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Serendipità Marittima

Non è la prima volta che succede – e ogni volta mi solleva da terra.

Avevamo già parlato di quella che Diana Gabaldon chiama historical serendipity, ricordate? Ne avevamo parlato in fatto di mercanti d’olio e segretari greci.

E la serendipità storica è quel fenomeno per cui si piazza in un romanzo storico qualcosa di fittizio ma plausibile e poi, in qualche modo, si scopre che poi così fittizio non era.

Si scopre che il nostro immaginario mercante d’olio c’era davvero, e che il segretario greco si chiamava davvero con il nome che credevamo di avergli inventato…

È una faccenda di estrema soddisfazione. Mette dei gradevoli brividini giù per la schiena, e la sensazione di essere in qualche modo sulla strada giusta. Di avere capito almeno un po’ questo secolo e questa gente su cui si sta lavorando. Per un istante si apre una finestra e si ha l’impressione di avere toccato qualcosa.

Ecco, è successo ancora.

Teatro, questa volta.

Acqua Salata & Inchiostro, ricordate? O comunque debba finire per chiamarsi.

Ebbene, c’è di mezzo John Masefield, di cui abbiamo parlato più di una volta. E sapevo che John Masefield aveva scritto un poema narrativo intitolato Dauber, che sarei stata molto curiosa di leggere, perché lo sospettavo parecchio autobiografico – almeno fino a un certo punto. Solo che non riuscivo a trovarlo.

Oh well, pazienza.

E invece poi l’ho trovato, a prima stesura pressoché finita. E l’ho letto, contando di trovarci qualcosa da aggiungere alla mia caratterizzazione del personaggio.

E…

E che diamine, un sacco di pensieri che Masefield attribuisce al suo protagonista erano… non c’è altro modo di dirlo: erano già nel mio play. Erano cose che il “mio” Masefield dice e pensa.

Al limite della parafrasi.

E vi dirò: è stato davvero piuttosto eccitante scoprire che ci ho preso da vicino. Che la Serendipità Storica ha colpito ancora.

Immaginatemi a un certo numero di centimetri da terra.

 

Lug 8, 2013 - Anno Verdiano, Storia&storie    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: Attila

Librettitudini Verdiane: Attila

giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffei“Perché non Attila?” disse Maffei – e Verdi, se avesse avuto delle antenne, le avrebbe rizzate.

Andrea Maffei – marito della più celebre Clarina – era un poeta, un librettista, un traduttore dall’Inglese e dal Tedesco. Per cui conosceva bizzarrie germaniche come il dramma di Zacharias Werner sul re degli Unni…

Verdi qualche tempo prima aveva letto De l’Alemagne, di Mme de Staël, in cui, tra l’altro, proprio quel dramma si riassumeva con entusiasmo. E ne era rimasto colpito. Gli pareva una bella storia cupa e romantica (nel senso meno sentimentale del termine), piena di forza tragica e ambientata in un tardo impero tanto oscuro da essere esotico di risulta. Figurarsi quando Maffei glielo propose come soggetto “barbaro”!

Dopo la batosta napoletan-peruviana dell’Alzira, bisognava andare sul sicuro: la collaudata Fenice e il fidato Solera sembravano una buona combinazione… peccato che Solera fosse a Madrid, in autoesilio per sfuggire ai creditori, e fosse men che sollecito nel consegnare i versi. Per di più aveva le sue idee su come dovesse essere il libretto, continuava a battere sull’aspetto risorgimental-patriottico, a discapito delle psicologie individuali e dell’Impero che franava a valle – che a Verdi interessavano molto di più. giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffei

Quando diventò evidente che Solera nicchiava con l’atto terzo – e forse in considerazione del fatto che battere troppo su un’Italia che si libera dei barbari occupanti significava cercar grane con la censura – Verdi si rivolse a Piave chiedendogli (con la consueta abbondanza di istruzioni e raccompandazioni) di risistemare e finire il tutto.

Solera, dalla Spagna, si offese a morte e non volle mai più collaborare con Verdi. Il povero Piave-Gatto si lesse Mme de Staël, si lesse Werner (forse tradotto da Maffei) e sistemò tutto come voleva Verdi.

Quindi: Verdi, Solera, Piave – e anche Werner, e probabilmente un po’ Maffei… Vediamo che ne uscì.

Il Prologo comincia ad Aquileia caduta. Eruli, Ostrogoti & Unni si aggirano tra le macerie fumanti, compiacendosi coralmente dell’abbondanza di urli, rapine, gemiti, sangue, stupri e rovine…  Credevano forse di resistere ad Attila, questi scemi di Aquileiesi? Ha!

giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffeiEd eccolo qui, Attila su un carro trainato dagli schiavi, duci, re, ecc…* E prima che noi possiamo farci domande su quell’affascinante ecc…, il coro barbarico accoglie il suo condottiero così:

Viva il re delle mille foreste,
Di Wodano ministro e profeta;
La sua spada è sanguigna cometa,
La sua voce è di cielo tuonar.
Nel fragore di cento tempeste
Vien lanciando dagl’occhi battaglia;
Contro i chiovi dell’aspra sua maglia
Come in rupe si frangon gli acciar.

E Attila (basso) sarebbe soddisfatto, non fosse che il suo fedele schiavo Uldino entra conducendo un gruppo di donne locali che, contrariamente agli ordini, ha salvato per offrirle in dono al Re. Dopo tutto sono una rarità esotica, e hanno pugnato in armi.

Allor che i forti corrono
Come leoni al brando
Stan le tue donne, o barbaro,
Sui carri lagrimando.
Ma noi, donne italiche,
Cinte di ferro il seno,
Sul fumido terreno
Sempre vedrai pugnar,giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffei

chiarisce Odabella**, il nostro soprano – e chi vuole intendere, intenda. Attila s’innamora sur-le-camp, le offre una grazia a scelta e, quando lei chiede una spada, le offre gentilmente la sua e la lascia libera di vagare a suo gusto per il campo.

Ora, voi sapete che ho una predilezione per le voci gravi, ed è mia convinzione che, in questo come in molti altri casi, nessuna donna sana di mente che non ci fosse costretta dal libretto, potrebbe preferire il tenore al basso e/o al baritono. Ciò detto, se non vi siete fatti l’impressione che Attila sia candidabile al Nobel per la fisica, non so biasimarvi…

E infatti Odabella, che ha un padre e un moroso da vendicare, gioisce tra sé – perché quella spada non ha intenzione di usarla al posto delle forbicine da ricamo. E Attila si stupisce di come l’ardire e la bellezza di Odabella dolcemente gli fiedano il cuore. 

Ma non distraiamoci. La guerra è guerra, e Attila manda tutti quanti per la loro strada, perché ha da ricevere l’inviato di Roma.

E l’inviato di Roma altri non è che Ezio, il nemico preferito di Attila, quello che gli ha rifilato una batosta di tutto rispetto ai Campi Catalaunici – e l’abbiamo già capito, ad Attila piace la gente tosta, purché non se ne venga con proposte di pace…

Peccato che Ezio se ne venga a proporre qualcosa di peggio della pace. giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffei

Perché Ezio, vedete, è uno di quei generali di sangue barbaro che sono più fedeli a Roma dei Romani stessi, e la cui lealtà in genere viene ricompensata così così***. Ed Ezio non ne può davvero più dell’imbelle giovine**** Valentiniano che siede sul trono d’Occidente. Seccherebbe molto ad Attila spartirsi con Ezio questo vecchio impero malconcio e tanto bisognoso di una mano energica – o due?

Poffarbacco!

Noi Ezio lo perdoniamo (o almeno sospendiamo il giudizio) perché è un baritono, ma Attila, che non è frenato da queste considerazioni timbriche ed è un nobile re guerriero, s’indigna. Se Roma è così malmessa che il suo eroe più valido pratica tradimento e spergiuro, allora è proprio tempo che gli Unni radano tutto al suolo.

Ah be’, ma se la mettiamo così, Ezio non ha altro da dire, se non: guerra! Dopo tutto, gliele ha suonate una volta, ad Attila, ed è capacissimo di farlo ancora. E i due si separano vicendevolmente furibondi.

Chiudesi il prologo dalle parti della futura Venezia, dove un coro di eremiti accoglie un coro di aquileiesi in fuga, guidati da… Foresto? Possibile? Il comandante e salvatore dei fuggiaschi è un tenore che non è poi così morto come noi e il soprano credevamo, e che si dispera perché la sua bella è prigionera del nemico conquistatore – da cui, incidentalmente, vuole liberare la patria afflitta…

E lo so, suona familiare, ma fidatevi: secolo diverso, continente diverso, costumi diversi, finale diverso. Insomma, abbastanza diverso… oh well.

E con questo siamo soltanto alla fine del prologo. Sarà meglio che ci affrettiamo all’Atto Primo.

E cominciamo con Odabella che vaga nottetempo nei boschi e pensa ai casi suoi, giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffeifinché non le arriva addosso Foresto travestito da Unno. E forse anche questo vi suonerà vagamente familiare, perché a lei quasi prende un coccolone nel vedersi davanti il moroso redivivo, ma lui è furibondo perché la crede collaborazionista: com’è che se ne gira libera e armata, eh?

E lei fatica un po’, tra giuramenti e citazioni bibliche, a convincerlo che tutto quel che vuole è vendicarsi infilzando Attila con la sua stessa spada.

“E perché non l’hai ancora fatto?” sarebbe la domanda sensata, viste le generali circostanze…

Ma Foresto è un tenore, e invece va in estasi, chiede perdono e i due cinguettano e s’invitano a vicenda a inebriarsi nell’amplesso–

Ma no, cosa avete capito? Opera, Ottocento, censura! Tutto molto casto – e comunque fade to

La tenda di Attila che, in una scena reminiscente del Riccardo III*****, si sveglia da un incubo. Perché insomma, imman gli apparve un veglio, che l’ha preso per i capelli e gli ha ingiunto di lasciare in pace Roma, che il suo incarico divino prevedeva la flagellazione dei mortali, ma Roma è di Dio.

