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Ott 28, 2010 - libri, libri e libri    7 Comments

Promessi Sposi, Capitolo XXII

FedericoBorromeo.jpgDue distinti lettori mi avevano detto che il Capitolo XXII è una noia mortale. Io non mi ricordavo molto del Capitolo XXII, se non che vi si parla del Cardinal Borromeo, ma due lettori adulti e competenti annoiati dovevano pur voler dire qualcosa…

Ebbene, i lettori avevano ragione: per la prima volta da quando ho cominciato la (ri)lettura dei Promessi Sposi con la UTE mi sono imbattuta in questa strana bestia, un capitolo noioso.

Tra l’altro, il capitolo è insidioso perché si presenta sotto falsi colori. Comincia bene, con una rapida scena in cui l’Innominato scende a valle, riluttante e ansioso, trepidante, incerto e stupito di sé, dando ordini incoerenti tra le occhiate stupite di servi, bravi e valligiani. Bene, pensiamo noi. Ci piace, questo Innominato e siamo interessati alla sua conversione…

Meglio non abituarci troppo. Tre pagine e Don Lisander frena bruscamente e parcheggia la narrazione in corsia d’emergenza. Mentre siamo fermi con le doppie frecce lampeggianti ci promette ristoro, ombra, acqua fresca. Noi siamo perplessi: andava tutto già molto bene, grazie. Non potremmo tornare ad occuparci dell’Innominato, per favore?

No, non potremmo.

Prima “bisogna assolutamente che spendiamo quattro parole” su questo straordinario personaggio, il Cardinal Federigo Borromeo. Siamo già allarmati. Chissà perché, quelle quattro parole suonano tanto come una spudorata menzogna, un’azione preventiva o qualche altro procedimento poco rassicurante. Quattro parole… “Chi non si curasse di sentirle, e avesse però voglia di andare avanti nella storia, salti addirittura al capitolo seguente”.

Ecco, questa invece suona come coda di paglia e noi siamo ancora più allarmati.

E infatti… Il Cardinal Federigo Borromeo, sapete, era nobile, pio, buono, umile, dotto, energico, caritatevole, caritatevole, caritatevole, generoso, savio, lungimirante, caritatevole, soave, severo con chi lo meritava, sobrio, autorevole, misericordioso, fondatore dell’Ambrosiana, caritatevole, zelante, virtuoso, eloquente, amante delle arti e lettere, caritatevole, semplicissimo nei costumi, giudizioso, benevolo, instancabile, caritatevole…

Confessate: a che punto vi è diventato vitreo lo sguardo? E questa è una versione liofilizzata. L’unico lieve sollievo consiste in quella che potrebbe sembrare un’ulteriore dose di coda di paglia – e invece con  Manzoni diventa uno dei consueti gioiellini di sottile ironia. Era perfetto dunque il CFB? No, non era perfetto. Sostenne in atti, parole e opere delle “opinioni opinioni che al giorno d’oggi a ognuno parrebbero piuttosto strane che mal fondate.” Tuttavia ci glissiamo sopra, perché in questo romanzo il CFB è dalla parte degli angeli e non vogliamo complicarci la vita. E allora, perché le abbiamo citate affatto, queste opinioni strane? Per non dar l’impressione di essere acritici.

Oh, e il CFB scrisse, scrisse molto, scrisse un centinaio d’opere. Nessuna di esse è di quelle che si ricordano? No, nessuna. E come mai? Oh, “per ragioni molte e prolisse” che non ci metteremo nemmeno ad affrontare.

Noi siamo lasciati a sospettare che le cento opere del CFB siano di una noia mortale, ma intanto “sarà meglio che riprendiamo il filo della storia, e che, in vece di cicalar più a lungo intorno a quest’uomo, andiamo a vederlo in azione…”

Tiriamo un sospiro di triplice sollievo, o Lettori: il capitolo è finito; possiamo ragionevolmente aspettarci che, una volta che l’Innominato sarà rientrato in scena, anche questo caritatevolissimo e virtuosissimo CFB ci sarà meno antipatico; e enfin, nemmeno Manzoni è perfetto per tutto il tempo.

Ott 25, 2010 - libri, libri e libri    Commenti disabilitati su Cronache Nogaresi

Cronache Nogaresi

Ecco, poi invece ci sono le presentazioni praticamente perfette (come Mary Poppins), in cui tutto va così bene da non crederci.

A cominciare dal relatore, che non solo ha letto il libro con vorace entusiasmo, ma è pieno di buone idee, intuizioni e domande stimolanti, discute una scaletta flessibile, nota l’onnipresenza del vento nell’imagery, fa le battute al momento giusto e non batte ciglio quando bisogna rinunciare al proiettore all’ultimo momento. Confesso di non avere mai preparato tanto approfonditamente una presentazione come con l’Ing. Bocchi – nemmeno la discussione della tesi di laurea!

Poi i lettori, con un contingente di Histriones a curare il reading di quattro tra le mie pagine preferite. Detto en passant, è stato bizzarro sentire l’interprete di Re Antioco, cimentarsi con la narrazione in prima persona di Annibale.

Poi ancora il pubblico, non numerosissimo ma motivato, attento e percettivo. Benché avessimo leggermente sforato sul tempo, nessuno è fuggito e ci sono state numerose domande – una più pertinente e interessante dell’altra.

Persino il tempo – pomeriggio e crepuscolo bigi e piovosi – sembrava fatto apposta per incoraggiare una raccolta atmosfera da libri e chiacchiere… mancava soltanto il fuoco nel camino. E infine una gradevolissima e allegra cena tra autori e organizzatori, a base del locale risotto con le noci, per poi tirare tardi chiacchierando di poeti crepuscolari e diffusione dei dialetti.

