Storia e/o Arte (e Tutto il Resto…)
Come molti, ho studiato Storia dell’Arte per tre anni quando ero al Liceo. Un paio d’ore la settimana, mi par di ricordare… E ricordo che, vista dal Ginnasio, l’idea mi piaceva proprio tanto – in una maniera che, me ne rendo conto adesso, era alquanto fumosa. Non sapevo di preciso che cosa aspettarmene ma, persino a quindici anni, non avevo dubbi sul fatto che una materia il cui nome comprendeva la parola “storia” dovesse essere interessante…
E invece magari qualche dubbio avrei fatto bene ad averlo.
Per tre anni, un paio d’ore alla settimana, quel che si sentiva spiegare, leggeva e studiava, erano infinite descrizioni di scultura dopo scultura, quadro dopo quadro – sempre con qualche enfasi sull’interpretazione sentimentale delle singole opere. Era carino, ma non era interessante.
Man mano che procedevamo notando espressioni dolcissime, gesti drammatici, panneggi morbidi, colori intensi and stuff, mi rendevo conto che le cose che avrei voluto sapere erano altre. Perché scolpivano, costruivano, dipingevano in quel modo? Quali erano le loro influenze – generali e personali? Chi erano i committenti? Perché volevano quel tipo di opere? Sulla base di quali esigenze? A che scopo? Che tecniche, che materiali si usavano? In che modo? Come si riflettevano sull’arte i grandi cambiamenti, le grandi scoperte, le guerre, i crolli degli imperi? Che rapporti c’erano fra arte, scienza, economia, società? Che posizione occupava l’artista? Come si formava? Da quali basi partiva ciascun grande innovatore? Da dove saltavano fuori le intuizioni, le ribellioni…?
E invece no, niente da fare. All’inizio di ogni capitolo c’era un paio di pagine di contesto storico che a nessuno passava per il capo di spiegare o approfondire granché, c’era qualche cenno biografico sull’uno o l’altro artista e poi si ricominciava opera per opera, con i panneggi morbidi, e i colori intensi and stuff. Come se l’arte fosse un grazioso accessorio, appuntato lì dov’è un po’ per caso e un po’ per vago senso del bello. Come se esistesse per conto proprio, eterea e incontaminata. E magari a quindici anni non lo sapevo con estrema chiarezza, ma l’idea mi sembrava abbastanza irritante.
Morale, per tre anni di Liceo non sono mai riuscita a farmi piacere sul serio la storia dell’arte, né ho mai fatto faville nelle interrogazioni. Di sicuro avrei potuto – avrei dovuto – studiare di più, imparare panneggi, espressioni e colori, e poi magari approfondire per conto mio. Invece ero una ragazzina piuttosto impossibile, seppure a modo mio. Non contestavo quasi mai, ma mostravo la mia disapprovazione e il mio disinteresse navigando sul sette e ostentando un’aria di generale sufficienza… Sì, ero insopportabile. A posteriori, mi rendo conto che non strangolarmi è stato un atto di notevole tolleranza da parte dell’insegnante d’arte.
Anyway, poi sono cresciuta, e ho cominciato a colmare le mie lacune per conto mio – e mi sono resa conto viepiù che la colpa non era in particolare del mio insegnante ma l’effetto di una mentalità didattica sciaguratamente diffusa, per cui la storia è la storia, l’arte è l’arte, la letteratura è la letteratura, e guai a sconfinare. È una mentalità pericolosa da acquisire: potrei citare l’amica che si giocò diversi punti discutendo una tesi che ignorava completamente le motivazioni politiche della politica culturale dei Gonzaga… ma, al di là delle ripercussioni strettamente accademiche, imparare a pensare in questo modo toglie un sacco di prospettiva, don’t you think?
E questo è vero per tutte le arti, per le scienze – in fact, per tutti i campi dell’umana attività. Da dove saltava fuori il pittore/filosofo/poeta/imprenditore/scienziato/riformatore/younameit? In che mondo viveva? Come ci viveva, pensava, imparava, esercitava la sua attività? Come ne viveva? In che modo questo ha influenzato la sua produzione? Arte, storia, economia, società, pensiero – non sono mai stati sfere separate: ha davvero senso studiarli come se lo fossero?