Raccapriccio!

esclama il fedele Uldino – ma Attila si riprende prima di subito, arrossice della sua debolezza e anzi, convoca il coro tutto: armi e bagagli, ragazzi, che si parte per Roma.

Ma…

Che d’è quella religiosa armonia che risponde alle trombe guerriere degli Unni?

giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffeiÈ Papa Leone, con sei anziani e un corteo di vergine e fanciulli in bianche vesti. C’è anche Foresto, nascosto in mezzo al coro, ma nessuno bada a lui. Cosa più interessante, nel vecchio disarmato, Attila riconosce l’uomo del suo incubo. E, guarda caso, Leone ripete proprio le parole del sogno: basta così, grazie, flagellato abbastanza, Roma no…

Aiuta che alle sue spalle Attila veda un paio di gigantesche figure armate di spade fiammeggianti. Chi l’avrebbe mai detto? Per lo sbigottimento degli Unni e la meraviglia dei locali (e, a quanto pare, di Leone stesso), Attila cade in ginocchio, pronto a prendere, incartare e portare a casa la divina ammonizione.

E qui (soprattutto dalle mie parti), saremmo anche disposti a considerare finita la faccenda. E invece no: è finito solo l’atto primo.

E l’Atto Secondo comincia con Ezio, di umor nero perché il pavido Valentiniano lo riconvoca in tutta fretta a Roma, proprio adesso che si potrebbe dare il colpo di grazia agli Unni in ritirata… ah, dov’è finita la potenza di Roma? Dove andremo a finire? Non ci sono più le mezze stagioni, eccetera.

Ma a interrompere le lamentazioni del generale arriva uno stuolo di schiavi d’Attila, recante richiesta di un abboccamento. E perché mandare uno stuolo di schiavi a parlamentare? Ma perché così ci si può nascondere in mezzo, e poi restare indietro inosservato, Foresto. Foresto che viene a giocare agl’indovinelli. Non chiedermi perché, non ti dico chi sono o come lo so, ma in serata si fa fuori Attila. Tu tieniti pronto e, al segnale, attacca.

E magari sarebbe legittimo dubitare, non vi sembra? Trappola, imboscata, ruse de guerre?

Ma no: ad Ezio non par vero di avere l’occasione di ignorare gli ordini imperiali. Per mal che vada, morirà in battaglia, risparmiandosi il resto del declino di Roma.

E noi facciamo appena in tempo a tornare al campo di Attila, dove Eruli, Ostrogoti & Unni gozzovigliano, e Attila presiede con Odabella al fianco vestita da amazzone, e Foresto si nasconde in mezzo al coro (again)… Facciamo appena in tempo a tornare, dicevo, che arrivano Ezio e i suoi.

E salta fuori che, nonostante il carattere piuttosto truculento dei brindisi, quel che vuole Attila è offrire una tregua e celebrarla con una buona cena. giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffei

Il che, fanno lugubremente notare i druidi, porta malissimissimo… E se Attila crede di risollevare gli animi con un po’ di musica, sbaglia: il vento interrompe il già non allegerrimo canto delle sacerdotesse e spegne fuochi e lucerne, e tutti cominciano a farsi un nonnulla nervosi. 

Foresto ne approfitta per sussurrare a Odabella che il fedele Uldino è in realtà pronto ad avvelenare Attila; Odabella s’indigna perché Attila lo vuole infilzare lei; Uldino, col veleno in mano, cerca di farsi coraggio; il coro si agita; Ezio torna a proporre alleanza contro Valentiniano; Attila rifiuta sdegnato ma, a mezza via tra Winnie the Pooh e (again) Riccardo III, deve ammettere che:

Oh rabbia! Non sento più d’Attila il cor!

E poi il cielo si rasserena all’improvviso, e potremmo quasi credere a un anticlimax, se non fosse che Attila, nell’ansia di superare il momentaccio, sta per bere. Per bere dal boccale che gli ha portato Uldino…

Ma no! Odabella lo ferma, gli rivela il tentato avvelenamento e, quando Attila, non incomprensibilmente, vuol sapere chi è stato, è Foresto a farsi tenorilmente avanti.

Sensazione.

Attila riconosce il capitano aquileiese che tanto filo da torcere gli ha dato in battaglia – e adesso gliela fa vedere lui.

Poco sforzo, adesso! provoca Foresto.

E Odabella chiede in premio la sua vita.

E Attila acconsente, e ci aggiunge la corona di regina degli Unni, da suggellarsi con matrimonio l’indomani.

E Foresto fugge non senza avere prima maledetto Odabella (again), e dite la verità: non potremmo quasi crederci tornati in Perù?

giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffeiA riprova del fatto che invece siamo ad Aquileia, Ezio si morde le nocche per il fiasco, Uldino pensa che l’ha scampata bella e che deve un gran favore a Foresto, e il coro non ne può davvero più: facciamogliela vedere, a questi Romani arroganti e avvelenatori, e che diamine!

Sipario.

Atto Terzo, e non ci stupiamo di trovare Foresto nel bosco tra il campo di Attila e quello di Ezio – lui che passa di qua e di là come se nulla fosse. Ad ogni modo, adesso è lì nella terra di nessuno a mangiarsi le unghie al pensiero di Odabella fedifraga. Ed entra Uldino a dire che la sposa è appena salita in automobile partita col corteo verso la tenda di Attila. Ed entra Ezio a chiedere che cosa stanno aspettando. E Foresto vaneggia ancora sull’infedeltà di Odabella. Ed Ezio, con tutta l’aria di avere sentito i vaneggiamenti molte e molte volte, gli fa notare che lui ha in mente cose più importanti di una ragazza poco seria – tipo il destino dell’Impero. Ed entra Odabella vestita da amazzone/sposa/regina******, vaneggiando a sua volta. Si direbbe che lo spettro del babbo sia venuto a tirarle le coperte: ma proprio Attila, doveva sposare? Foresto, ça va sans dire, concorda col fantasma.giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffei

E mentre Ezio cerca di affrettare i tempi, Odabella si proclama innocente e ultrice, e Foresto non le crede (again)…

Ed Ezio non aveva tutti i torti, perché arriva Attila, cercando la sua novella sposa.

E la trova abbracciata a un riluttante Foresto in presenza di Ezio.

Ops.

Ma come? s’infuria Attila. Lui ha sollevato Odabella da schiava a regina, ha risparmiato Foresto e non ha distrutto Roma – e adesso tutti cospirano contro di lui?

E a noi viene il dubbio che a Solera sia sfuggito qualcosa – o che Piave ci abbia messo parecchio di suo. Siamo sinceri: tra Foresto che passa il tempo a nascondersi tra gli alberi e le comparse e a maledire ingiustamente Odabella*******, Uldino che viene trattato come un figlio e ricambia col veleno, ed Ezio che, baritono o meno, muore dalla voglia di tradire qualcuno fin dal prologo, per chi dovremmo simpatizzare, se non per Attila?

giuseppe verdi, attila, zacharias von werner, temistocle solera, francesco maria piave, andrea maffeiE mi sembra degno di nota che Odabella dica di non poter consumare il matrimonio con Attila perché lui le ha ucciso il padre. Non per altri motivi come, ad esempio, Foresto.

Ma a questo nessuno ha l’aria di badare troppo. Mentre si sentono in quinta le grida dei Romani che assaltano gli Unni già piuttosto su di giri, Foresto parte per pugnalare Attila, ma Odabella lo precede… Anche a voi sembra un gesto da donna innamorata? Ad Attila, devo dire, non molto.

E tu pure, Odabella?

mormora – e poi muore.

E in quella che credo sia la scena più breve della storia dell’opera, guerrieri romani irrompono da tutte le parti per informarci che

Appien sono
Vendicati, Dio, popoli e re!

Sipario.

E insomma, sì. C’erano grandi aspettative per questo Attila. Verdi ne scriveva dicendo che i suoi amici la consideravano la sua opera migliore – con quel genere di tono che implica “lo penso anch’io, ma non lo dico”, e doveva essere il riscatto dopo l’Alzira.

Tutto quel che si può dire è che la carriera di Verdi non fu un progresso trionfale di successi da far crollare il loggione, e che l’Attila andò tutt’altro che male.  

E sapete, tuttavia, quale fu la beffa più maiuscola? Verdi si aspettava grandi cose dai finali secondo e terzo, e invece la Fenice applaudì “con maggior fanatismo” proprio il più patriottico, più risorgimentale, più soleriano atto primo.

Solera, da Madrid, avrebbe potuto trarne tutta la consolazione che voleva.

 

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* Holla, ye pampered jades of Italy… No, scherzi a parte, non è bizzarro che nessuno abbia tratto un’opera dal Tamburlaine di Marlowe? Ci sono almeno un paio di Tamerlani – uno di Haendel, l’altro non ricordo – ma nessuno, per quanto ne so, tratto da Marlowe…

** Un giorno ci chiamerò una gatta.

*** Belisario, anyone? E sì, era Costantinopoli e non Roma – but still.

**** Werner, Solera e Piave ce lo fanno passare per adolescente, ma in realtà Valentiniano nel 452 aveva ben passato la trentina. Ma d’altronde nemmeno l’Imperatore d’Oriente Marciano era poi così tardo per gli anni e tremulo come vuole il libretto… Però così Ezio ci fa una figura vagamente migliore.

***** Altra cosa da cui è strano che nessuno abbia mai tratto un’opera. Almeno per quanto ne sappia. Qualcuno ha qualcosa da segnalare in proposito?

****** No, davvero.

******* D’altra parte, Vedi per primo… C’è una favolosa lettera con cui chiede a Piave di verseggiargli una romanza supplementare per Foresto, su richiesta del tenore russo Ivanoff. Ed è davvero una forma di consolazione leggere che Verdi descrive Foresto come quell’imbecille di amoroso.

