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Guglielmo Crollalanza, ovvero Shakespeare In Italiano

Essendomi in un periodo particolarmente elisabettiano (come forse avrete notato), mi è venuto l’uzzolo di vedere un po’ che genere di risorse scespiriane in italiano si trovino in rete.

La risposta è desolante: pochine assai.

Wiki ha, devo ammettere, una discreta pagina, con rimandi a vari altri articoli, biografia, analisi delle opere, un accenno alle questioni irrisolte  e alle teorie fantasiose, tavole cronologiche, un certo numero d’immagini e una passabile bibliografia. Non male, tutto sommato.

Il Progetto Manuzio/LiberLiber ha una rapida biografia e una quarantina di titoli tradotti, un paio dei quali anche in formato audio. Curiosamente, c’è anche I Due Nobili Cugini, di attribuzione dubbia e comunque, nella migliore delle ipotesi, scritta in collaborazione con John Fletcher (la metà superstite del disciolto duo Fletcher&Beaumont).

ShakespeareWeb contiene note biografiche, analisi delle opere e, cosa interessante, tutti i Sonetti tradotti, con testo originale a fronte. Anche qui si parla dei Cugini.

Questo, invece, è un sito bizzarro e miscellaneo, che mi colpisce principalmente per la sua concezione un po’ nonsense: trame, riassunti, citazioni e aforismi, immagini, sonetti, analisi, film un po’ di contesto storico, un rapido excursus sul teatro elisabettiano… il tutto accatastato lì, senza troppo ordine né logica. Qui c’è la relativa filmografia che, pur non essendo completissimissima, ha il grosso merito di fare riferimento a delizie collaterali come l’incantevole Vogliamo Vivere (To Be Or Not To Be) di Ernst Lubitsch.

Qui c’è la (premiata) pagina Wiki sul teatro elisabettiano.

Ecco, non sono certa di avere fatto la più esauriente delle ricerche possibili ma, a parte questo, the rest is silence – o poco meglio. Il materiale scespiriano più diffuso in rete sembra essere costituito da quella cosa deprimente – gli appunti pronti sui siti per studenti, più un certo numero di articoli isolati e qualche sporadica stramberia come questa. Ricordate quando si parlava delle teorie bislacche sull’identità di Shakespeare e la paternità delle sue opere? A quanto pare anche noi ne abbiamo la nostra fettina.

Il che mi porta a ricordare – e segnalare – due romanzi, uno italiano e l’altro tradotto, in cui si parla di Shakespeare. Il Manoscritto di Shakespeare, di Domenico Seminerio (Sellerio) specula su una delle teorie bislacche. So di avere parlato in termini non benevolissimi del modo in cui l’autore descrive la stesura di un romanzo storico ma, tolto quello specifico aspetto, la lettura è tutt’altro che spiacevole, senza contare che un po’ di metaletteratura non fa mai male. Il Viaggio di Shakespeare, di Léon Daudet, è un romanzo storico splendidamente scritto e tradotto – una gioia da leggere.

Qualcuno ha altro da segnalare?

Birra in Bottiglia

dewitt500.gifA Dagger For Two, di Philip Lindsay, è il mio Libro Da Borsetta in carica. Essendo un paperback piccolino e vecchiotto* si presta a stare nelle borsette, in modo da essere a portata di mano per code, attese e ritardi imprevisti. D’altra parte, essendo un libro piacevole ma non la lettura della mia vita, non importa poi troppo se lo leggo a bocconi e spizzichi nel corso di parecchi mesi – che è quello che sta succedendo: sono certa di avere cominciato ADF2 l’autunno scorso…

Ad ogni modo, l’ultimo spizzico di lettura conteneva una scena di folla festante che, nel Rose theatre, attende rumorosamente l’inizio della rappresentazione. Siamo nel 1593, e la traduzione è mia:

… Chiacchiericcio, grida di amici che si cercavano da un capo all’altro del cortile, liti per i dadi e le carte, uno schiacciare di gusci di noce, un masticar di mele, un succhiare di arance, gli schiocchi sibilanti delle bottiglie di birra aperte, i richiami dei venditori ambulanti…

Bottiglie di birra? Bottiglie di birra che si aprono con uno schiocco sibilante nel 1593? All’improvviso l’immagine di un ragazzotto in jeans che apriva una bottiglia di Guinness con l’accendino mi ha scompigliato la scena tardo-cinquecentesca. Ugh, l’anacronismo! ho pensato, arricciando un labbro, e quando ho ripreso la lettura avevo una diversa considerazione del signor Lindsay e della sua storia.

Una volta a casa, però, colta dal dubbio, ho fatto qualche ricerchina, e ho scoperto questa storia: negli Anni Sessanta del Cinquecento, un vicario dello Hertfordshire sarebbe andato a pescare portandosi dietro della birra in una bottiglia di vetro tappata col sughero, e poi l’avrebbe dimenticata sulla riva del fiume. Tornò a riprendersela l’indomani (più per la bottiglia che per la birra, perché il vetro era costoso) e, quando volle aprirla, il tappo esplose via “con rumore di pistola, e non di bottiglia”. Il vicario aveva appena scoperto che la birra sottovetro ri-fermentava. Pittoresco, ma probabilmente non vero. Pare invece che, nella seconda metà del Cinquecento, i birrai inglesi sperimentassero con le bottiglie veneziane, ma probabilmente più per la fermentazione che per l’imbottigliamento di per sé, che non diventò pratica commerciale fino alla seconda metà del Seicento. In compenso, molta della birra che si consumava veniva prodotta in casa, e un libro di consigli domestici del 1615 si spiega alle brave massaie quali precauzioni prendere per conservare la birra nelle bottiglie.