Insomma, questa volta nulla – ma proprio – nulla è andato storto. Il mio bilancio personale del Festival della Letteratura di Nogara è davvero ottimo: tanto entusiasmo, un’organizzazione attenta, disponibile e simpatica, un pubblico interessato e partecipe – che si potrebbe volere di più?

E al mio finesettimana dei sogni va aggiunto che il debutto di Bibi a Gonzaga è stato una meraviglia: tanta gente – genitori e bambini – ad applaudire uno spettacolo realizzato deliziosamente, con una regia asciutta, efficace e lieve al tempo stesso, e dei bravissimi interpreti. Essì, sono molto, molto, molto soddisfatta. C’è un che di speciale nel vedere i propri personaggi prendere vita sul palcoscenico. Non credo di avere finito con il teatro, if I’m to have any say in the matter.

Spero di avere presto delle foto di entrambe le giornate.

Ott 21, 2010 - libri, libri e libri    Commenti disabilitati su A’ Chacun Son Métier

A’ Chacun Son Métier

Qualche tempo fa me l’ero presa con Judith Cook e il suo romanzo The Slicing Edge of Death. Ricordate?

Adesso sento di dover riparare in parte a ciò che ho scritto allora. O meglio: sono ancora convinta che TSEoD sia un romanzo molto mediocre, ma sto leggendo un altro libro della Cook sullo stesso argomento, solo che questa volta si tratta di divulgazione storica, ed è tutto un altro mondo. The Roaring Boys è una specie di biografia collettiva di Shakespeare, Marlowe, Greene, Jonson, Kyd, Nashe, Dekker e compagnia. La Londra elisabettiana, i suoi protagonisti e la sua atmosfera sono ricostruiti con una vividezza, un’energia e un’efficacia favolose. Qua e là forse Cook sposa delle datazioni un po’ eccentriche, ma di sicuro la qualità della scrittura è stratosferica.

E allora? E allora, la signora Cook era un’ottima divulgatrice alla quale, nel quarto centenario della morte di Marlowe, un editore ha proposto: perché, Judy, non provi a scriverci un romanzo? Con la tua conoscenza del periodo e dei fatti, che ci vuole? E lei purtroppo ha accettato, senza considerare che ci voleva la tecnica del romanziere – che lei non possedeva. E non c’è nulla di male.

Oddìo, di male, se vogliamo, c’è questo: che se avessi letto TSEoD prima di ordinare TRB, non avrei sfiorato TRB nemmeno con l’orlo della veste, avrei archiviato Cook come una romanziera da dimenticare e non avrei mai scoperto l’eccellente divulgatrice.

Quello che voglio dire è che, per la maggior parte, gli scrittori non sono universalmente eclettici: hanno campi di preferenza, generi ideali e terreni che farebbero meglio ad evitare. Per quanto adori Kipling, temo che i romanzi lunghi non fossero la sua produzione migliore – e a maggior ragione trovo terribilmente ingiusto che sia conosciuto più per Kim e per i Libri della Jungla che per i suoi meravigliosi racconti e ancora più meravigliose poesie.

Tolstoj, al contrario, mi travolge nei romanzi e non mi convince affatto nei racconti: è come se la costrizione del formato ridotto non gli consentisse di spiegare per bene le ali. Non è del tutto sorprendente, se si considera che stiamo parlando dell’uomo che ha scritto Guerra e Pace – un mondo intero chiuso tra due copertine. Leggete un Padre Sergio, e ditemi se non ci sentite un certo qual senso di soffocamento.

Per Conrad la faccenda era diversa. Conrad ha scritto capolavori (per conto suo) e libri singolarmente brutti (spesso in collaborazione con Ford Madox Ford), ma una cosa è certa: con pochissime eccezioni, appena una storia d’amore occupava la scena Conrad cominciava ad inciampare. Se ne accorgeva anche lui, se lo diceva da solo: in una letttera descriveva l’amore come il suo uncongenial theme, un tema con cui si ritrovava. Provate a confrontare le vertiginose caratterizzazioni di Lord Jim o di Kurtz con l’improbabile melodramma di Vittoria o La Freccia d’Oro.

Marlowe, per parte sua, non aveva una gran mano nel caratterizzare i suoi personaggi femminili. Zenocrate, Olimpia, Zabina, Abigail e Bellamira, le regine francesi – sono tutte personaggi piatti, poco più che funzioni narrative senza troppa personalità. Isabella, regina d’Inghilterra nell’Edoardo II, comincia allo stesso modo e poi si trasforma (senza transizione!) in una completa arpia. Elena di Troia nel Doctor Faustus è una specie di comparsa. Niente da fare: i contrasti, i chiaroscuri violenti, la grandiosità, l’afflato poetico, la profondità, Marlowe li teneva tutti per i suoi protagonisti maschili.

Il che non toglie che questi signori fossero grandi, grandissimi scrittori – ciascuno con i suoi cavalli di battaglia, ciascuno con i suoi punti deboli. Tito Livio diceva (per bocca di Maarbale) che a nessuno gli dei hanno dato troppo. Probabilmente è vero – è solo che bisogna scrivere molto e in molte direzioni, prima di scoprire che cosa gli dei hanno dato e cosa no.