Giu 17, 2013 - Anno Verdiano, Storia&storie    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: I Due Foscari

Librettitudini Verdiane: I Due Foscari

giuseppe verdi, anno verdiano, francesco maria piave, i due foscari, byronEra un po’ di tempo che Verdi aveva in mente di tentare Byron, e in particolare The Two Foscari, una di quelle cupe storiellone veneziane, ispirata alle vicende del doge Francesco Foscari e del suo sfortunato figlio.

Solo che a Venezia la censura non aveva voluto saperne – e non del tutto incomprensibilmente, perché non è che Byron faccia fare una gran figura alla Serenissima, implacabile fino alla crudeltà, a tutto beneficio delle vendette private…

Insomma, per la Fenice non se ne parlava, ma Roma era tutt’altra faccenda e, forte del suo nuovo contratto con il teatro Argentina, Verdi mise il buon Piave a verseggiare prim’ancora che le autorità avessero approvato la selva. La selva, per capirci, era una specie di sinossi dettagliata del libretto, su cui la censura esercitava un controllo preventivo.

La selva dei Foscari passò lo scrutinio in trionfo, e Verdi e Piave ci si misero di buzzo buono. E non dovete pensare che, dato il successo dell’Ernani, Verdi si fosse messo quieto nei confronti di Piave – anzi. Presa confidenza e passato al tu, il compositore è ancor più draconiano nelle sue richieste. È chiaro che Piave doveva essere un buon verseggiatore senza troppa idea di come funzionasse il teatro dell’opera, perché le lettere che abbiamo in fatto di Foscari sono un susseguirsi ininterrotto di istruzioni e desiderata di notevole perentorietà. 

Fai questo e fai quello, caro il mio poeta-gatto, e non fare quell’altro – per carità! E quell’altro ancora è bellissima poesia, ma in teatro non si fa così… giuseppe verdi, anno verdiano, francesco maria piave, i due foscari, byron

Piave, brav’uomo, pare essere stato assai cedevole in questo principio di carriera. Non ho mai letto le sue lettere in risposta, ma vien da sospettare che a cose fatte, nel vedere il suo nome stampato sul libretto, dovesse abbandonarsi a qualche risatella amara…

Ad ogni modo, Verdi era molto soddisfatto. Il libretto gli piaceva molto – e ciò benché, tutto sommato, nei Due Foscari in scena succeda ben poco.

Per dire, al principio dell’Atto Primo, incontriamo il coro d’ordinanza nel ruolo del Consiglio dei Dieci che, a notte alta, in gran silenzio e mistero, si riunisce a Palazzo Ducale per deliberare su che si debba fare di Jacopo Foscari, il figlio del Doge, richiamato a bella posta dall’esilio cretese.

Che cosa Jacopo abbia combinato, al momento non è chiaro, ma di certo è ben felice di respirare di nuovo l’aria della sua amatissima Venezia. Un po’ meno di simpatia il giovanotto riserva per i Dieci: quando il comprensivo fante di scorta lo incoraggia ad aspettarsi pietà e misericordia, Jacopo inveisce contro la sete di sangue dei suoi nemici annidati in consiglio.  Apparentemente, non è comodissimo essere un Foscari nella Venezia del 1457 – e che l’innocenza serva a qualcosa è più materia di speranza che altro… Notate che questa tirade l’aveva voluta Verdi, cui pareva che lo Jacopo di Piave fosse deboluccio. Diamogli più carattere, insiste il compositore più e più volte. Diamogli più fuoco! Ed ha tutt’altro che torto – ma vedremo in futuro che per i suoi tenori non avrà sempre tutto questo riguardo.

Ma lasciamo passare qualche ora e spostiamoci a Palazzo Foscari, dove Lucrezia Contarini, la bella sposa di Jacopo, apprende con notevole furia che i Dieci hanno condannato Jacopo all’esilio a vita. Perché, nel modo che è tipico di quest’opera, tutto si è deciso fuori scena. Ma Lucrezia non è un soprano-mammoletta. Tuona contro la falsa misericordia dei patrizi, invoca la vendetta divina sulle loro teste – e non dà gran retta al coro che l’esorta alla pia rassegnazione.

Nel frattempo, alla fattoria… er, no: nel frattempo, a Palazzo Ducale, i Dieci e la Giunta sciamano fuori dall’aula, commentando quel che sappiamo già. Di Jacopo bisogna fare un caso esemplare… ma che diamine ha fatto lo sciagurato ragazzo? Ebbene, ha tenuto corrispondenza con l’arcinemico: lo Sforza di Milano. Vero è che lui nega, ma che vogliamo farci?

giuseppe verdi, anno verdiano, francesco maria piave, i due foscari, byronPersino il Doge, nelle sue stanze private, ammette a se stesso di non poterci fare nulla: tutto sembra condannare Jacopo, e il tribunale ha deciso. Come padre lamenta il tutto, ma come Doge deve sostenere con imparzialità la giustizia.

Di tutt’altra opinione è Lucrezia, che irrompe al grido di:

L’amato sposo rendimi,
Barbaro genitor!

Al che il povero Doge risponde quel che ha già cantato a noi: un conto è quel che pensa il padre, e un conto quel che deve fare il Doge. Il vecchio Francesco vorrebbe tanto credere all’innocenza di Jacopo, ma che può fare di fronte alle lettere che lo incriminano? Perdonare, incalza Lucrezia – e tanto più che si è trattato solo di un’imprudenza commessa al fine di rivedere Venezia…

Il Doge rifiuta ancora, ma piange – ciò che induce la nuora alla speranza. Vuoi vedere che ce la caviamo? E su questa palliduccia alba, il sipario cala.

L’Atto Secondo ci porta alle prigioni, dove il povero Jacopo non si sente affatto bene. Torturato e febbricitante, delira per un po’, crede di vedersi davanti il fantasma minaccioso del defunto Carmagnola in cerca di vendetta, e sviene.

E qui apro una parentesi per un aneddoto: quest’opera l’ho vista una volta soltanto, all’Arcimboldi, un certo numero di anni fa. Il vecchio Foscari era Leo Nucci, il direttore d’orchestra era Muti. Chi fossero gli altri, francamente, l’ho dimenticato. Quel che non dimenticherò facilmente è che il tenore che interpretava Jacopo era troppo sferico per poter cantare altro che in piedi – o forse necessitava di un argano per essere rialzato da terra una volta che ci si fosse steso. Fatto sta che, al momento giusto, una comparsa entrò recando una sedia, in modo che Jacopo potesse “svenirci” sopra. A svenimento concluso, la comparsa ritornò, recuperò la sedia e la portò via. Eh…

Ma torniamo a noi giusto in tempo per vedere Lucrezia che entra nella cella e vede il marito svenuto. Il primo e non del tutto incomprensibile pensiero è che sia morto – ma siamo solo al principio dell’atto secondo, e Jacopo rinviene. Vero è che scambia la moglie per il defunto Carmagnola – ma sono dettagli. Quando è lucido a sufficienza scopre di doversene tornare in esilio e, mentre cerca di trovare qualche consolazione nella promessa di Lucrezia di seguirlo a Creta con i figlioletti, odonsi in lontananza delle voci festanti. giuseppe verdi, anno verdiano, francesco maria piave, i due foscari, byron

È il gondoliero
Che pel liquido sentiero
Provar debbe il suo valor,

spiega Lucrezia.

Jacopo sforna qualche maledizione – ma attenti, chi arriva avvolto in ampio e nero mantello? È il vecchio Francesco, venuto a consolare ed abbracciare un’ultima volta il figlio innocente. Ecco, Jacopo forse si sentirebbe più consolato se il padre non fosse così ansioso di andarsene – perché c’è un limite alla debolezza che il Doge può mostrare…

Ma a tagliar corto il congedo arriva Loredano, membro del Consiglio dei Dieci e nemico giurato dei Foscari, con la notizia che la galea per Creta è ferma in attesa sul primo binario, che Lucrezia ha il più assoluto divieto di seguire il marito, e vogliamo darci una mossa, per favore?

Jacopo e Lucrezia tirano accidenti a Loredano e il Doge li ammonisce severamente: la giustizia di Venezia va rispettata e non ci piove. Loredano gongola – fade to: la sala del Consiglio dei Dieci.

Anche qui c’è un gran parlare della giustizia di Venezia, e una certa impazienza per la partenza di Jacopo che, apprendiamo qui, ha anche ucciso un uomo. Jacopo, portato al cospetto del Doge, si dichiara innocente una volta di più e supplica misericordia…

Segue uno di quei meravigliosi passaggi in ottonari a rima baciata – che vi riporto:

CORO:
Non s’inganna qui la legge,
qui giustizia tutto regge.

DOGE:
Il Consiglio ha giudicato;
parti, o figlio, rassegnato.
(S’alza, tutti lo imitano)

JACOPO:
Mai più dunque ti vedrò?

DOGE:
Forse in cielo, in terra no.

JACOPO:
Ah, che di’? Morir mi sento.

LOREDANO: (ai custodi che gli si pongono al fianco, e si avviano)
Da qui parta sul momento.

giuseppe verdi, anno verdiano, francesco maria piave, i due foscari, byronA interrompere la tempesta di ottonari arriva Lucrezia – irrompitrice di professione – con i due pargoletti al seguito. Suppliche, lacrime, abbracci e, a dirla tutta, persino qualche senatore della Giunta si commuove. Ma non i Dieci e di certo non Loredano. Jacopo viene trascinato via mentre ancora supplica il padre di badare ai figli* – orfanelli a tutti gli effetti pratici – ed è il turno di Lucrezia per svenire.