Insomma, è tecnicamente possibile che, nel 1593, qualcuno se ne andasse a teatro con una bottiglia di birra in tasca e la aprisse con tanto di schiocco sibilante, o che le bottiglie si vendessero nel teatro stesso insieme alle arance**, alle mele, alle noci, ma di sicuro il particolare non giova alla credibilità della scena Lindsay parla addirittura di venditori di “birra fresca”, il che doveva significare che qualche locanda di Southwark (il distretto in cui sorgevano molti teatri, compreso il Rose) teneva in fresco una certa quantità di birra imbottigliata, da vendere in loco… Non so, davvero non so, ma in qualche modo mi sembra improbabile – e di sicuro fa sobbalzare il lettore.

Se Lindsay si è lasciato trascinare dall’entusiasmo, allora abbiamo un anacronismo vero e proprio; ma se invece ha pescato il particolare in qualche fonte contemporanea, abbiamo invece un animale di classificazione più difficile, un particolare legittimo ma oscuro&strambo che sembra un anacronismo e, alas, funziona come se lo fosse: una specie di nocebo storico-narrativo***.

Che fare in questi casi – se si è tanto fortunati da accorgersene? Se il particolare è davvero irrinunciabile, bisogna trovare il modo più sottile possibile per spiegare che ha tutti i diritti di trovarsi dov’è. Ma se non c’è modo di spiegare con sottigliezza è meglio rinunciare alla birra in bottiglia, perché non so che cosa sia più irritante: un anacronismo (vero o presunto) o una lezione di storia della birra incuneata a forza in una scena di romanzo.

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* Comprato a Londra, su una bancarella di libri usati, per qualcosa come 50 pence.

** C’entra fino a un certo punto, ma viene in mente Nell Gwynne, l’amante di Carlo II, che aveva cominciato la sua carriera teatrale come orange-girl, ovvero venditrice di arance in un teatro.

*** Come la mente diabolica di Annibale.

Facciamo Che…

Forse è il più diffuso, il più universale e il più amato tra i giochi infantili, quello che porta in mondi più lontani, quello che conosce le varianti più disparate e personali: facciamo che io ero Questo, e tu eri Quello, e il salotto era un castello… Giocare a fingere. Con o senza bambole, soldatini o animali di pezza, ricreando le avventure di una storia sentita raccontare o inventando di sana pianta, riproducendo la maternità, il lavoro, la guerra, i rapporti sociali – sempre in qualche specie di equilibrio tra prove tecniche di mondo e il what if più sfrenato.

Chi non ha mai – ma proprio mai – giocato a fingere che… alzi la mano e non si aspetti di essere creduto.

In definitiva, i rapporti tra questo gioco e la letteratura sono stretti: una storia raccontata partendo da un’ipotesi iniziale, la sospensione dell’incredulità, e tutte le possibilità aperte entro le regole del gioco. Narrativa embrionale, e il legame è ancora più evidente nell’espressione inglese make-believe che, a differenza del corrispondente italiano “fare finta” non è associata a connotazioni di menzogna e d’inganno, ma pone l’accento sulla sospensione dell’incredulità da parte del soggetto.

Quindi non è sorprendente che in letteratura si trovino esempi di make-believe, tanto narrati quanto praticati da narratori più o meno in erba- semmai c’è da stupirsi che non ce ne siano di più.

Nella letteratura per fanciulli, il MB è moneta corrente, con vari tipi di significato. Louisa Alcott ne fa un uso frequente e diversificato. In Piccole Donne, le quattro sorelle March riproducono una versione semplificata del viaggio di Christian, il protagonista del Libro del Pellegrino di Bunyan, partendo dalla cantina (Città della Distruzione) e salendo fino alla soffitta ribattezzata Paradiso. Il gioco è chiaramente educativo, e non è chiaro se sia stato ispirato dal padre ecclesiastico o semplicemente ideato dalla vulcanica Jo, ma la scena in cui viene rievocato serve a caratterizzare tanto le quattro ragazze quanto il tipo di educazione che hanno ricevuto. Sotto i Fiori di Lillà, comincia con una lunga scena di MB, la festa di compleanno della bambola in cui due sorelline ricreano i riti di un piccolo mondo sicuro e bene ordinato. L’arrivo del piccolo protagonista – un orfanello fuggito da un circo – scombinerà gioco, realtà e senso di sicurezza. Il racconto Dietro la Maschera presenta una versione più adulta e più inquietante del gioco: in una grande casa di campagna inglese, un gruppo di giovani gioca ai quadri animati con dei vecchi costumi teatrali. Apparentemente l’istitutrice scozzese si lascia coinvolgere un po’ troppo nella finzione con il bel fratello della sua allieva, qualcuno crede al gioco, qualcuno recita, qualcun altro finge – ma non tutto è come sembra.

Più spesso, tuttavia, il MB appare in vesti meno sofisticate. E’ il caso di Momo, di Michael Ende, i cui piccoli protagonisti si lanciano in un’epica avventura immaginaria, fingendo che un vecchi anfiteatro abbandonato sia una nave oceanografica. L’episodio non ha un ruolo narrativo particolare (a parte forse stabilire le posizioni di vari ragazzini all’interno del gruppo), ma la scrittura rende bene l’entusiasmante straniamento di quei prodigiosi pomeriggi che durano un lampo e un secolo insieme. 

Un esempio particolarmente significativo si trova in Puck of Pook’s Hill, di Kipling: nel crepuscolo della sera di Mezz’Estate, Una e Dan recitano una versione adattata di Shakespeare, e la recitano all’aperto, in un cerchio delle fate. Non è chiaro se stiano giocando al teatro o ad essere i personaggi, ma di certo, in un modo che accomuna significativamente gioco, letteratura e incantesimo, Puck in persona obbedisce alla convocazione e compare ai due ignari bambini.