Vittorino Andreoli: il Pellegrino e il Lettore

pellegrino.jpgForse dovrei seguire qualche trasmissione o rubrica televisiva che parli di libri, ma confesso di non averlo mai fatto con qualche gradi di sistematicità. Per cui, quando la settimana scorsa mi è capitato d’intravedere parte de L’Appuntamento, la faccenda è stata casuale, tardiva e anche un pochino distratta – per la cronaca, stavo aiutando a sgranare melagrane per la gelatina.

Quindi non ho afferrato chi fossero gli ospiti che, sotto la direzione di Marzullo, parlavano di Un Pellegrino, romanzo (o forse no) di Vittorino Andreoli. Mi sono veramente distratta dalle melagrane solo quando, dopo un certo numero di interventi molto elogiativi, alcuni ospiti hanno cominciato a sollevare obiezioni formali al romanzo (o forse no), e le risposte di Andreoli si sono fatte vieppiù stizzite. Non ho avuto la prontezza di prendere appunti, e quindi riporto a memoria il sugo delle obiezioni e delle risposte – non le parole precise.

OBIEZIONE 1: BUR vende questo libro come narrativa, ma di fatto si tratta di saggistica.

ANDREOLI: Cosa vuole che importi a me, alla mia età, della distinzione tra saggistica e narrativa? Io scrivo una storia, poi l’editore fa quello che vuole! 

OBIEZIONE 2: Sa com’è, sulla copertina c’è scritto “romanzo”, ma questo non è un romanzo. Ci sono questi 6 dialoghi tra il Pellegrino e i personaggi incontrati lungo la strada – dialoghi interessantissimi, ricchi di spunti di riflessione, ma del tutto privi di struttura narrativa.

ANDREOLI: A me non importa la struttura narrativa. Ho raccontato una storia come volevo raccontarla e, come può vedere, ho trovato editori abbastanza coraggiosi da pubblicare una fusione di romanzo e saggio.

OBIEZIONE 3: Resta il fatto che la fusione non appare riuscita. La componente romanzo è deboluccia anzichenò, con la sua trama inesistente e i suoi personaggi del tutto privi di caratterizzazione. Ad eccezione del Pellegrino, abbiamo soltanto figure bidimensionali, tratteggiate tra il caricaturale e il goliardico…

ANDREOLI (acidissimo): Sono preoccupato per lei, se legge il mio romanzo in questo modo superficiale e quasi pervertito. Io ho scritto una storia con forti contenuti morali ed etici, e ho trovato interesse editoriale indipendentemente da quei critici che mi consigliavano di metterci un omicidio a pagina 35, perché è quello che ci si aspetta da Andreoli. A me non importa niente di quello che ci si aspetta, e non m’importa niente dei critici!

Hm. Non definirei la decisione di BUR un atto di coraggio, ma piuttosto un’operazione di marketing tesa a sdoganare un saggio atipico prodotto da un nome di richiamo. La IV di copertina non fa molto per chiarire, parlando di “Andreoli… narratore” e di “romanzo”, limitandosi a parlare di ricerca e di dialogo socratico soltanto nell’ultima frase. Niente di male, per carità – ma forse Andreoli non dovrebbe risentirsi se il lettore che cercava un romanzo si accorge che di romanzo non si tratta. Quello che m’indispone di più, tuttavia, sono tutte le cose di cui ad Andreoli non importa nulla: non solo i canoni della forma d’arte che pratica (troppo sporadicamente per potersene considerare un maestro), ma anche l’opinione dei critici, la politica degli editori, le aspettative e le reazioni dei lettori.

Parlando di politiche editoriali, bisogna dire che Andreoli potrebbe essere del tutto innocente della decisione di etichettare il Pellegrino come romanzo, e quindi stesse difendendo come poteva un forte non suo. Mi viene da domandarmi se fossero forti altrui anche le caratterizzazioni boccaccesche, magari inserite dietro insistenza di un editor per aggiungere “un po’ di pepe”? It happens, ma allora come la mettiamo con l’orgoglioso rifiuto dell’omicidio a pag. 35? Ma forse sono malvagia e invece è tutta farina del sacco dell’autore. E allora ancora più malvagio di me è Andreoli che, invece di difendere una scelta narrativa deliberata, dà del pervertito all’interlocutore che la discute.

Ma alla fin fine, il fastidio e il fare di sufficienza con cui Andreoli ha liquidato le obiezioni di natura tecnica mi hanno riportato molto in mente le stelle marine. Un Pellegrino è, ci vien fatto capire, quel genere di romanzo che si legge per il messaggio e nient’altro. Non c’è nulla di frivolo tra quelle copertine, nulla di così grossolanamente commerciale come una trama o dei personaggi, e fie upon us per esserceli aspettati.

Non sono sicura che mi sia venuta una voglia folle di leggere questo libro.

Festival della Letteratura di Nogara

Nogara.jpg

Piccoli Festival Crescono! Il Festival della Letteratura di Nogara (VR) è nuovo nuovo: parte quest’anno, pensato e organizzato dai giovani dell’associazione L.O.Gi.C.A. (Libera Associazione GIovanile per la Cultura e l’Arte), gente dall’entusiasmo contagioso e dalle idee chiare.

 

Domenica 24 ottobre, alle 17.30, nel Salone del Focolare del bellissimo Palazzo Maggi, ci sono anch’io, con Somnium Hannibalis e con un reading a cura di Hic Sunt Histriones.

Mi piace far parte di questa nuova avventura. Ad Maiora, Festival della Letteratura, e fra dieci, venti edizioni, potrò ricordare che io c’ero!