Sipario.

giuseppe verdi, anno verdiano, francesco maria piave, i due foscari, byronE l’Atto Terzo si apre nell’antica piazzetta di San Marco, in vista di un subisso di gondole che vanno e vengono per il canale, mentre il sole volge all’occaso. Per la cronaca, il sole che volge all’occaso era uno dei tanti e tanti cambiamenti che Verdi aveva chiesto al povero Piave, perché il tramonto del sole è così bello…

E suppongo che avesse in mente le luci, perché al tramonto non accenna nemmeno per sbaglio il coro, gaio, ridanciano e barcarolante fino al momento in cui arriva la giustizia del leon, nella forma del corteo armato che scorta il povero Jacopo alla galea. E allora il coro si zittisce e ritira in buon ordine…

Questo volgo ardir non ha,

commenta sprezzante Loredano. E, considerando come fa esercitare la giustizia, forse non dovrebbe stupirsene… Segue ancora un po’ di mesto congedo fra Lucrezia e il povero Jacopo, che comincia ad accarezzare pensieri luttuosi. Ma Loredano è proprio malvagio oltre ogni dire: nell’ansia del suo odio per i Foscari, sente persino l’esigenza di far tagliare corto l’addio tra i due poveri innamorati che non si vedranno mai più…

Eh. Diciamo che non tutti gli antagonisti verdiani con voce di basso sono pieni di sfumature e di tormenti.

Anyway, Jacopo parte e noi ci trasferiamo nella stanze del Doge, a vederlo tormentarsi. Perché il povero Francesco, dovete sapere, ha già perso quattro figli giovani, e al quinto, superstite e amatissimo, abbiamo visto quel che capita. Il povero padre è intento a maledire il suo dogado quando un senatore non ostile entra con la prova dell’innocenza di Jacopo – quantomeno in fatto di omicidio**. Il tradimento a quanto pare diventa all’improvviso secondario, perché Francesco esulta: il cielo pietoso ha voluto rendergli un figlio! 

O forse no, dopo tutto: Lucrezia arriva a puntino per annunciare che, appena salito sulla galea, Jacopo è morto – presumibilmente di crepacuore.

Basta? No, non basta: Francesco Foscari non la prende troppo bene, ma non ha nemmeno il tempo di abbandonarsi al suo dolore, perché i Dieci vogliono parlargli.

E sapete che cosa vogliono i Dieci, guidati dall’esecrabile Loredano? Nientemeno che l’abdicazione, perché hanno il dubbio che il povero Foscari, rammollito colpito dall’età e dalla morte del figlio, non sia più all’altezza meriti pace e riposo.

Foscari, che in precedenza per ben due volte aveva chiesto invano di abdicare, ed era stato costretto a giurare di morir Doge, rifiuta fieramente dapprima, poi accondiscende in feroce amarezza.

Ma mentre si spoglia dei simboli del potere, odonsi le campane di San Marco.

Ops. Si direbbe proprio che Venezia si sia data un nuovo Doge – senza nemmeno aspettare l’abdicazione del precedente…

È davvero troppo. Senza più figli, senza trono, umiliato e vilipeso, tra la commozione di tutti – tranne uno – Francesco Foscari si abbatte per terra morto.

Pagato ora sono,

esulta l’implacabile Loredano, in mezzo all’inorridito sconcerto generale.

Sipario.

E insomma ecco qui. Verdi era riuscito ad avere il soggetto che voleva, il libretto che voleva, aveva passato il setaccio della censura ed era soddisfatto della musica che aveva composto. Gli piacevano proprio, questi Due Foscari…

E a questo punto sarebbe bello dire che all’Argentina fu un successo, ma… no. I cantanti stonarono, le aspettative del pubblico erano astronomiche, in teatro non si lavorò così bene come si sarebbe potuto.

Se i Foscari non sono del tutto caduti poco è mancato.

Scriveva Verdi all’indomani della prima.

Il fatto si è che l’opera ha fatto mezzo fiasco.

Del che si dispiaceva molto. Poi le cose andarono meglio, e i Foscari, pur non raggiungendo mai la popolarità di un Ernani o di un Nabucco, restarono ragionevolmente apprezzati e rappresentati per tutto l’Ottocento. Poi sparirono un po’ dalle scene, con l’occasionale ripresa e qualche incisione – ad onta della molta predilezione di Verdi, e di tutta la sua puntigliosa preoccupazione per il libretto.

 

 

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* Per la cronaca, è qui che si parla della celebre illagrimata polvere destinata di li a poco a scendere all’avello.

** In realtà, lo Jacopo storico uccise davvero quell’Ermolao Donà – apparentemente in una rissa di strada. Una di quelle cose che va’ a sapere. In compenso aveva davvero corrisposto con il Visconti e, non bastandogli, col Gran Turco. Se poi fosse davvero un traditore o solo uno scervellato, è difficile a dirsi. Di sicuro, qualunque cosa avesse fatto, la pagò cara, con la tortura e la morte in carcere a Creta. Il Francesco storico, meno intransigente di quello letterario, tentò di proteggere il figlio e lo fece anche fuggire una volta, ma non bastò – e mal gliene incolse. Dopo un anno di braccio di ferro con i Dieci, che tra l’altro gli rimprovaravano la debolezza nei confronti del figlio, fu davvero esautorato, e morì pochi giorni dopo.

 

 

 

Mag 24, 2013 - Storia&storie    2 Comments

Il Tesoro Di Attila

Ogni tanto mi capita di lamentare la sconsolante prosaicità dell’immaginario mantovano. Niente folletti, niente fate, una misera manciatina di fantasmi…

Siamo gente quadrata, siamo.

Però ho scoperto di recente una storia notevole proprio nei pressi del mio villaggio. 

Allora, qua attorno, sperduta in mezzo alla campagna, trovavasi un tempo una specie di elevazione del terreno. Un’inesplicabile montagnuola. Un tumulo, se volete – non fosse che non c’è tumulato nessuno. Però, scavandoci attorno, si rinvenivano punte di freccia, monete, ferri di lancia, cocci ed altre archeominutaglie. 

tesoro di attila, forte d'attila, governolo, mauro calzolariE che potevano mai essere, questi relitti – quel che avevamo in luogo di rovine? Ebbene, dovete sapere che, secondo tradizione, a Governolo, nel 452, Papa Leone Magno avrebbe fermato Attila e i suoi Unni. E sì, lo so, non c’è nulla di certo, e né Paolo Diacono né Flavio Biondo possono considerarsi inappellabili, e ci sono altre ipotesi almeno altrettanto valide, e in tutta probabilità non lo sapremo mai – ma vi secca, per il momento, appendere la vostra incredulità? A noi di qui piace tanto dire che è successo nel nostro angolo di mondo, e di sicuro ci credevano fermamente i nostri avi nel Seicento, quando l’inesplicabile montagnuola cominciò ad apparire nelle mappe col nome di Forte d’Attila. attila, tesoro di attila, governolo, storie e leggende, mauro calzolari

Perché, è chiaro come il giorno, distruzione = Unni – e non ci piove.

Oddio, vero è che nulla di unnico è mai emerso, nemmeno per sbaglio, dal supposto forte. Medievalia, sì; romanitudini, anche; roba dell’Età del Ferro, in copia & abbondanza – ma gli Unni… E tuttavia il toponimo è rimasto e vige tutt’ora, e per di più si è portato dietro una storia.

State a sentire.

Nattila, tesoro di attila, storie e leggende, mauro calzolariarrasi dunque, che che una volta ogni secolo – o giù di lì – la gente dei paraggi ricevesse la visita di un misterioso sconosciuto dalla barba bianca, in abiti di foggia un nonnulla inconsueta. Costui arrivava a un’osteria, chiedeva del vino, si guardava attorno, poi chiamava da parte l’oste e gli chiedeva l’assistenza di due persone dabbene. Persone di coraggio e d’onestà. Ad essere saldi d’animo e di principi, c’era da diventare ricchi…

Erano pochi gli osti capaci di resistere alla prospettiva e così, sul far della mezzanotte, lo sconosciuto si ritrovava a condurre per i campi bui l’oste e un compagno – in genere qualche ragazzo sveglio del contado. E quale non era la sopresa dei due nel raggiungere il Forte d’Attila e trovarci, invece dell’inesplicabile montagnuola, un gran palazzo, che sembrava splendere nel buio per la dovizia di torce, candele e bracieri con cui era illuminato. attila, tesoro di attila, governolo, storie e leggende, mauro calzolari

Lo sconosciuto conduceva i nostri due per saloni parati a figure mai viste, scaloni di marmo e corridoi lunghissimi, fino a una gran sala sfavillante. Nel centro del pavimento c’era un enorme mucchio d’oro.

“Io sono il tesoriere di Attila,” rivelava allora lo sconosciuto. “Questi sono i tesori che il mio re ha razziato in queste terre e, una volta ogni cento anni, ho licenza di tornare qui per riparare ai miei peccati cercando di restituirne un po’ alle genti del luogo. Tutto quello che dovete fare è camminare lenti lenti intorno al tesoro per dodici volte. Compiuto il dodicesimo giro, e non un istante prima, potrete gettarvi sul mucchio – e tutto l’oro che riuscirete a coprire con il vostro corpo vi apparterrà.”

Pur un nonnulla scombussolati, l’oste e il garzoncello non se lo facevano ripetere e, tenendosi per le falde del vestito, cominciavano a camminare in cerchio. Un giro, due giri… Ciascuno dei due dubitava tra sé, cercando di tenere d’occhio il compagno.

Tre giri, quattro giri… E se questo bel tomo di tesoriere volsse turlupinarci? si domandava l’oste.

Cinque giri… Bisogna che badi a saltare bene, pensava il ragazzo. Se son bravo, sposo la mia Ninetta, e poi faccio la dote a mia sorella, e poi compro quel campicello verso Poletto, e poi una mucca – anzi, no: due mucche…

Sei giri… L’oste già s’immaginava padrone di mezzo paese. Purché non fosse tutto un imbroglio.

Sette giri… E a questo punto uno dei due – in genere il ragazzo – cedeva alla tentazione e, a titolo di assicurazione, tentava di mettersi in tasca una manciatella di quelle monete luccicanti.

E si sa come vanno queste cose. Nell’istante stesso in cui lo scervellato allungava la mano… puf! Le luci si spegnevano e tesoro, salone, palazzo e tutto sparivano nel nulla.