Ho un ricordo molto vago di un libro per ragazzi degli Anni Ottanta – di cui mi sfuggono titolo e autore sicuramente italiano. La storia non era particolarmente memorabile, ma conteneva una scena interessante: entrando di nascosto nel giardino di una casa abbandonata per recuperare un pallone, due ragazzini sorprendevano due coetanee che, con gonne lunghe e bigiotterie sottratte alla mamma, giocavano “a regina e principessa”. “Ma che cosa fanno?” chiedeva uno dei due sbalordito. “Giocano a recitare,” era la risposta. “Le bambine lo fanno spesso.”* Il che sembrava voler implicare una distinzione dei ruoli: calcio per i bambini, make-believe per le bambine. Nell’ultimo capitolo, a mistero risolto, le bambine dichiaravano di avere perso interesse nel giocare “a regina e principessa”, ma non pare che la maturazione di un ragazzino implicasse parimenti il superamento del calcio.

Nella maggior parte dei casi, il MB è associato all’infanzia, ma l’associazione non è sempre particolarmente lieta. Per citare due esempi che più diversi non potrebbero essere, gli eroici sogni ad occhi aperti del futuro Lord Jim (e sostengo con fermezza che, per un bambino solitario, i sogni ad occhi aperti valgono come MB) si riveleranno profezie ironicamente crudeli, e Peter Pan, un ininterrotto, particolarmente magico MB per i fratelli Darling e i Bambini Smarriti, è una storia di irrecuperabilità e di perdita dell’innocenza.**

Quando poi all’aspetto deliberatamente ludico si sostituisce l’imitazione del mondo adulto, la faccenda può assumere colori più sinistri. I Ragazzi della Via Pal di Molnàr e i personaggi de La Guerra dei Bottoni di Pergaud “giocano” alla guerra in modo molto realistico, con tanto di feriti veri e addirittura un morto, in una delle scene più lacrimevoli della storia della letteratura. De Il Signore delle Mosche di Golding non cominciamo nemmeno a parlare, volete? Nei Promessi Sposi, che per fanciulli non sono, alla piccola Gertrude non vengono mai date altro che bambole vestite da monaca, giusto perché non si faccia idee balzane. In Jane Eyre, la piccola (e a dire il vero insopportabile) Adèle viene energicamente scoraggiata dal danzare, perché la madre assente, francese, ballerina e poco seria***, è tutto fuorché un modello da imitare.

Questo MB in chiave negativa sembra una scelta bizzarra da parte di Charlotte Bronte, considerando il ruolo che il MB aveva avuto nella sua formazione personale e letteraria (e che ancora aveva nella vita delle sue sorelle). La profonda e duratura passione dei quattro ragazzi Bronte per i loro regni immaginari e le loro generazioni di personaggi si spingeva al limite dell’ossessione, e nei diari di una Emily ventisettenne si trova questo episodio :

Anne e io abbiamo fatto il nostro primo lungo viaggio da sole e insieme. Siamo partite da casa lunedì 30 giugno, abbiamo dormito a York, siamo arrivate a Keighley Martedì sera, abbiamo dormito lì e siamo tornate a casa a piedi mercoledì mattina. Il tempo era incerto, ma ci siamo divertite moltissimo – tranne per qualche ora a Bradford – e durante il viaggio abbiamo giocato ad essere Ronald Macelgin, Henry Angora, Juliet Augusteena, Rosobelle Esraldan, Ella e Julian Egramont e Catherine Navarre e Cordelia Fitzaphnold. Fingevamo di essere fuggite dal Palazzo dell’Istruzione per raggiungere i Realisti, al momento in rotta davanti ai Repubblicani vittoriosi. (traduzione mia)

Ed ecco che ritorniamo al punto di partenza: make-believe e letteratura. Tutta la produzione poetica di Emily Bronte è basata sul regno immaginario di Gondal che aveva creato insieme ad Anne, e la trama di Cime Tempestose è di derivazione altrettanto gondaliana. Il legame è meno forte nei romanzi di Anne, ma la Jane Eyre ha la sua origine in diverse eroine di Angria, bruttine e indipendenti. Se dico che quei giochi, quei sogni ad occhi aperti e quelle irrealtà condivise hanno fatto delle sorelle Bronte le autrici che sono diventate, non credo di esagerare molto. Se il make-believe è narrativa embrionale, la narrativa si può considerare make-believe adulto – e il viaggio a York di Emily e Anne ci dimostra che fra la distanza tra i due è molto ridotta.

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* Insisto nel dire che non era memorabile. Se ricordo questo passaggio così dettagliatamente è perché – no doubt – il mio subconscio sapeva fin d’allora che un giorno avrei tenuto un blog letterario…

** Se poi si accetta l’ipotesi secondo cui Peter Pan sarebbe basato sul fratello maggiore di Barrie, morto a tredici anni, e che la madre orbata si consolava dicendosi che il suo bambino morto sarebbe rimasto bambino per sempre, il tutto diventa ancora più allegro.

*** In un qualsiasi ordine di gravità.

 

 

 

Per Cause Di Forza Maggiore

Spoilers Ahead: finali rivelati e cose del genere. Lettore avvertito – con quel che segue.