Qui, intanto, c’è il programma completo: programma.pdf

Libri Che Non Ci Sono I

Di Libri Che Non Ci Sono ne esistono parecchi tipi – uno tra tutti sono i libri fittizi citati in altri libri. Gli scrittori si divertono un mondo a fare queste cose: creare intere biblioteche inesistenti non per beffa o per divertimento, ma a scopi narrativi di vario genere.

Elizabeth Kostova e Rodney Bolt, per citarne un paio, hanno creato per i loro libri interi apparati bibliografici. O forse non proprio interi, perché parte delle fonti citate sono reali, cosicché quando leggerete di un Sisyphus di San Tommaso d’Aquino o de La Tortura Disposta dall’Imperatore per il Bene del Popolo di Anna Comnena, resterete abbastanza a lungo a domandarvi se questo sia vero… L’intento della Kostova era quello di creare questo genere d’incertezza nel lettore, mentre Bolt intendeva parodiare la prosa accademica e al tempo stesso scrivere un romanzo marloviano da non prendersi troppo sul serio.

Parlando di parodie, l’elenco dei libri dell’Abbazia di S.Vittore di Rabélais (padre del genere) e le letture del Tristram Shandy di Sterne satireggiano chiaramente l’erudizione delle rispettive epoche. Come altro considerare A Treatise on Midwifery del Dr. Slop o i Dramatic Sermons attribuiti a tale Parson Yorick? Ma non è soltanto il mondo accademico a fare da bersaglio a questo genere di strali – basta pensare a The Almshouse, che Trollope attribuisce a Mr. Popular Sentiment, acida caricatura di Dickens in The Warden.

Altri autori creano letterature, mitologie e manuali scientifici per dare profondità e spessore ai mondi che creano. E’ il caso di Tolkien e dei complicatissimi miti della Terra di Mezzo; è il caso della biblioteca di Tumnus ne Le Cronache di Narnia; è il caso dell’Encyclopedia Galactica citata da Aasimov nella serie della Fondazione; è e non è il caso con i libri citati nella Guida alla Galassia per Autostoppisti, i cui titoli sono decisamente più tongue-in-cheek  (Altre Cinquantatre Cose da Fare a Gravità Zero), ad eccezione di un’altra Encyclopedia Galactica, citazione aasimoviana.

Una variante di questo è costituita dal caso Dune, in cui si citano opere che in parte ricoprono lo stesso ruolo di metalegittimazione culturale nella finzione (orrore orror!), e in parte sono scritte da personaggi della storia. La Principessa Irulan sembra essere un’autrice particolarmente prolifica. Rientrano sotto questa categoria anche i libri scritti da Thursday Next e dal Gatto dell’ex-Cheshire secondo Jasper fforde. Qualcosa del genere – ma sottilmente diverso – fa A.S. Byatt in Possession: i libri, le poesie e le lettere di Ash e Christabel servono da due lati come espediente narrativo (narrano la vicenda ottocentesca e collegano i due piani temporali), e da un terzo lato stabiliscono entrambi i personaggi come intellettuali e poeti vittoriani – autori fittizi in un mondo reale, ciascuno provvisto del proprio corpus di opere.

Il che ci porta a un’altra funzione ancora dei libri fittizi: una carriera per il personaggio-scrittore. Evadne Oliver nei romanzi di Agatha Christie (e, sorridete pure, Mrs. Oliver ha scritto anche Assassinio sull’Orient Express); il Professor Humbert in Lolita, o Hodinski/Hodyna inel semi-ruritaniano Pale Fire; Stephen Maturin nei romanzi di O’Brian; e lo sapevate che sia Holmes che Watson erano autori pluripubblicati?

In altri casi il libro fittizio, più che con i suoi personaggi, ha a che fare con il libro reale, di cui diventa struttura e ragione narrativa. Ficciones, di Borges, è una raccolta di racconti, alcuni dei quali sono recensioni di libri inesistenti, mentre Inkheart, di Cornelia Funke, è incentrato completamente sull’eponimo romanzo fantasy di un autore italiano che non è Beppe Fenoglio. The Shape of Things to Come, di Orwell, finge di essere un libro di testo del 2106, con tanto di note, parte reali e parte fittizie. E qui mi ci metto anch’io, perché il mio Gl’Insorti di Strada Nuova è un metaromanzo di questo tipo, in cui ogni capitolo è costituito dalle reazioni di un lettore diverso alla lettura di un capitolo di un romanzo storico fittizio… lo so, ho una mente contorta – ma vedete bene che sono in buona compagnia.

 

 

La Bambinaia Francese

Bambinaia.jpgNel corso del finesettimana ho avuto modo di discutere di uno specifico tipo di anacronismo – il tipo che scatena in me violente reazioni allergiche, che considero il peccato mortale in materia e che permea completamente La Bambinaia Francese, di Bianca Pitzorno.

So di averne già parlato, ma abbiate pazienza mentre analizziamo la trama in dettaglio.

Si comincia nella Parigi degli Anni Trenta dell’Ottocento, con la piccola Sophie, figlia di operai che, nella loro illuminata sete di progresso, fanno studiare la figlioletta. Poi il destino malvagio si accanisce sulla famigliola, Sophie perde i genitori in rapida successione, deve lasciare la scuola e mettersi a lavorare e – colpo di fortuna! – si ritrova alle dipendenze di Madame Céline, danseuse celebre e madre di una bambina. Il padre, un gentiluomo inglese, ci viene subito presentato come un uomo duro d’animo, gretto, ottuso, pieno di pregiudizi e non particolarmente intelligente.