I due compagni si ritrovavano a sbattere gli occhi come due civette frastornate nel buio improvviso.

“Ah,” sospirava la voce disincarnata del tesoriere d’Attila. “Nemmeno questa volta ci sono riuscito. Dovrò riprovarci da qui a cent’anni – sperando di trovar gente più saggia di voi due!”

E questa è la leggenda, e mi domando se non l’avesse in mente almeno un po’ quel Giuseppe Bellini cui, intorno al 1845, un cugino che faceva il meccanico dentista rivelò d’aver trovato il tesoro di Attila. Forse no, dopo tutto – o almeno non ne aveva tratto le giuste conclusioni perché, insieme a un dipendente, si lasciò condurre per i campi di notte fino a un punto segnato con un chiodo in un albero. I tre, accompagnati da un misterioso forestiero, si misero a scavare finché dal terreno emerse una decina di verghe di metallo.

“Oro!” esclamò il cugino dentista. “L’oro di Attila!”

Con la sensazione di essere nel bel mezzo della leggenda, Bellini grattò un truciolo di metallo da una delle verghe e lo diede al cugino, per portarlo a saggiare. Poi nascosero tutto, e l’indomani si precipitarono da un orefice. L’orefice era del tutto in buona fede, ma il cugino dentista, invece di consegnarli il pezzettino di verga, lo sostituì con un frammento di un anello.

“Oro,” sentenziò l’orefice. E Bellini pagò sull’unghia al cugino cento bavare in cambio delle verghe – convinto di aver concluso l’affare della sua vita, e senza domandarsi perché al dentista fosse saltato per il capo di metterlo a parte dell’avventura, invece di tenere il tesoro per sé…

Inutile dire che il responso dell’orefice sulle verghe fu ben diverso: ottone e nient’altro che vilissimo ottone. Raggiunto e interrogato, il cugino dentista si dichiarò in buona fede e imbrogliato a sua volta dal forestiero. Dopodiché le verghe d’ottone scomparvero, il forestiero non si trovò più e, una quindicina d’anni dopo, i due cugini andarono a processo. Il dentista fu condannato per truffa – ma sono certa che Bellini dovette sentirsi non poco stupido, certo non meno del ragazzo che, nella leggenda, si rovinava per aver voluto afferrare il tesoro.

Quindi sì, qualche leggenda c’è. Ed essendo da queste parti la gente pratica che siamo, c’è stato chi ha pensato di metterla a frutto…

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E se vi pungesse vaghezza di saperne di più sugli strascichi leggendari e tradizionali del passaggio di Attila nel Mantovano, c’è questo bel librino recente di Mauro Calzolari: Papa Leone e Attila al Mincio, il percorso di una tradizione (Sometti, 2013).

 

 

Mag 1, 2013 - angurie, cinema, Storia&storie    Commenti disabilitati su L’Organista & Il Marinaio – Una Storia Degli Antipodi

L’Organista & Il Marinaio – Una Storia Degli Antipodi

Non so voi, ma personalmente ho sempre creduto che l’età eroica in cui cinema e teatri avevano il loro organo fosse terminata col tramonto dei film muti. Ebbene, scopro che non è affatto così.

O almeno, non dappertutto.

A quanto pare, all’inizio degli Anni Sessanta, strumenti e pratica sopravvivevano ancora. Le sale cinematografiche avevano organi di vario prestigio e varia potenza, e un organista residente che non accompagnava più i film, ma suonava durante gli intervalli, prima o dopo le proiezioni, oppure tra uno spettacolo e l’altro. Mi par di capire che la prassi variasse, ma gli organisti delle grandi sale erano artisti apprezzati e applauditi. billy budd, peter ustinov, prince edward theatre, sydney, noreen hennessy

E adesso arriva l’aneddoto antipodeo…

Dovete sapere che a Sydney c’era il Prince Edward Theatre, un elegante cinema/teatro da millecinquecento posti, costruito nel 1924 e tutto parato di velluto azzurro. Ci si proiettavano film e ci si tenevano spettacoli musicali dal vivo, c’erano paggi e usherettes in uniforme, e ragazze in abito da sera bianco che distrubuivano programmi agli spettatori nelle occasioni importanti, e posacenere d’argento massicio nel foyer, un organo teatrale Wurlitzer e un’organista titolare che era una star cittadina: Noreen Hennessy.

billy budd, peter ustinov, prince edward theatre, sydney, noreen hennessyNoreen era una signora vivace e un tantino svanita, che per tutta la sua carriera prestò servizio in improbabili abiti di chiffon, chiari e vaporosi come tante meringhe. Noreen non guardava quasi mai gli spettacoli. Verso la fine della proiezione andava a sedersi al suo organo Wurlitzer e, quando un occhio di bue segnalava che era giunto il suo momento, si alzava, s’inchinava al pubblico, annunciava “And my song for you tonight is…” si sedeva accomodandosi attorno le pieghe della meringa e poi suonava per la delizia generale. Una volta finito, raccoglieva gli applausi, sorrideva, faceva la riverenza e si ritirava fino all’intervallo successivo.

Ebbene, nel 1962 il Prince Edward ospitò la prima australiana del Billy Budd di Ustinov, con tanto di serata di gala e raccolta di fondi per non so quale causa benefica. Era una di quelle occasioni di cui si diceva: ragazze in bianco nel foyer, signore in abito da sera, uomini in abito scuro, la Sydney bene e la Sydney artistica raccolte nelle poltroncine di velluto azzurro… 

Ecco, poi sappiamo tutti come va a finire Billy Budd, giusto?

Va a finire in modo tale che, quando Noreen entrò di soppiatto a una decina di minuti dai titoli di coda, il pubblico era occupato a singhiozzare con gran gusto…

Oh, poveri agnellini – benedetti i loro cuori teneri! dovette dirsi Noreen. Adesso ci penso io a risollevare millecinquecento animi afflitti…

E senza preavviso, sulla scena che conclude tragicamente un film per nulla allegro, la signora in chiffon color giunchiglia attaccò – poiché di Marina si trattava – Anchors Aweigh!

Il pubblico sobbalzò al repentino cambio d’atmosfera, spalancò collettivamente millecinquecento paia di occhi lustri e poi si sciolse in un’altrettanto collettivo convulso di risate. Non so quanto fossero soddisfatti Ustinov, lo spirito aleggiante di Melville e la gente della Allied Artists, ma Noreen si ebbe una standing ovation più lunga della sua esibizione, e si ritirò inchinandosi ad ogni passo e sorridendo come un faro nella notte.

Ah, cos’è che non si può fare, con la giusta dose di nonsense? 

Apr 10, 2013 - Storia&storie    2 Comments

Almanacco Del Giorno Prima

Sono abbastanza vecchia per ricordare l’Almanacco del Giorno Dopo* e soprattutto quella rubrichina dell’Almanacco in cui si ricordava un anniversario storico dell’indomani…Traviata fin da piccina, se volete, ma a me l’Almanacco piaceva per due motivi: la musichetta e, appunto, quella rubrica che si chiamava Domani Avvenne.

Così, quando ho scoperto che digitando una data in Wikipedia si può ottenere un lungo elenco di anniversari storici, avvenimenti, battaglie, trattati, nascite e morti, la mia reazione è stata: Domani Avvenne!

E per qualche motivo, in qualche punto dell’ultimo anno, ho annotato nella mia agenda elettronica il link alla pagina Wiki del 9 aprile. E poi naturalmente me ne sono dimenticata, ma le agende elettroniche hanno questa maniera di spiattellarvi tra capo e collo questo genere di cose – visite dal dentista, anniversari di nozze, link da considerare per un post futuro…

E così, canterellando tra me la musichetta rilevante,  sono andata a vedere perché mai, tra tutti i giorni possibili, avessi annotato proprio il nove di aprile. In realtà un motivo c’è. Più di un motivo, perché il nove di aprile sembra essere una miniera di anniversari…

Oh, d’accordo: essendo il numero di giorni all’interno di un anno quel che è, la maggior parte dei giorni è una miniera di anniversari storici – ma per qualche motivo, il nove di aprile trabocca di anniversari che solleticano il mio interesse.

E allora, siccome è un genere di gioco che mi piace tanto, vi metto a parte.

537 Belisario, assediato in Roma, riceve finalmente i sospirati rinforzi, nella forma di 1600 arcieri a cavallo. Unni, per lo più – e non che i numeri siano ancora remotamente rassicuranti, ma Belisario è Belisario, e comincia immediatamente la campagna di micidiali sortite e contrattacchi che bloccheranno i Goti di Vitige là dove sono. Non è magnifico? Un generale barbaro che, con truppe barbare, difende Roma da barbari di altro colore… talk of crumbling empires.

1336 Nasce Timur. Timur Leng. Tamerlano. Che sì, lo confesso, a me interessa principalmente per via di Kit Marlowe, e delle tende bianche, rosse e nere, e dei cieli ardenti, e dei laghi di pece. E viene da chiedersi che cosa ne avrebbe pensato il conquistatore d’Asia da Smirne alla Cina, di questa tragedia fiammeggiante e grandiosa. Forse non si sarebbe divertito a vedersi ritrarre come un pastorello in partenza (in realtà era il figlio di un nobilotto di una tribù mongola turchizzata e islamizzata), e sarebbe inorridito più che un po’ davanti alla hybris miscredente del suo omologo letterario, ma credo che il vortice di battaglie, conquiste e trionfi gli sarebbe piaciuto.

1413 Enrico V è incoronato re d’Inghilterra. E ancora non lo sa di essere destinato ad avere Shakespeare come buona stampa nei secoli a venire. O for a Muse of fire! e We few, we happy few… eccetera eccetera.