Mercutio'sDeath.jpgChi è il vostro personaggio preferito in Romeo e Giulietta? Se, come la Clarina, avete un debole per Mercuzio, sappiate che siamo in buona e numerosa compagnia. Il poeta John Dryden scrisse nel 1672: “Shakespeare aveva profuso tutta la sua abilità nel creare il suo Mercuzio, e diceva che, al terzo atto, era questione di ucciderlo o esserne ucciso.” Non abbiamo idea di quanto sia plausibile o spuria l’affermazione riportata, ma stando a Dryden, Mercuzio aveva un tantino preso la mano al suo autore, che lo aveva eliminato per l’equilibrio della tragedia e il bene di Romeo. Siamo sinceri: Romeo sospira, Romeo lamenta, Romeo mormora teneri nonnulla alla ragazzina del suo cuore, e appare generalmente stupido ogni volta che il suo amico è nei paraggi. Mercuzio fa battute ciniche, capisce la politica di Verona, duella verbalmente e alla spada, discetta di linguistica e di fate. E quando le cose si mettono male, Romeo non trova di meglio che mettersi di mezzo, dando a Tebaldo il destro di ferire a morte Mercuzio. Oh certo, la morte di Mercuzio è un punto cardine, segna la promozione di R&G da commedia a tragedia, e scuote Romeo dalla sua estasi amorosa, mostrandogli come funziona il rapporto di causa ed effetto e spingendolo a uccidere Tebaldo – per cui copre una serie di valide ed oggettive funzioni narrative. E però… Bisogna considerare che Mercuzio è largamente una creazione di Shakespeare: nelle fonti è poco più che un nome, e non ha nulla a che fare con Tebaldo, che riesce benissimo a farsi spacciare da solo. Shakespeare lo prende e gli dà una personalità ben definita e attraente – forse persino più attraente di quella del coprotagonista eponimo. Perché Romeo, pur scritto con tutta la finezza, è creato come un Primo Amoroso da commedia italiana, standard fare, mentre Mercuzio, volatile, attaccabrighe, sognatore, irriverente e filatore di parole, è un perfetto poeta elisabettiano. Diciamo, addirittura, il tipo di poeta elisabettiano che Shakespeare avrebbe tanto voluto essere? Salvo poi assassinarlo al terz’atto. Ora, se Dryden ha torto o troppa fantasia, va bene lo stesso: quando Mercuzio muore, tutti siamo abbastanza affascinati da/affezionati a lui per simpatizzare con l’ira funesta e vindice di Romeo. Ma se Dryden ha ragione, allora Shakespeare si è accorto che Mercuzio stava rubando la scena a Romeo e lo ha dovuto eliminare, perché non sta bene che un comprimario sia sempre più brillante, più attraente e più affascinante del protagonista. Se dovessi pronunciarmi, però, azzarderei una combinazione delle due motivazioni: da un lato, è vero che mercuzio ruba tutte le scene in cui compare, e dall’altro, la morte dell’amico, meglio se cum sensi di colpa, è una motivazione vecchia come le colline* e sempre efficace: perché non prendere due piccioni con una fava?

Gli scrittori sono gente fatta così, d’altra parte. Non si butta mai via ll’occasione di far pittorescamente morire qualcuno, e se quel qualcuno poi intralcia il lieto fine o occupa più luce di quella che gli spetta, lo si può considerare storia passata. E’ il caso del povero Lord Evandale in Old Mortality, di Sir Walter Scott. Old Mortality è una storiellona seicentesca** il cui protagonista è il giovane Henry Morton, leader fittizio e riluttante di una sollevazione presbiteriana. Naturalmente, Henry è innamorato di una nobile fanciulla di famiglia molto, molto cattolica, e il suo rivale per il cuore della bionda Edith è il cavalier cattolico Lord Evandale. Solo che Lord Evandale non ha trent’anni più di Edith, non è spregevole, cinico o malvagio: è un bravo, leale, coraggioso ragazzo, un buon comandante e un ammirevole avversario, con debolezze molto umane e le migliori intenzioni. Mrs. Oliphant, romanziera e critica letteraria contemporanea di Scott, racconta che le ragazze che leggevano il romanzo tendevano a dividere le loro simpatie tra Morton ed Evandale, e non c’è da sorprendersi. Quando alla fine ritroviamo Edith findanzata a Lord Evandale, è difficile dispiacersi troppo: Scott ha fatto un buon lavoro con lui, lo ha reso quasi più simpatico di Henry. Ma naturalmente non può finire così: nell’ultimo capitolo, Henry rientra dall’esilio appena prima del matrimonio… e se pensate che sarebbe meschino da parte sua interferire nell’imminente imene, niente paura, ci pensa Sir Walter! Lord Evandale riesce a farsi sparare da un malvagio capitato apposta per l’occasione, e muore tra le braccia di Edith e Morton, non prima di averli ricongiunti. Si capisce, tutti sono molto, molto addolorati e tuttavia, come diceva la mia guida russa a Mosca, molto dispiacie, sì, ma così è la viiiiiita.