Madame Céline, al contrario, è un angelo privo di difetti che accoglie come altrettanti figli Sophie e Toussaint, il piccolo schiavo di colore regalatole dall’amante inglese. Entrambi i ragazzini studiano nell’eccentrica scuola del Cittadino Marchese, un nobile che persegue i più nobili (e più traditi) ideali della Rivoluzione inculcando Rousseau e Voltaire a un gruppetto di piccoli operai, borghesi e aristocratici.

Tutti vivono molto felici in questa arcadia – con l’occasionale batticuore di una visita dell’Inglese, cui bisogna far credere che le distinzioni sociali siano debitamente rispettate – fino al secondo disastro, che è in realtà una combinazione di disastri. Alla morte del Cittadino Marchese, i di lui avidi e malvagi nipoti accusano Céline di un reato che non ha commesso per poterle sottrarre la parte di eredità lasciatale dallo zio. La poveretta, imprigionata alla Salpétrière, perde anche la memoria. L’Inglese ricompare soltanto per portarsi via bambina e bambinaia, e Toussaint deve nascondersi per non essere venduto, visto che la sua lettera di affrancamento non si trova più.

Il romanzo diviene a questo punto epistolare, perché Sophie scrive a Toussaint dall’Inghilterra, raccontandogli le sue numerose infelicità: deve vivere in un cupo maniero di campagna, fingersi analfabeta, sopportare che la piccola Adèle venga trattata con un certo distacco, capire chi è la misteriosa signora rinchiusa in un’ala della casa, e guardare mentre quella cretina incapace di sentimenti dell’istitutrice inglese s’innamora del padrone…

Qualcosa comincia a suonarvi familiare? Dovrebbe, perché l’istitutrice inglese altri non è che Jane Eyre, e il bieco Monsieur Edouard è naturalmente Mr. Rochester, con la moglie pazza rinchiusa nella soffitta. Solo che nulla è come credevate voi e Jane, perbacco! D’altra parte, Jane è una sciocca accecata in pari misura dai suoi pregiudizi inglesi e dal suo “amore da serva”. Il vero volto di Rochester l’abbiamo già visto, e la moglie pazza – tenetevi forte – non è pazza affatto! Il suo unico difetto è quello di avere sempre sostenuto la libertà degli schiavi e di essere stata innamorata in gioventù di un mulatto. Rochester la tiene rinchiusa solo perché, con i suoi discorsi di uguaglianza e libertà, Bertha è socialmente imbarazzante.

Capito che cosa ci teneva nascosto Miss Bronte? Vatti a fidare!

Ma never fear, la virtù non può non trionfare, di qua e di là della Manica e degli Oceani. In Francia, Céline viene liberata, riabilitata e guarita; i nipoti del Cittadino Marchese pagano per le loro malefatte; Toussaint viene dichiarato uomo libero e parte per l’Inghilterra per recuperare Sophie e la bambina. Seguono i noti eventi – il matrimonio interrotto tra Jane e Rochester, la fuga di Jane e l’incendio… solo che non è Bertha a scatenarlo, così come non è lei a morire. Bertha fugge con i Nostri che, ricongiunti e traboccanti di felicità, s’imbarcano per il Nuovo Mondo. In un finale degno di Love Boat, Sophie decide che Toussaint avrà di certo una parte nel suo futuro, mentre l’ex pazza Bertha non vede l’ora di ricongiungersi con il suo mulatto, e persino Cèline trova l’amore, nella persona di un opportunissimamente ricomparso amico del defunto padre di Sophie, un tipografo povero e brutto – ma istruito, intelligente e debitamente liberale. Non avevamo mai più sentito parlare di lui dopo pagina quattro? Ci eravamo bellamente dimenticati di lui? E’ tutto molto improbabile e improvviso? Fa niente: l’importante è che tutti vivano felici, uguali e contenti mentre la nave scompare nell’orizzonte indorato dal tramonto.

E quella gallina di Jane? Dopo tutto ha quello che si merita, visto che se ne torna scodinzolando dall’accecato e rovinato – e pure bigamo – Rochester. Fine.

Capito l’andazzo? Sorvoliamo pure sulla trama approssimativa e sulle coincidenze improbabili – dopotutto è un libro per fanciulli, si potrebbe obiettare – ma non sorvoliamo sulla caratterizzazione sommaria, perché è parte di un discorso più ampio.

In questo libro ci sono i Buoni (Sophie, l’angelica Céline, Toussaint, il Cittadino Marchese, Olympe e sua nonna, Bertha, la piccola Adèle) e i Malvagi (Rochester, i nipoti del Cittadino Marchese e svariati personaggi di contorno). Miss Jane è in una specie di limbo, parte vittima consenziente di Rochester, parte ottusa perché inglese, di certo nulla a che vedere con la giovane donna coraggiosa e intelligente che conoscevamo dal suo libro.

In realtà, tutte le caratterizzazioni che conoscevamo dal libro sono stravolte – per nessun motivo migliore della simpatia della Pitzorno per la Francia, a quanto pare – ma non è questo il punto.

Il punto è che tutti i Malvagi, maggiori e minori, pensano, ragionano, sentono e agiscono come gente della prima metà del XIX Secolo, incarnano e mettono in pratica le convenzioni, le idee e la mentalità prevalenti del loro tempo – e proprio per questo sono descritti come malvagi.

I Buoni, per contro, hanno tutti sensibilità del XXI Secolo. Anche quando professano teorie volterriane (per dirla con il Sagrestano della Tosca) o declamano le idee di Victor Hugo, poi le applicano in maniera del tutto contemporanea – e questo, nell’intenzione della Pitzorno, fa di loro i Buoni.