1483 Muore Re Edoardo d’Inghilterra – il che magari non sarebbe poi così rilevante se, morendo, Edoardo non lasciasse una situazione terrificante. Figli bambini avuti da una moglie (Elizabeth Woodwille) impopolarissima di persona e per vincoli famigliari, incertezza generale e un fratello minore pericolosamente abile e popolare… Riccardo III, anyone

1492 Proprio mentre il mondo conosciuto è sul punto di allargarsi, muore Lorenzo de’ Medici, il Magnifico signore di Firenze – chi dice con la benedizione di Savonarola, chi dice con l’assoluzione negata. Oh, non saprei. Dato il tipo che era Savonarola, tendo a preferire la seconda ipotesi. Ci sono storici che la confutano furibondamente, ma dite la verità: quale versione funziona meglio da un punto di vista narrativo?

1585 Una spedizione organizzata da Sir Walter Rale(i)gh parte con destinazione Roanoke Island per fondare una colonia. Non finirà affatto bene. Tempeste, Spagnoli, Indiani, incompetenza, dissidi, malattie, fame e clima inclemente – tutto cospirerà a far naufragare la nuova colonia una prima volta in meno di un anno. Stremati, decimati e delusi, i coloni accetteranno un passaggio da Sir Francis Drake per tornarsene a casa. Andrà ancor peggio alla seconda ondata di coloni che, sbarcati a Roanoke nell’Ottantotto, spariranno nel nulla. Letteralmente. 

1626 Muore Francis Bacon. Giurista, diplomatico, forse spia, filosofo, scienziato, scrittore – e c’è chi insiste autore del canone shakespeariano. Anzi, a dire il vero Bacon è il capostipite dei cosiddetti Veri Autori… Che volete che vi dica? Dubito che questo notevolissimo personaggio abbia avuto il tempo materiale di scrivere tutte quelle tragedie, commedie, poemetti e sonetti e, anche senza quelli, vanta una carriera di tutto rispetto e notevole eclettismo.

1629 Nasce James Scott Duca di Monmouth, figlio illegittimo di Carlo II d’Inghilterra. Di sangue reale, protestante, coraggioso e pieno di fascino Stewart, Monmouth godrà di molte più simpatie di quante ne potesse sperare il suo acido e sospettoso zio Giacomo II. Abbastanza per essere sospettato più o meno automaticamente di tradimento e cospirazione alla prima occasione… E poi diventerà una self-fulfilling prophecy, e Monmouth ci proverà sul serio, sbarcando nel Dorset, sollevando il placido Ovest e marciando verso Londra… Non finirà bene affatto. Storia pittoresca e romanzata più volte. Così al volo mi vengono in mente il Martin Hyde di Masefield, il Micah Clarke di Doyle, il Captain Blood di Sabatini – e sono sicura di dimenticare qualcosa.

1742 Debutta a Dublino il Messiah di Haendel.

1757 Nasce Edward Pellew, futuro capitano di marina, e poi ammiraglio e poi Visconte di Exmouth. Eroe della guerra navale prima contro l’America rivoluzionaria, poi la Francia rivoluzionaria e napoleonica. Abbastanza significativo perché l’ex Impero, dall’Australia alla Jamaica, sia disseminato di isole e isolette che portano il suo nome. Probabilmente il modello per l’Horatio Hornblower di C.S. Forester, compare a centro palco o di straforo in una quantità di romanzi navali.

Ok, basta così. E ce ne sarebbero altri – perché davvero, il nove di aprile è una giornata notevole – ma basta così.

Ieri Avvenne. Che non suona affatto ossimorico come Domani Avvenne, ma fa nulla.

 

 

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* Sì, lo so, tecnicamente non occorre essere nati all’epoca della Quarta Crociata, perché è andato avanti fino ai primi anni Novanta, ma sono abbastanza vecchia, temo, per ricordarne i primi tempi, se non proprio gli inizi…

Apr 1, 2013 - Storia&storie    2 Comments

Diciannove Giorni Di Regno

La prima volta che mi sono imbattuta in Andrea Zeni è stato in una nota a pie’ di pagina in A Brief History of Liars, Frauds and Forgers, favoloso librino di James McBass (che come autore è sempre una garanzia), comprato a Edimburgo una ventina d’anni fa, poi prestato e mai più rivisto – e adesso, alas, introvabile.

Per cui cito a memoria, quando dico che McBass descriveva Zeni come a slightly dizzy character, until you consider how he managed to hold for nineteen days the ducal throne of Courland, out of sheer brazenness, good looks and presence of mind.

E se anche non fossi stata incline ad incuriosirmi di uno stordito capace di regnare per diciannove giorni per nient’altro che faccia di bronzo, bell’aspetto e mente pronta, c’era sempre la Curlandia. Possibile che il Granducato di Curlandia, equivalente montanelliano e coronato della repubblica delle banane, esistesse davvero?

Be’, no – però era esistito. Il Ducato di Curlandia e Semigallia, con questo nome da operetta, era uno di quei posti che non sapevano troppo bene se essere tedeschi o polacchi (o magari lituani…), creato a metà Cinquecento dalla dissoluzone dell’ordine dei Fratres Militiae Christi, o Portaspada, e sopravvissuto per qualche secolo, riuscendo persino ad accaparrarsi delle colonie in Africa ed America, compresa Tobago, poi venduta agli Inglesi. Naturalmente non era nemmeno il genere di posto che potesse durare indefinitamente. Vassallo nominale della corona di Polonia, lungamente governato da una nobiltà di origine e lingua tedesca ed esposto a tutti i capricci della Russia e alle intemperanze dell’Unione Polacco-Lituana, all’inizio della guerra di successione polacca il Ducato si ritrovò tra più incudini e più martelli di quanti ne potesse desiderare. Nel 1795 l’ultimo duca di Curlandia, Peter von Biron, cedette con gran sollievo titolo e ducato alla zarina Anna di Russia, che ne fece un governatorato. Oggi è una regione della Lituania.

E come c’entrava in tutto questo lo stordito e bel Zeni dal nome così italiano? McBass non dava altri dettagli, limitandosi a citare una fonte in Polacco – poco agevole a leggersi, a parte tutto… E dovete considerare che stiamo parlando di un’epoca più ingenua e più semplice, in cui non si poteva pescare nel mare magnum di Internet.

O meglio, si sarebbe anche potuto, solo che io non lo facevo. E bisogna dire che non mi interessasse poi troppo, a parte la fuggevole curiosità, perché sono passati anni prima che una citazione casuale (e montanelliana) della Curlandia mi riportasse in mente la bizzarra nota a pie’ di pagna.

Ormai si era nell’età della rete, e quindi era possibile, con una buona dose di pazienza e le giuste reti, pescare Nineteen Days Wonder, di Anna Rybak – che è polacca ma scrive in Inglese, e quindi non giurerei che si tratti della fonte di McBass.

Ad ogni modo, dalla Rybak si scopre che Andrea Zeni era un attore italiano della commedia dell’arte, nato a Venezia o a Treviso, e provvisto di due notevoli talenti: una straordinaria facilità nell’apprendere le lingue (pare che ne parlasse sedici) e un’infinita capacità di mettersi nei guai. Il che probabilmente spiega come fosse arrivato fin lassù sgusciando come un’anguilla d’incidente in incidente, eludendo creditori e mariti, avendo ucciso due uomini in duello e rubato i gioielli di una contessa, ed essendosi spacciato per professore di retorica all’università di Tubinga. Variegata carriera – ma il bello deve ancora venire. Com’è come non è, il nostro fascinoso poliglotta era a Mitau (oggi Jelgava) a fine 1794, giusto in tempo per venire in contatto con quella parte della nobiltà curlandiana cui i pencolamenti filorussi del Duca Peter non andavano per nulla a genio.

L’idea di questi scontenti non era neppure tanto originale: deporre un duca e metterne sul trono un altro in Curlandia era quasi uno sport nazionale – ma chi scegliere?  L’ideale, si ripetevano l’un l’altro, sarebbe stato un conveniente burattino, tanto grato ai suoi fautori da lasciarli governare di fatto in forma di consiglio ducale – e di sangue debitamente tedesco. Peccato, nevvero, che von Biron non avesse avuto figli dalla sua prima moglie tedesca di Germania?  Ed è qui che la faccenda si fa magnificamente dissennata, perché all’improvviso il figlio tedesco saltò fuori: il diciassettenne principe Konstantin von Biron, che si supponeva nato morto, e invece era solo stato rimosso dal padre, ansioso di divorziare dalla moglie tedesca per acquisirne una russa.

E indovinate chi era il redivivo Konstantin? Ma nessun altri che Andrea Zeni – che all’epoca doveva avere passato i venticinque anni, ma era singolarmente bello e capace di passare per un ragazzino. Fatto sta che tutti i Tedeschi di Mitau ingollarono come tanti merluzzi la storia del falso principe, e quando Harald von Kettler (incidentalmente il nipote di un precedente duca deposto), proclamò Konstantin duca, l’esercito accettò l’idea con allarmante entusiasmo. A Peter von Biron non restò che riparare nella città costiera di Windau, pronto a fare vela per l’Impero Russo in caso le cose si mettessero male.

E per un po’ parve proprio che dovesse andare così. Il Duca Konstantin assunse il suo ruolo con uno zelo che Kettler e i suoi cospiratori non dovevano trovare rassicurante – ma che potevano fare? Andrea Zeni poteva anche essere stordito, ma aveva fatto presto a capire che non c’era nessuno che potesse sbugiardarlo senza rovinarsi a sua volta…

Nei suoi diciannove giorni di regno il supposto ragazzino organizzò la difesa della città, ordinò che si fondessero le campane per farne cannoni, ricevette (e presumibilmente ingannò) un inviato prussiano, si nominò comandante di un reggimento, avviò i negoziati per il suo fidanzamento con una principessa  polacca e fondò persino un ordine cavalleresco, il Ducale Ordine della Carpa. Faccia tosta, bell’aspetto e mente pronta, indeed!