Insomma, non si può interferire con il lieto fine e, siccome Lord Evandale non era malvagio, stappargli la sposa per restituirla a Morton sarebbe RupertVSRassendyll.jpgparso brutto. Meglio sparargli, no? Un caso un po’ diverso è quello di Rupert von Hentzau, l’affascinante malvagio de Il Prigioniero di Zenda, nonché del seguito di cui è addirittura villain eponimo. Abbiamo già parlato di Rupert come di un caso di personaggio chiaramente ma felicemente sfuggito di mano all’autore. Sono certa che Hope si sia accorto del deragliamento e abbia deciso di lasciar andare il treno per la sua strada: Rupert e la Ruritania sono le due maggiori attrattive della storia, e sarebbe stato suicida potarne una. D’altro canto, stile a parte, Hope non era uno scrittore del tutto convenzionale: aveva creato un genere, e all’interno del suo genere era molto rigoroso. Dopo aver fatto predicare*** i suoi protagonisti di onore e lealtà per due volumi, non aveva la minima intenzione di ricompensare le loro deroghe alle regole. Defunto il vero Re, non sarebbe affatto inglese da parte di Rudolf Rassendyll godersi la corona e la moglie di un altro uomo, e così (mentre i suoi fidi amici mitteleuropei cercano di convincerlo a restare per il bene della Ruritania), il nostro gentiluomo britannico la prende nelle costole. Però Hope non voleva nemmeno che fossero i malvagi a trionfare, e quindi a questo punto Rupert è morto già da un capitolo o due, ucciso più o meno in duello da Rassendyll. Nonostante abbia più o meno barato in duello (peccato mortale per l’epoca) la morte di Rupert oscilla tra il semitragico e l’eroico. Smiling to the end, he never bent his proud head, eccetera eccetera. Persino il Fritz narrante, guardando il giovane cugino di Rupert che singhiozza disperato sul cadavere, si commuove alquanto, e ritiene di doverci informare che, even in death, he was the handsomest fellow in Ruritania.**** Insomma, per ragioni di simmetria e di morale, l’affascinante, bellissimo, allegramente immorale Rupert andava proprio fatto fuori, e non poteva che essere in duello. Ma che peccato, ha l’aria di dirci Hope. E non è un caso che la morte di Rassendyll sia opera postuma di Rupert, tramite leale servitore in cerca di vendetta per la morte del suo adorato padrone.

Morale, ci sono comprimari, antagonisti o malvagi che ti sfuggono di penna, germogliano a loro piacere e rubano la scena al supposto protagonista. Presto o tardi, se non vuoi che scappino via con tutta la storia, vanno eliminati. Mercuzio muore perché fa ombra a Romeo, Lord Evandale muore per permettere a Morton di sposare Edith, e Rupert muore perché muore Rassendyll – con non poco chagrin dei rispettivi autori. In un certo senso, è un’altra versione di Muore Giovane Chi E’ Caro Al Suo Creatore. Se fossi un comprimario, un antagonista o un villain, cercherei di non catturare troppo la simpatia di chi mi scrive.

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* Achille e Patroclo, anyone?

** Per i melomani, I Puritani di Bellini è ispirata a questo romanzo, passando però per il dramma francese Tètes Rondes Et Cavaliers, di Ancelot e Saintine. Il dramma non lo conosco, ma nell’opera ho sempre simpatizzato per il povero Riccardo, la cui unica colpa in definitiva è quella di essere un baritono – e il baritono, si sa, deve sempre farsi da parte per il tenore, e considerarsi fortunato se è ancora vivo al calare del sipario.

*** Predicare pittorescamente, never fear.

**** Ssssì, e non è solo Fritz. Si può dire che in due volumi non ci sia personaggio, uomo o donna, che non abbia a thing per Rupert, in qualche grado.

Lug 29, 2010 - libri, libri e libri    6 Comments

Di Steampunk E Altre (più o meno) Gradevoli Follie

steampunk-landscape.jpgUltimamente la mia attenzione è stata richiamata sullo Steampunk, un sottogenere letterario che mescola romanzo storico, fantascienza e fantasy. Sottogenere ibrido, pieno di suggestioni, riferimenti e citazioni, si presta a giochi narrativi deliziosi (e a trasposizioni cinematografiche notevoli, almeno dal punto di vista visivo). In genere tende a speculare universi alternativi in cui il periodo tra il Congresso di Vienna e la Prima Guerra Mondiale conosce sviluppi tecnologici immaginari – o meglio, applicazioni immaginarie della tecnologia dell’epoca (le macchine volanti sono un esempio consueto) e spesso un’atmosfera distopica.

Quello che colpisce e diverte è come lo SP sia solo uno dei numerosi sottogeneri di narrativa speculativa a sfondo tecnologico. Vediamo un po’…

Capostipite del genere è la cosiddetta narrativa Cyberpunk, nata all’inizio degli Anni Ottanta per preconizzare cupi futuri distopici, dominati da un’onnipresente e oppressiva tecnologia dell’informazione. L’infodittatura tende ad andare sottobraccio con modifiche invasiva del corpo umano, e gli eroi tendono ad essere emarginati in (vana) lotta contro l’andazzo. Pensate all’allegerrimo Philip K. Dick, per capirci, oppure a Jeanette Winterson, anche se credo che il nonno di tutti gli autori cyberpunk possa considerarsi l’Orwell di 1984.

Il Postcyberpunk è un’evoluzione che abbandona l’elemento distopico. Conserva la rivoluzione tecno-informatica, ma le assegna conseguenze positive, o quanto meno innocue e ricreative. Bruce Sterling e Neal Stephenson sono esempi del genere.

Da questo ceppo si sono dipartite due correnti principali di sottogeneri, una retrofuturistica, l’altra futuristica tout court, cui vanno aggiunti alcuni germogli in fieri.

Sul versante futuristico, il Biopunk sposta la sua attenzione dalla tecnologia dell’informazione alla biogenetica. Le traversie di un’umanità biologicamente modificata si svolgono di nuovo nel quadro di regimi totalitari (statali o corporativi, a scelta), e torniamo agli scenari distopici quando non postapocalittici. Credo che non leggerei volentieri del Biopunk, ma gente che ne capisce mi cita William Gibson come il dio del genere. Ci crediate o no, dal Biopunk si sta evolvendo un ulteriore sottogenere, il Nanopunk, parimenti distopico e incentrato – ça va sans dire – sulle nanotecnologie dopo l’abbandono o la proibizione delle biotecnologie.