Sophie non è una piccola parigina ottocentesca, è una ragazzina dei giorni nostri immersa in una realtà del XIX Secolo, di cui si risente amaramente. Il modo in cui lo staff di Thornfield Hall tratta la bambina francese è esattamente quello in cui sarebbe stata trattata una bambina all’epoca e nella situazione: con un certo distacco (cui va aggiunto un quid d’imbarazzo dovuto alla nascita irregolare di Adèle). Le smanie di Sophie in proposito sono una reazione dei nostri tempi. E l’idea di Bertha – brava, buona e generosa – rinchiusa perché parla di concedere la libertà agli schiavi sfiora il grottesco.

Ma Bianca Pitzorno non è una principiante: da anni scrive romanzi storici ben documentati, e quindi non commette errori di prospettiva. Piuttosto, distorce deliberatamente la prospettiva, il che a mio avviso è ancora più grave. 

Nel momento in cui caratterizza come malvagi tutti i personaggi che incarnano la mentalità del loro secolo, e dà a tutti i buoni una mentalità del tutto anacronistica, La Bambinaia Francese cessa di essere un romanzo storico e diventa, nella migliore delle ipotesi, un’apologia della nostra mentalità illuminata e politically correct, così superiore a quella ottocentesca. Nella peggiore (e più probabile) delle ipotesi, il libro verrà frainteso e i giovani lettori crederanno che nell’Ottocento gli aristrocratici cattivi (specie se inglesi) dividessero la società in categorie, mentre gli operai buoni e qualche nobile illuminato consideravano tutti gli uomini e le donne liberi e uguali.

In entrambi i casi, l’operazione intellettuale è dannosa.

Set 27, 2010 - libri, libri e libri    Commenti disabilitati su Luoghi Manzoniani

Luoghi Manzoniani

Itinerario_manzoniano.jpgTornata dai Luoghi Manzoniani. Sì, perché ottobre si avvicina, e la lettura dei Promessi Sposi riprende e, intanto, la UTE ha portato discenti e docenti in quel di Lecco a vedere di persona i luoghi dove si svolge il romanzo e, probabilmente, dove l’idea è nata in qualche forma molto embrionale.

La prima visita è stata a Villa Manzoni, in quello che un tempo era un villaggio chiamato il Caleotto (nel senso di “otto case in tutto”) e adesso è  parte di Lecco. Solida e squadrata villa nobiliare, ricostruita nell’Ottocento su un precedente edificio seicentesco, con qualche salone a grottesche, un bel giardino e bellissime cantine scure. Nel piano terra (l’unico visitabile) sono esposti la culla di Manzoni, un’acconciatura a raggiera come quella Villa_Manzoni.jpgdescritta nel romanzo, quadri, stampe e un certo numero di libri: varie edizioni dei PS, fonti del romanzo, altre opere dell’autore. La cosa più interessante, però, è che questo è il posto dove Manzoni è cresciuto, dove ha sviluppato il suo interesse per i libri e una predisposizione ad immaginare storie e personaggi… Non è difficile immaginarsi il piccolo Alessandro qui e cercare le radici del romanziere in qualche gioco solitario di make-believe nel giardino e nei cortili. Almeno finché non si esce dal portone e ci si ritrova davanti all’edificio moderno che sarà anche di Renzo Piano, ma è francamente brutto.

Dal Caleotto siamo passati a Pescarenico, a sua volta inglobato in Lecco. Nell’espandersi, però, la città ha inghiottito senza distruggerlo il borgo di pescatori in riva all’Adda, con i suoi vicolini medievali e la chiesa dei Cappuccini. Del convento di Fra Cristoforo non rimane granché (se non un salone dove signore del luogo vendono cioccolata, magliette e “noci di Fra Galdino”) ma la piazzetta che guarda sul fiume potrebbe ancora essere il posto dove il piccolo Menico è tentato di fermarsi a guardare i pescatori che ritirano le reti. Sulla riva del fiume c’è un masso che, ci dicono, indica il punto dell’attraversamento di Lucia e del conseguente Addio Monti. A poca distanza è persino ormeggiata una barchetta con i cerchi (batel nell’idioma locale), come quelle che si vedono nelle illustrazioni ottocentesche. Manco a dirlo, la barchetta si chiama Lucia.

In realtà, tutto qui si chiama Lucia, o Renzo e Lucia, o Promessi Sposi, o Fra Cristoforo o con qualche nome connesso al romanzo: vie, piazze, alberghi, ristoranti, sale pubbliche, barche… un vago senso di monomania assale il viaggiatore.

innominato.jpgTappa successiva, Somasca. Dalla chiesa dei Padri Somaschi, nonché santuario del loro fondatore San Gerolamo Emiliani, si sale al rudere di un castello che non è il Castello dell’Innominato. O meglio: lo è nel romanzo, anche se non è davvero il castello di Bernardino Visconti, l’originale storico dell’Innominato. Tuttavia, arroccato com’è su uno sperone di roccia, con vista su valli e strapiombi, raggiungibile solo per un sentierolino boschivo e una stradetta scavata nella roccia stessa, è perfetto per essere il nido d’aquila di un signorotto sanguinario, orgoglioso e diffidente. Pare che il giovanissimo Manzoni salisse qui su quando veniva a visitare il santuario, e il posto è perfetto per infiammare la fantasia di un ragazzino. Un po’ meno perfetto, se vogliamo, per trascinarci una comitiva proveniente da un’Università della III Età – ciò che ha provocato una dura selezione naturale e una quantità di battute durante l’ascensione e la discesa.