Furono diciannove giorni intensi – ma Zeni aveva fatto male i suoi conti. Per prima cosa non c’erano solo i reggimenti di stanza a Mitau, e almeno una parte dell’esercito era rimasta fedele al Duca Peter. Forse un’azione energica avrebbe potuto risolvere la faccenda, ma Kettler e i suoi non erano più così sicuri di voler rischiare tanto per un avventuriero inaffidabile, e per di più dal lato russo cominciavano ad arrivare segnali di inequivocabile impazienza…

Kettler fuggì in Prussia (con un certo numero di sodali appiccicati come remore), e un altro cospiratore perse la testa abbastanza da accoltellare Zeni/Konstantin. Nulla di fatale, e forse nemmeno questo sarebbe stato sufficiente a cambiare le sorti della Curlandia, se l’accoltellatore non avesse strillato ai quattro venti che il principe Konstantin in realtà era un commediante italiano… Quando Peter von Biron marciò su Mitau alla testa di una piccola armata e affiancato da un generale russo, i rivoltosi, che in tutta probabilità cominciavano a sentirsi un po’ stupidi, si affrettarono ad aprirgli le porte della città e a consegnargli l’usurpatore e impostore.

Il coup era fallito, e alla fin fine Kettler e i suoi erano riusciti soltanto ad affrettare la cessione della Curlandia all’Impero Russo.

E Andrea Zeni? Questa è forse la cosa più singolare, dice Anna Rybak. Si sa che fu imprigionato nella deprimente fortezza di San Michele, e che per un po’ continuò a sostenere di essere Konstantin von Biron, sommergendo il suo supposto genitore di lettere in cui implorava la clemenza paterna per un figlio pentito, punito e morente… Era davvero così grave la ferita? Non si sa, perché quelle lettere bugiarde sono l’ultima traccia di Andrea Zeni.

Se fosse graziato, se morisse in prigione, se riuscisse in qualche modo a fuggire resta un mistero. Dopo avere ingannato – seppur soltanto per diciannove giorni – tutta la Curlandia e buona parte dell’Europa orientale, dalla Prussia a San Pietroburgo, Andrea Zeni scompare dalla storia senza lasciarne traccia – come se non fosse mai esistito. O come se si fosse mimetizzato sul fondo, a mò di sogliola…

Bizzarra storia, nevvero?

L’Uomo Che Voleva Essere Shakespeare III

E il venerdì, più puntuale delle rondini a primavera, torna William Henry Ireland. Lo ritroviamo in spasmodica attesa della prima di Vortigern and Rowena a Drury Lane. La sua tragedia shakespeariana. Immaginatevelo, questo ragazzino di ventuno anni, che col peso della più maiuscola frode letteraria dei suoi tempi sullo stomaco, si torce le dita in un misto di sovreccitata anticipazione, sogni di gloria e terror panico.

E in mezzo a tutto questo, due giorni prima del fatidico debutto, Malone fece scoppiare la sua bomba editoriale.

shakespeare, william henry ireland, edward malone, john kemble, richard sheridanEdward Malone era un altro bardolatra, un avvocato irlandese fiammeggiante e un pochino squadrellato a sua volta. In anni successivi lo si sarebbe scoperto colpevole di cose riprovevoli come furto e tagliuzzamento di documenti originali, ma nel 1796 aveva una considerevole reputazione – e la usò tutta per distruggere la collezione Ireland in quattrocentoventiquattro pagine di furibonda requisitoria illustrata con tavole fuori testo. Lo spelling dei supposti autografi, concionava Malone nel suo libro, non era elisabettiano; lo stile non era elisabettiano; una considerevole parte del lessico non era elisabettiana; le firme non somigliavano poi così tanto a quelle conosciute… tutto era falso, falso, spudoratamente e criminalmente falso.

Il libro fu un successo immediato, per cui immaginatevi che genere di pubblico riempisse platea e palchi del Drury Lane due giorni più tardi. Il teatro era pieno di giornalisti, curiosi e claques rivali: quella organizzata da Sheridan, quella voluta da Malone e varie altre a spese dell’uno o dell’altro giornale o fazione. E poi c’erano bardolatri di ogni colore, appassionati di teatro, fan di Kemble, partigiani degli Ireland e feroci maloniani… shakespeare, william henry ireland, edward malone, john kemble, richard sheridan

È quasi un miracolo che i due primi atti riuscissero ad andare bene – e ad essere persino applauditi – in questa atmosfera incandescente. William Henry, nascosto nei camerini col cuore in gola, cominciava a sperare che dopo tutto, dopo tutto… e poi entrò in scena un attore giù di voce e lievemente buffo – e fu il disastro. Parte del pubblico non aveva aspettato altro: cominciarono gli sghignazzi, i lanci di bucce d’arancia, le contestazioni, gli insulti – e intanto gli attori s’innervosivano viepiù. Persino Kemble fu fischiato, e quando l’attore che interpretava il malvagio rimase incastrato sotto il sipario, in platea si scatenò una vera e propria rissa.

All’epoca non era cosa tanto inconsueta o tanto grave da far sospendere una rappresentazione, ma di certo il Vortigern non ebbe repliche – e la pur pilotatissima reazione del pubblico, con l’inglorioso naufragio della tragedia ritrovata, era tutta acqua al mulino di Malone.

Era finita. Nei mesi successivi critiche, dubbi e scherno fioccarono su Samuel Ireland, che tutti consideravano responsabile della frode – se frode era. Oh sì, c’era ancora chi credeva al sonetto, alla professione di fede e al pagherò, ma il Vortigern era stato un duro colpo, e la credibilità shakespeariana di Samuel era irreparabilmente franata a valle. In tutto ciò, il vecchio incisore biasimava suo figlio – ma non per avere falsificato alcunché, bensì perché non voleva presentargli Mr. H., il misterioso proprietario dei documenti, che avrebbe potuto chiarire tutta la faccenda…

Come suol dirsi all’opera, O umana cecità sei pertinace. Samuel non volle mai rassegnarsi all’idea che i suoi autografi fossero falsi. E quando William Henry, sfinito dalla tensione e dalla vergogna, finì per confessare, il padre non gli credette. E non perché avesse fede nell’onestà di suo figlio, sapete, ma perché lo considerava troppo stupido per avere architettato – e meno ancora realizzato – un piano del genere.

È la beffa finale. È ciò che fa di William Henry Ireland un personaggio semitragico. È il motivo per cui questa storia sarebbe perfetta per un romanzo…

shakespeare, william henry ireland, edward malone, john kemble, richard sheridanWilliam se ne andò di casa per sposare una fanciulla dal passato interessante, che mantenne pubblicando romanzi gotici, le sue tragedie – e soprattutto, il suo più grande successo, un libro sulla sua incredibile frode. Inutile dire che suo padre era inorridito, non aveva la minima intenzione di essere scagionato in quel modo e anzi negava, negava e negava con ferocia che ci fosse alcunché di vero in quei deliri a stampa. Samuel Ireland morì nel 1800, convinto che la sua collezione shakespeariana fosse autentica e senza mai essersi riconciliato con quell’orribile ragazzo, quel figlio stupido e disonesto, la sua vergogna, la sua rovina, il più fatale errore della sua vita.

Depresso e diseredato, William seguitò a campare con i suoi romanzi gotici e le sue satire da poco, e un secondo libro sulla sua vicenda di falsario. Ma siccome anche allora vivere di scrittura non era soverchiamente confortevole, seguitò anche a integrare le entrate al modo che gli riusciva meglio: producendo falsi falsi autografi shakespeariani.

No, davvero.

Avete letto bene: falsi falsi autografi. Falsi dei suoi falsi. shakespeare, william henry ireland, edward malone, john kemble, richard sheridan

Perché vedete, immagino che Samuel si rigirasse nella tomba, ma se non era riuscito a diventare celebre scrivendo, William aveva fatto centro nel momento in cui aveva confessato di avere condotto per il naso accademici, principi, scrittori e primi ministri. Non solo le sue Confessions furono un secondo successone, ma i collezionisti cominciarono a offrire discrete somme per i suoi falsi. Molti collezionisti. Tanti che, una volta esauriti i pezzi della collezione paterna – e la domanda continuando inabbattuta, William non vide ragione di deludere tanti ammiratori e rinunciare a una fonte di reddito. E allora cominciò a produrre manoscritti originali del Vortigern, dell’Enrico e del sonetto di Anne come se piovesse.

Falsi falsi.

Cosicché è vero, quando nel 1821 l’incorreggibile William Henry annunciò di avere scoperto il testamento di Napoleone, l’Inghilterra si fece quattro risate. E quando qualche anno più tardi se ne uscì con il carteggio tra Giovanna d’Arco e il Delfino, nessuno finse nemmeno di crederci.

Epperò, quest’Inghilterra smaliziata continuava a comprare i falsi falsi, e mi domando – mi domando…

shakespeare, william henry ireland, edward malone, john kemble, richard sheridanMi domando se l’ex ragazzo stupido si aspettasse davvero di essere creduto con il suo falso Napoleone e la sua falsa Pulzella. Se non gli fosse solo parso il caso di ricordare all’Isoletta che lui era ancora lì, il pittoresco falsario confesso – e in tutta discrezione, qualcuno voleva per caso acquistare l’ultimo, ultimissimo falso shakespeariano che ancora gli restava tra le mani?

Oh, non saprei, ma dal ragazzino che marinava la scuola e si costruiva di nascosto armature di cartone e carta stagnola, potrei anche aspettarmelo. E mi piace figurarmelo così, William Henry, mentre il sipario si chiude: un po’ triste, al pensiero di quel padre che non era capace di credergli, ma con un accenno di sorriso beffardo e un po’ storto mentre fa marketing delle sue frodi e delle sue bugie.

See? Not so very stupid after all, am I?”

L’Uomo Che Voleva Essere Shakespeare II

Rieccoci qui, e riecco William Henry Ireland.

Lo avevamo lasciato – ricordate? – a mangiarsi le unghie in attesa degli esperti di cose shakespeariane che dovevano esaminare i suoi autografi del bardo.