Le cose si fanno un po’ meno truci dal lato retrofuturistico, con lo Steampunk di cui si diceva, nato a sua volta distopico, per poi virare su atmosfere più leggere – talvolta anche parodistiche. Una versione particolarmente filosofica della faccenda è la Trilogia delle Materie Oscure di Philip Pullman, anche se forse in Italia la fortuna dello Steampunk si deve principalmente al fumetto di Alan Moore, La Lega degli Uomini Straordinari, con conseguente adattamento cinematografico. E naturalmente non si può non citare il capostipite ignaro dello SP, Jules Verne.Il Clockpunk è quasi un sotto-sottogenere che applica le convenzioni dello SP a qualche epoca preindustriale, con molle e ruote dentate al posto della tecnologia a vapore. Da noi non è particolarmente diffuso, e mi domando se Alessandro Forlani, col suo BaroquePunk, non possa diventarne l’alfiere italiano. Discorso abbastanza simile per il Dieselpunk, che sposta il gioco tra le Due Guerre, e l’Atompunk con il suo repertorio di Guerra Fredda, corsa allo spazio, USA-URSS e compagnia cantante. Un fantasy storico leggermente meno tecnologico, più nostalgico e sempre incentrato su figure rimarchevoli dei primi decenni del Novecento è poi il Gaslight Romance.

E poi ci sono, come dicevo prima, sotto-sottogeneri in fieri, come l’Elfpunk, che trapianta elfi, nani e altre creature fantasy in contesti urbani contemporanei, Mythpunk, che lavora a partire da folklore e mitologia, e Splatterpunk, che sembra distinguersi dall’horror solo perché ancora più grafico e violento nelle sue descrizioni di mutilazioni e carneficine. Ugh. Pare esistere anche una cosa chiamata Nowpunk, apparentemente narrativa di ambientazione contemporanea in cui la tecnologia gioca un ruolo centrale – in pratica Cyberpunk ai giorni nostri, e forse non è un caso che a coniare il termine sia stato Bruce Sterling, prominente autore postcyberpunk.*

Poi, come sempre accade e per fortuna, il confine tra generi e sottogeneri è tutto fuorché solido. Per dire, come definire un arnese come la trilogia Anno Dracula, di Kim Newman, che combina steampunk, gaslight romance, vampiri, ucronia, modificazioni genetiche, una discreta dose di splatter e una rete di riferimenti storici tanto fitta da far girare la testa? Voglio dire, nel secondo volume c’è il Barone Rosso a capo di una squadriglia di ubervampiri volanti, for crying out loud! Classificatelo, se siete capaci.

Come dicevo: per fortuna! Una segmentazione dei generi narrativi a tenuta stagna sarebbe una camicia di forza. Finché tutto resta ragionevolmente fluido, invece, non c’è limite alle strade aperte alla fantasia e alla creatività degli scrittori.

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* E non sarebbe ancora finita, se si considera l’abitudine di coniare definizioni derivate come stonepunk, bronzepunk, sandalpunk, candlepunk, transistorpunk… Non sono davvero altrettanti generi, spesso solo la definizione – più o meno ironica – che un singolo autore dà dei propri libri.  

Libri d’Infanzia

lullabyeland1.jpgUna spedizione in soffitta ha riportato alla luce il libro più amato della mia prima infanzia: Mimmo nel Paese della Ninna Nanna.

Il libro era già vecchio quando io ero piccina: prima che mio era stato di mia madre e di mio zio, che avevano colorato con le matite le illustrazioni in bianco e nero. Fra tutti e tre dobbiamo avergli fatto fare parecchio servizio, povero librino: ha perduto la costa e la copertina posteriore, ma la rilegatura cucita era di buona qualità, visto che è perfettamente solida. Non so dire quale sia stato il mio ruolo in tutto questo tear&wear, ma mi pare di ricordarlo così fin da allora, quando mi sembrava un libro enorme e abitava in uno scaffale specialissimo della libreria…

Ero affascinata dall’atmosfera sognante e surreale, dai colori meravigliosi dei cieli stellati e delle colline di coperte imbottite, e forse più di tutto dall’Uomo del Sonno, che faceva addormentare tutti con la sabbia magica del suo sacco. Fosse stato per me, me lo sarei fatto leggere e rileggere (e poi l’avrei letto e riletto) all’infinito.

Per fortuna, la mia meravigliosa nonna aveva idee diverse: al Paese della Ninna Nanna si accedeva soltanto in occasioni particolari, lontane tra loro, alcune rituali (attorno al mio compleanno, per esempio), altre del tutto inaspettate, in premio per qualcosa, quando c’era bisogno di consolazione o magari per coronare una giornata perfetta. Nonna aveva molti talenti, tra cui quello di rendere unici posti, situazioni, momenti e… libri. Era lei a popolare il nostro giardino e gl’immediati dintorni di personaggi fiabeschi (per esempio, lo sapevate che l’Uomo del Sonno si procurava la Sabbia Magica nel nostro orto, nell’aiuola dei carciofi, e solo nel breve periodo in cui Nonna ne lasciava fiorire qualcuno?), era lei a mescolare, intrecciare e cambiare le storie che mi raccontava, e a incoraggiarmi a fare altrettanto, era lei a trasformare persino un’attesa dal veterinario in un’avventura, era lei a insegnarmi che sono l’unicità e la caducità a rendere preziose le cose. E’ stata lei – con l’attiva collaborazione dell’allora non ancora Colonnello – a fare di me una scrittrice.

Ma torniamo a Mimmo nel Paese della Ninna Nanna. Ho fatto qualche piccola ricerca in rete, scoprendo che il libro, originariamente una Silly Simphony di Walt Disney, è stato edito in Italia da Mondadori nel 1944*. Non sono riuscita a scoprire l’autore della deliziosa, tenera traduzione, e sarei grata a chi me lo sapesse segnalare. Ci sono trentotto illustrazioni, circa un terzo delle quali a magnifici colori. Quelle in bianco e nero sono state colorate a matita – suppongo da mio zio e mia madre, perché io sono sempre stata incapace di colorare “dentro i bordi”. Ci sono anche alcune canzoni con musica e testo – tratti, suppongo dal cartone animato originale.