Sotto il castello, visibile da lassù come descritto nel romanzo, c’è il borgo di Chiuso, dove l’Innominato si converte alla presenza del Cardinal Borromeo.

Poi  ci sono un paio di presunte case di Lucia, la chiesa di Don Abbondio, la cappella dell’incontro con i Bravi e il Palazzotto di Don Rodrigo – ricostruito in anni recenti e snaturato alquanto – ora sede del CONI di Lecco, se ho ben capito.

Sullo sfondo il lago, il fiume e le montagne, primo tra tutte il Resegone con i suoi tredici cocuzzoli, e quel cielo di Lombardia che è così bello quando è bello.

I posti sono gradevoli e la presenza del romanzo e del suo autore aleggiano sui luoghi. Ho detto che il castello non è quello dell’Innominato, ma non è vero: non è quello di Bernardino Visconti, ma si tratta di un dettaglio. E’ il posto in cui Manzoni ha immaginato e piazzato il suo Innominato, e lo stesso vale per il Palazzotto, per le case, e per tutto il paesaggio del romanzo, che è bello sovrapporre mentalmente al paesaggio reale, trascendendo i kilometri e i secoli.

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Malinconica nota di chiusura: mentre cercavo un’illustrazione per questo post, mi sono imbattuta in un diluvio di richieste da parte di studenti che chiedono disperatamente soccorso per reperire una descrizione del Palazzotto di Don Rodrigo e/o del Castello dell’Innominato. E’ mai possibile che non venga lor il dubbio che le descrizioni in questione si trovino nel libro? O dare anche solo un’occhiatina al capitolo relativo è troppo per le loro menti implumi? Sospirone.

Set 17, 2010 - libri, libri e libri    2 Comments

La Forza dell’Incompiuto

Credo che fosse Paul Taylor, il coreografo, a dire che non esistono opere incompiute, solo lavori in corso.

Sarà, ma quando l’autore è defunto e il libro non è finito, è un pochino difficile continuare a considerarlo work in progress… Poche cose sono frustranti come un romanzo che s’interrompe senza che la storia sia terminata, con la certezza che nessuno la terminerà mai più. Oddìo, qualche volta qualcuno la termina, ma chi ha mai letto Il Silmarillion completato da Guy Gavriel Kay senza domandarsi come lo avrebbe davvero voluto Tolkien?

La stessa cosa vale per Hero and Leander di Marlowe: checché ne dicano legioni di cospirazionisti, dubito che Kit si aspettasse davvero di morire a Deptford, lasciando incompiuto il suo luminoso e stravagante* poema narrativo. George Chapman lo terminò, ma Chapman era un poeta d’altra lega e tutt’altro genere di personaggio, un uomo di mezza età oppresso dai debiti e dalle cause, disperatamente ansioso di patrocinio e con un talento disastroso nello scegliersi mecenati destinati al disastro politico o a una morte prematura… Sono seriamente tentata di pensare che, nonostante Museo e Ovidio fossero le fonti di entrambi, il risultato sarebbe stato molto diverso senza la fatale coltellata.

Molto più frustrante è Il Mistero di Edwin Drood, l’ultimo e incompiuto romanzo di Dickens, che è anche un giallo – o quanto meno il protagonista eponimo sparisce (presumibilmente assassinato) e non c’è il minimo indizio di come dovesse risolversi la vicenda. Invecchiando, Dickens aveva cominciato a progettare i suoi romanzi con più cura, annotandosi gli sviluppi effettivi o possibili con vari capitoli di anticipo, ma non nel caso di Edwin Drood, accipicchia! Vero è che John Jasper promette male assai e sembra un candidato perfetto al ruolo di assassino, ma con Dickens non si poteva mai dire per certo, e chi lo sa? La cosa buffa è che dal mezzo libro è stato tratto un musical nel quale, a un certo punto, si fa votare il pubblico in sala per scegliere il finale. Anche quello è un modo, immagino.

Conrad, per fortuna, non lasciò incompiuto nulla di particolarmente memorabile: The Sisters riprende l’eroina del (bruttino) The Arrow of Gold, e benché Stephen sia un protagonista promettente, non si ha la sensazione di essersi persi un capolavoro. Non sapere come finisce Suspense forse è un po’ peggio, ma potrebbe essere una mia impressione, perché ho un debole per le storie ambientate in epoca napoleonica. Ad ogni modo sono frustrazioni puramente narrative, perché i capolavori erano già saldamente terminati da anni.

Lo stesso si potrebbe dire di Jane Austen, ma non nego che mi sarebbe piaciuto leggere fino in fondo Sanditon e, soprattutto, The Watsons. L’edizione critica che ho letto avanzava due tipi di dubbio sul secondo: forse la zia Jane aveva l’impressione di ripercorrere terreno già coperto in Orgoglio e Pregiudizio, o forse si era stancata della genteel poverty delle sorelle Watson, la cui posizione sociale sembra abbastanza simile a quella di una Jane Fairfax in Emma… Sia come sia, è un peccato. Meno gravi sono i numerosi lavori giovanili lasciati a mezzo – esercizi di stile ed esplorazione di temi che poi torneranno nei romanzi. Semmai, mi spiace di non sapere come finisce The Three Sisters, delizioso abbozzo di romanzo epistolare. Confesso di averne iniziato, qualche anno fa, una riduzione teatrale. Magari un giorno la finirò, non fosse altro che per portare a una conclusione la vicenda di Mary, Sophy e Georgiana.