Ebbene, i due studiosi arrivarono, esaminarono, cogitarono, mormorarono, interrogarono un tremebondo William, elucubrarono ancora un po’ e, alla fne, dichiararono i documenti autentici.

shakespeare,william henry irelandCon tutta la Londra bene, capitanata da gente come il principe di Galles, il primo ministro Pitt e James Boswell, che fioccava nel suo salotto per vedere le reliquie autenticate, Samuel Ireland era al settimo cielo. Ma chi aveva l’impressione di vivere in un sogno era William Henry.

Ce l’aveva fatta.

E se ce l’aveva fatta, perché fermarsi?

Il parto successivo fu un sonetto d’amore dedicato ad Anne Hathaway, poi vennero dei libri a stampa annotati a margine, e poi addirittura un manoscritto del Re Lear– ma non una copia fedele dal First Folio, oh no. Perché vedete, se Shakespeare aveva un difetto agli occhi dei suoi adoratori di epoca georgiana, era il suo humour di grana non proprio finissima. E così, nel copiare, il nostro giovanotto non seppe trattenersi dal purgare il tutto, anticipando in questo i celebri fratelli Bowdler. E non v’immaginate la gioia pubblica nello scoprire che dopo tutto il Cigno di Stradford era più fine dei suoi ribaldi curatori postumi… shakespeare,william henry ireland

Londra, con Samuel in testa, sembrava intenzionata a bere qualsiasi elaborata fandonia William preparasse. Doveva essere una sensazione inebriante per il ragazzo troppo stupido per ricevere un’istruzione, lo scrivano di ripiego, il figlio insoddisfacente. E se tutti avevano creduto al suo sonetto, se il suo Lear sanitizzato era piaciuto persino più dell’originale, che cosa gl’impediva di lanciarsi in qualcosa di più grosso ancora? Qualcosa di suo?

E fu il Vortigern.

shakespeare,william henry irelandUn inedito, capite? Vortigern e Rowena, per la precisione. Una tragedia storica tratta dal buon vecchio Holinshed, fonte d’ispirazione per tutti i tragediografi elisabettiani. Samuel Ireland, in brodo di giuggiole, montò una campagna pubblicitaria e vendette i diritti a nessun altro che Richard Sheridan, , perché rappresentasse la straordinaria trouvaille al Drury Lane, con l’astro delle scene, John Kemble, nel ruolo del protagonista.

Tutto sembrava predisposto per il trionfo segreto di William, vero? Peccato che Sheridan cominciasse presto ad avere dei dubbi. Peccato che una tragedia intera fosse tutt’altro che qualche sonetto e una manciata di versi cambiati. Peccato che Kemble annusasse il falso…

Le prove si trascinarono, e intanto la straordinaria fortuna di William cominciava a mostrare la corda. Procurarsi la carta antica e l’inchiostro finto-antico diventava difficile e sospetto, e ci fu un terribile pomeriggio in cui un amico, piombato nello studio legale a sorpresa, trovò William intento con tutto l’armamentario per la falsificazione, c’era il celebre avvocato bardolatra Edward Malone che cominciava a gettare dubbi sugli autografi, c’era l’occasionale articolista che si faceva beffe dell’approssimativo Inglese elisabettiano di William, c’era Samuel che voleva a tutti i costi conoscere il misterioso Mr. H…. e sapete che cosa era peggio di tutto? Dopo il primo moto di entusiasmo, Samuel aveva perso interesse per il ruolo di suo figlio nella faccenda. A lui interessavano gli autografi, e anzi, semmai era un po’ impaziente nei confronti di William, che non ne portava a casa con sufficiente regolarità.

shakespeare,william henry irelandCredo che a questo punto il nostro giovanotto cominciasse a sentire tutto il suo piano sfilacciarglisi tra le dita – ma che poteva fare? E poi c’era il Vortigern. William voleva convincersi che, una volta rappresentato con successo il Vortigern, tutto si sarebbe sistemato. Nessuno avrebbe più osato dubitare, e suo padre si sarebbe ritenuto soddisfatto. Sì, per fortuna c’era il Vortigern.

E consolandosi con l’idea della prima imminente, William Henry continuava a scrivere come un dannato. Non posso fare a meno di farmi qualche domanda sul suo principale. Che cosa credeva che facesse il suo scrivano, da solo tutto il giorno nello studio? Si sarà pur accorto che il lavoro legale non procedeva granché… Possibile che non avesse il minimo sentore della nuova frode shakespeariana che si consumava sotto il suo tetto? Un altro dramma storico, nientemeno: un Enrico II.

shakespeare,william henry ireland, john Kemble

E questa volta il nostro falsario aveva le idee un po’ più chiare, e il nuovo lavoro era più articolato, più complesso, più solido, senza le ingenuità e gli angoli tagliati del Vortigern. Era quasi un peccato non avere atteso un po’, non avere imparato un po’ meglio il mestiere prima di gettarsi in pasto ai teatri… Ma ormai era fatta. Nonostante i tentennamenti di Sheridan e il sarcasmo di Kemble, la prima era stata fissata per il 2 di aprile del 1796 – e William voleva esserne certo: il successo del Vortigern avrebbe travolto tutti e tutto.

Come andrà la prima del Vortigern? Come accoglierà il pubblico londinese l’inedito giovanile del bardo? Riuscirà il nostro eroe a trionfare ancora una volta?

Scopritelo nel prossimo episodio de… L’Uomo Che Voleva Essere Shakespeare!

L’Uomo Che Voleva Essere Shakespeare

Ma come è possibile che non abbia mai postato a proposito di William Henry Ireland – uno dei più pittoreschi personaggi del circo para-shakespeariano? Non solo un bardolatra ossessivo, ma anche il più straordinario–

Ma no, non anticipiamo e, per una volta, cominciamo dall’inizio.

shakespeare,william henry irelandWilliam Henry, nato a Londra nel 1775, era il figlio illegittimo di Samuel Ireland, antiquario, autore di guide turistiche e incisore di fama – che si occupò di lui e lo crebbe con più senso del dovere che calore. Il babbo avrebbe voluto farne un continuatore, ma William sembrava non avere talento per nulla: non studiava, non assorbiva nulla, non mostrava il minimo interesse per nessuna materia, marinava le lezioni…

“Troppo stupido per ricevere un’istruzione,” sentenziò uno dei vari presidi che lo rimandarono a casa come caso disperato.

Alla fine il padre si rassegnò all’idea di un figlio stupido, e supplicò un amico avvocato di assumerlo come garzone di studio.

E William, in tutto ciò? Be’, William in realtà un interesse ce l’aveva: il teatro. Non fa meraviglia che i suoi risultati scolastici fossero quelli che erano, visto che il ragazzo passava tutto il suo tempo a bighellonare da ingresso degli artisti a ingresso degli artisti (e non era come se a Londra ce ne fossero pochi…) e a costruire di nascosto teatrini in miniatura e armature di cartone. shakespeare,william henry ireland

Forse avrebbe passato la vita in anonima eccentricità se, nell’estate dei suoi diciassette anni, il suo distratto e deluso padre non se lo fosse trascinato dietro a Stratford, in cerca di documentazione e memento shakespeariani. Stiamo parlando del 1793, quando la bardolatria era un esantema abbastanza nuovo – e Samuel Ireland era un apripista. Ma non un apripista straordinariamente astuto: gli indigeni gli rifilarono senza difficoltà ogni genere di paccottiglia – non ultimo lo sgabello su cui il Cigno di Stratford si era seduto per corteggiare Anne Hathaway…

Il supposto stupido William se ne rese conto – anche se non subito – e non ebbe cuore di disilludere il padre, che nel frattempo aveva pubblicizzato le sue trouvailles a destra e a mancina, ed era soltanto deluso di non essere riuscito a trovare uno scritto autografo.

E fu qui che William ebbe il suo colpo di genio: perché non poteva procurarlo lui, un autografo shakespeariano? Dopotutto non sarebbe stato più fasullo dello sgabello che tutta Londra ammirava, giusto?

shakespeare,william henry irelandEr… forse no – ma a William pareva di sì. Dopo tutto era il figlio di un incisore e aveva ricevuto una formazione artistica, per non parlare della pazienza e manualità che aveva acquisito costruendo teatrini. E per di più, lavorava in uno studio legale che custodiva nei suoi archivi ogni genere di documento vecchio di secoli. La carta non era un problema, e l’inchiostro falso-antico non era affatto impossibile da trovare.

William lavorò e si esercitò e ben presto fu capace di falsificare un contratto tra Shakespeare e John Heminges. 

Samuel ci cascò in pieno e, per la prima volta in vita sua, cominciò a rivalutare quel figlio che aveva sempre considerato irreparabilmente stupido.

Grazie al falso contratto casa Ireland diventò un luogo felice – anche perché, sull’onda dell’entusiasmo e incoraggiato dalla nuova stima del padre, William non vedeva ragione di fermarsi, e cominciò a sfornare un falso dietro l’altro. Da dove saltavano fuori? Dalle carte di Mr. H., un anziano, anonimo e, ça va sans dire, del tutto fittizio gentiluomo. Nella sua gioia, il credulo Samuel ingollò beatamente Mr. H., un pagherò, una bozza di lettera, una professione di fede protestante…shakespeare,william henry ireland

O forse non così beatamente. Il giorno di Natale del 1794, quando William si era ormai convinto di avere scoperto la via della felicità, il padre fu colto da un improvviso sussulto di buon senso, e si dichiarò intenzionato a far esaminare i documenti.

Terrore e sgomento! Come poteva William sperare di superare l’esame di due esperti? E però, come poteva opporsi a un’idea tanto ragionevole? Era disastrosamente chiaro che, nel dar corso al suo colpo di genio, il giovanotto si era lasciato sfuggire qualche particolare…

E qui, abbiate pazienza, finisce la prima puntata.

Che ne sarà di William Henry e dei suoi documenti shakespeariani? Verrò smascherato? E come reagirà il padre ingannato?

Per saperlo, non perdete la prossima puntata de… L’Uomo Che Voleva Essere Shakespeare

(♫ accento di musica finto-elisabettiana)

 

 

 

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