Ho sfogliato per bene, riletto da cima a fondo, guardato le illustrazioni una per una, ritrovato l’Albero dei Piumini da Cipria, Fido il Cane di Pezza, il Giardino Proibito, i braccialetti tintinnanti della mamma e naturalmente il mio vecchio amico: l’Uomo del Sonno. Adesso il libro prenderà posto in uno scaffale della libreria, da cui uscirà molto raramente, in obbedienza ai vecchi e saggi principi. Perché sono certa che, se tanti anni fa avessi avuto il permesso di guardarlo ogni giorno, ritrovare questo libro adesso sarebbe stato molto meno emozionante.

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* Il che implica un piccolo mistero famigliare, visto che una pagina riporta un’annotazione di una cugina, datata 28 marzo 1937!

Lug 3, 2010 - libri, libri e libri    Commenti disabilitati su Aggiornamento

Aggiornamento

BrF.jpgBe’, forse ho barato un po’ (cominciando a leggerlo ancora in giugno, nel viaggio per e da Pescara), ma intanto Brat Farrar l’ho letto. Che Josephine Tey mi piaccia non è un mistero; che mi piaccia abbastanza da farmi apprezzare anche un giallo che, come giallo, è così così, è una scoperta nuova. In realtà chi sia l’assassino è un po’ foregone conclusion (non foss’altro che per assenza di altri papabili), e se dovessi spiegare il dénouement avrei delle serie difficoltà – per il semplice motivo che non ho proprio capito che cosa Brat abbia scoperto di nuovo rispetto alle indagini compiute otto anni prima…

Detto questo, però, l’ambientazione, i dialoghi e i personaggi sono così buoni che la lettura è stata deliziosa lo stesso. O forse… deliziosa stavolta non è la parola giusta. Bee è adorabile, le gemelle sono bambine perfettamente plausibili, Latchetts è un posto dove mi piacerebbe vivere, condivido in pieno l’opinione di Zio Charles sui cavalli e la vita in un paesino di campagna è colta alla perfezione. Il fatto che per tutto il tempo io abbia infelicemente simpatizzato con Simon è, immagino, più colpa mia che della signora Tey.

Voglio dire: i meccanismi narrativi sono il mio lavoro e la mia passione, e so benissimo che cosa vuol dire quando un autore (specie un autore inglese della generazione* di JT) presenta un personaggio come un affascinante simulatore e dissimulatore che manipola il prossimo. E tuttavia Simon dalle maniere perfette, Simon egocentrico e occasionalmente meschino, Simon disperatamente geloso… Che posso farci? Simon è precisamente il tipo di personaggio dalla cui parte finisco per schierarmi anche se non voglio. E’ anche il tipo di personaggio al quale, se lo scrivessi io**, risereverei qualche tipo di redeeming quality di quelle calcolate per renderlo un pochino più ammirevole – seppure non assolutamente più simpatico, e magari una fine semi-tragica. Non c’è niente da ridere, prego: ciascuno è sentimentale a modo proprio, e questo è il modo in cui sono sentimentale io.

Sul fronte scrittura, per ora ho scritto soltanto la Nota dell’Autore per… Oh, a dire il vero non so se a questo punto posso ancora dare molta pubblicità alla faccenda, per cui limitiamoci a questo: in ottobre ci sarà qualcosa – qualcosa del genere che richiede Note dell’Autore.

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* Generazione in senso lato: da questo punto di vista – e anche da diversi altri, probabilmente, ma per ora concentriamoci sull’innata rettitudine del gentiluomo britannico – possiamo considerare la generazione anagrafica di JT una specie di onda lunga del periodo vittoriano.

** Ed è inutile che dica quanto aspiri a scrivere un personaggio antipatico ma col quale sia impossibile non simpatizzare, volenti o nolenti. Sempre aspirato: il mio primogenito, il malcapitato Ned, era già un tentativo di questo genere. Sì: sono una manipolatrice del prossimo, perché?

Giu 12, 2010 - libri, libri e libri    4 Comments

I Due Conti Pecorai

Ippolito Nievo oggi all’Accademia Virgiliana di Mantova. E qui devo confessare (cospargendomi di cenere il capo) di aver creduto a lungo che Nievo avesse scritto soltanto le Confessioni Di Un Italiano e il Novelliere Campagnuolo… Invece scopro oggi che esiste altro, tra cui Il Conte Pecoraio, romanzo d’ambiente contadino e d’ispirazione parzialmente manzoniana.

Una volta chiarito l’illuminante particolare che il protagonista eponimo e la di lui figliola Maria sono in realtà nobili decaduti da qualche generazione, una volta accennato che la trama è una storiellona d’ingiustizie, innocenza perduta, gente che legge i Promessi Sposi, coincidenze e voti, vengo all’aspetto che mi ha colpita di più nella relazione di Simone Casini, curatore dell’opera omnia. Si dà il caso che, oltre alla versione a stampa pubblicata nel 1857, del CP rimanga una prima stesura manoscritta, redatta a partire dal 1855. Ebbene, pare che la differenza tra le due sia abissale: la trama è modificata, ma la cosa più sorprendente è la metamorfosi del linguaggio.

Nel 1855, in una lettera, Nievo aveva dichiarato l’intenzione di scrivere “un romanzo semplice semplice”, poi evidentemente cambiò idea. Fossero i consigli dei colleghi scrittori (gente come Tenca e Fusinato…) a cui aveva mostrato la prima stesura, fosse qualche insoddisfazione nei confronti di una certa inconsistenza espressiva, fosse un’improvvisa folgorazione stilistica, qualcosa indusse il venticinquenne Ippolito a riprendere in mano il suo romanzo e riscriverlo puntigliosamente, frase per frase, quasi parola per parola, caricando il tutto “in senso aulico ed espressivo”.