Stendhal è tutta un’altra questione. Lucien Leuwen avrebbe potuto essere un altro Le Rouge et le Noir. C’è di nuovo la provincia francese descritta in chirurgico dettaglio, c’è un protagonista più ingenuo di Julien e più ragionatore di Fabrice, c’è un’innamorata di famiglia ultra-realista – il che promette guai a venire… Dover lasciare tutto a metà è veramente un’enorme delusione.

Stevenson di incompiuti ne ha lasciati due: The Weir of Herminston e St. Ives – quest’ultimo terminato da un altro romanziere, e siamo sempre al dubbio di cui si diceva: la storia è finita, grazie, ma è come l’avrebbe finita Stevenson? Una di quelle cose che non sapremo mai, nel bene e nel male. Il rovello resta, ma resta anche spazio per la speculazione. Si può leggere tutto Stevenson e farsi la propria idea su come sarebbe dovuta finire la vicenda di Jacques. E già che si è lì, ci si può domandare anche perché mai in ciò che resta di The Weir, debbano esserci due differenti personaggi chiamati Christina.

Perché bisogna anche considerare questo: se un romanzo sussiste incompleto, di sicuro non è come il suo autore avrebbe voluto presentarlo ai lettori. Non solo ne manca un pezzo, ma è anche una prima stesura, materia grezza che avrebbe richiesto ancora molto lavoro e – in tutta probabilità – anche cambiamenti sostanziali. Forse non è nemmeno del tutto giusto pubblicarlo… non è difficile immaginare Stevenson che si rivolta nella tomba all’idea del suo abbozzo incompiuto, della sua prosa non rifinita, delle sue due Christine, del suo Archie ancora approssimativo esposti alla lettura per cui non erano pronti.

In considerazione di questo, e di quanto mi irriti una storia lasciata a metà, ogni volta mi ripropongo di non leggere più incompiuti. E ogni volta cedo e leggo lo stesso, pur sapendo che detesterò arrivare al punto in cui lo scrittore si è fermato per cause di forza maggiore o per noia. In parte è il desiderio di vedere lo stadio intermedio, dare un’occhiata al dietro le quinte, cogliere un ombra del metodo creativo che sta dietro i romanzi finiti; in parte è qualcosa d’altro.

Una volta, a Edimburgo, ho visto una scultura che consisteva in tre punte che sembravano doversi toccare e non arrivavano a farlo. Non ricordo l’autore e nemmeno il titolo, ma ricordo di essere rimasta a lungo a fissare le tre punte, affascinata dal movimento incompiuto, dal contatto sfiorato ma non raggiunto. Quel non-finito sembrava pieno di forza e di possibilità. La stessa forza e la stessa abbondanza di possibilità, credo, che continuo a cercare – against my better judgement – in ogni romanzo incompiuto che prendo in mano.

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* Basti per tutto il resto la descrizione del velo di Hero, ricamato a fiori talmente realistici che la fanciulla passa il suo tempo a cacciare via le api…

 

Il Dilemma del Recensore

HNR_Header_Aug_21.jpgLe mie recensioni cominciano a uscire sulla Historical Novel Review – due negli ultimi due numeri.

Che posso dire? Scrivere per una rivista specializzata internazionale e quotata nell’ambiente è una gradevole sensazione di per sé, ma devo confessare che oggi, nel rileggere quanto sono stata severa in uno dei due casi, mi è venuta la tentazione di iperventilare un pochino. Sia ben chiaro: il romanzo in questione era davvero mediocre, scritto in modo molto approssimativo, pieno di personaggi mal caratterizzati ed errori fattuali grossi come stazioni ferroviarie (similitudine non casuale, visto che, tra l’altro, l’eroina viaggiava da Parigi a Roma su un treno diretto che passava per Napoli!), e tuttavia…

Tuttavia, un conto era leggere storcendo il naso, un conto era scrivere le mie 200 parole taglienti in preda allo zelo della novellina, e tutt’altro conto è stato vedere la mia disapprovazione stampata sulle pagine di una rivista vastamente diffusa tra lettori, autori, editor, ed editori di almeno tre continenti. Francamente, se avessi ricevuto una recensione come quella che ho scritto, al momento sarei molto in vena di harakiri.

E però sono certa che la recensione è puntuale e obbiettiva, e il libro la merita ampiamente. La mia responsabilità è di fronte alla rivista per cui lavoro, ovviamente, e verso i suoi lettori che si aspettano recensioni oneste, sulla base delle quali – almeno in parte – comprare o non comprare il libro in questione. Si può discutere del potere delle recensioni finché si vuole, ma devo ammettere che, quando ho comprato qualche libro nonostante una recensione modesta su HNR, magari perché i personaggi, il periodo o la trama mi attraevano, me ne sono sempre pentita. Per cui, sì: il pubblico si aspetta che chi scrive per HNR legga i libri per intero e sia in grado di valutarne oggettivamente pregi e difetti e di motivare i suoi giudizi; il pubblico tiene conto delle recensioni di HNR nei suoi acquisti.

La mia recensione negativa potrà avere qualche influenza sulle vendite del romanzo – e anche questa è una responsabilità. Una responsabilità diversa, nei confronti di questo specifico autore e del suo editore, così come nei confronti di tutti gli autori ed editori che spediscono i loro romanzi a HNR. In fondo, a loro devo una cosa soltanto: che del loro libro scriverò sempre e solo ciò che penso, nel bene e nel male, senza pregiudizi e al meglio delle mie capacità.