a finire bene. Che ci sia sempre un prezzo dannatamente alto – e in genere diversissimo da quello che ci si aspettava – da pagare per qualsiasi cosa. Non è che i miei personaggi non si sforzino di fare la differenza. Ci provano come dannati, e ci trovano gusto – e il fatto che alla fine non funzioni non toglie nulla all’intensità dei loro sforzi. Anzi. Alcuni di loro sanno perfettamente di battersi per cause perdute, ma non per questo si siedono ad aspettare il compiersi del fato crudele. Quel che fanno conta in sé, nonostante le scarse probabilità di successo. E talvolta, per alcuni di loro, conta ancora di più proprio perché le possibilità di successo sono scarsine.

Quindi direi che mi disturbo a scrivere perché, pur essendo pessimista, sostengo fermamente che le scarse possibilità di successo non sono una ragione per smettere di reagire, fare qualcosa, fare la differenza, fare del proprio meglio – e trovarci gusto.

E – spero – farcene trovare ai lettori.

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Dopodiché, essendo gli scrittori quel che sono, questa faccenda è destinata ad avere uno sbocco teatrale, un’aggiunta a un play metashakespeariano (e, a voler vedere, anche metagautieriano) in cui si tratta di… be’, di lieto fine e di fine non così lieto…

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* Sì, con la maiuscola.

** Il che non è del tutto il mio caso. Ogni tanto scrivo anche qualcosa che finisce bene. Bibi, per esempio.

Finali – Un’Altra Voltaultima modifica: 2013-04-29T08:05:00+02:00da
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