Il risultato è stupefacente: un linguaggio dal registro indefinibile, affollato di impossibili toscanismi fianco a fianco con espressioni dialettali, calchi, echi dei Promessi Sposi (ma, badate bene, dell’edizione del 1827, pre-bucato in Arno), scelte lessicali eccentriche, costruzioni convolute e bizzarrie miste assortite – compresi i contadini friulani che parlano un Toscano tanto aulico da sembrare trecentesco… Quali che fossero le perplessità di Nievo sulla sua prima stesura, non si può certo dire che il linguaggio della seconda abbia giovato alla fortuna del Conte Pecoraio, la cui storia editoriale è singolarmente scarna.

Adesso esce, per l’appunto, pubblicato da Marsilio, e non esce una volta sola: tra qualche mese sarà la volta di un nuovo volume, dedicato alla prima stesura, quella manoscritta, quella “semplice semplice”, quella non ancora “rassettata”.

Non sono certissima che leggerei il Conte Pecoraio se ne esistesse soltanto la versione a stampa… forse potrei essere curiosa di dare un’occhiata al romanzo che ha preceduto le Confessioni, forse potrei voler leggere le scene quasi metaletterarie in cui Maria s’ispira o si paragona alla Lucia manzoniana, ma nulla di più. Le due versioni così disparate tra loro, però sono un cavallo di tutt’altro colore: una metamorfosi congelata nella carta anziché nell’ambra, una porta aperta sul modo in cui uno scrittore ripensa il suo libro parola per parola… come resistere all’opportunità di vedere il funzionamento di un meccanismo del genere? Personalmente so già che non resisterò affatto – non proverò nemmeno a resistere, che diamine!

Intanto, per chi si fosse incuriosito, qui c’è, insieme ad alcuni altri titoli, Il Conte Pecoraio (versione a stampa 1857) in PDF.

Giu 2, 2010 - libri, libri e libri    Commenti disabilitati su Festa della Repubblica

Festa della Repubblica

Festa della Repubblica, oggi. Mi piace celebrarla ricordando una persona che la Repubblica l’ha servita con le stellette, in una posizione spesso scomoda e qualche volta ostracizzata in anni difficili, e che ha trovato il tempo di scrivere (anche se non di finire) un libro fuori dal comune.

Don Sergio Lasagna era un cappellano militare, personaggio pugnace, coltissimo, appassionato alla sua vocazione di sacerdote in uniforme, dallo sguardo acuto e dalla battuta pronta. Oltre alla sua posizione di cappellano, all’insegnamento, alla guida di un’emittente radiofonica cattolica, a letture vastissime e a una conoscenza enciclopedica del Greco e del Latino, Don Sergio si dedicava alla scrittura.

La Rivincita è il libro fuori del comune di cui dicevo: un romanzo filosofico, uno straordinario viaggio in un Paradiso contemporaneo che mescola ispirazione dantesca, spirito pungente, meravigliosa ricchezza inventiva, molta umanità e uno sguardo disincantato e intenerito insieme. Aggiungete uno stile personalissimo, vivido e raffinato, e un andamento un po’ magmatico – frutto forse di una mancata ultima revisione, ma affascinante di per sé. La Rivincita viene pubblicato privatamente e in tiratura ridotta a ventisette anni dalla morte dell’autore, ma per forza e per originalità – oltre che come testimonianza di una personalità notevole – meriterebbe una diversa attenzione editoriale. Chissà, magari in qualche futuro…

Mag 10, 2010 - anglomaniac, libri, libri e libri    Commenti disabilitati su Libri In Regalo

Libri In Regalo

Mi è capitato qualcosa che mi ha riportata alla lontana infanzia.

A titolo di regalo di compleanno tardivo, sono stata rapita e condotta in libreria, con l’ingiunzione di scegliere “dei libri”. Da anni acquisto la maggior parte dei miei libri su Internet (adesso, poi, li scarico direttamente sul Kindle), e quindi già la cosa in sé è stata molto sul genere tè-al-tiglio-e-madeleine. Ho girellato tra gli scaffali con quel senso di anticipazione e di scoperta che un tempo apparteneva alle sere di Santa Lucia – assoluta delizia!

E alla fine ho scelto Il Grande Gioco, di Peter Hopkirk, una magnifica storia della guerra di spionaggio tra Inglesi e Russi in Asia Centrale – praticamente lo sfondo di tante storie di Kipling! – e L’Uomo Dagli Occhi Glauchi, di Patrizia Debicke Van der Noot, romanzo storico incentrato su un meraviglioso ritratto tizianesco e sul servizio di spionaggio di Robert Cecil. 

E’ stato un incantevole regalo di compleanno. O di non-compleanno, se vogliamo virare sul carroliano – e io vorrei, perché il tutto è stato davvero un po’ nonsense.

Per di più, sabato è arrivato per posta The Infernal World of Branwell Bronte, di Daphne Du Maurier, e quindi adesso ho una piccola pila di tre libri che voglio tanto leggere, ma al momento non ho davvero tempo: se ne stanno lì, uno sopra l’altro come sirene rilegate, mi guardano ogni volta che passo nelle vicinanze, ammiccano, mi chiamano… Leggici, leggici, leggici! Lascia perdere il Riccio, dimenticati quel che devi recensire, prenditi una vacanzuola dalla storia bizantina. Leggi noi, noi, noi…

Per ora resisto, legata alla sedia maestra e con striscioline di to-do-lists appallottolate nelle orecchie. Fino a quando? Non si sa.