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Il Ruolo Del Lettore Nel Futuro Dell’eBook – E Viceversa

ebook, enhanced ebooks, pottermore, e-reader, kindle, ipad, letturaSì, lo confesso: mi sono iscritta alla  versione beta di Pottermore. Ho fatto tardi la notte per essere nel primo milione di fortunati ammessi alla unique reading experience che J.K. Rowlings ha creato per i suoi lettori… la volevo proprio vedere, questa unique reding experience. Adesso che l’ho fatto, devo ammettere che sono un nonnulla delusa: la versione beta è bellina a vedersi ma desolatamente muta e, per quel che ho visto finora, non molto interattiva. Mi domando come debba apparire al pubblico molto più giovane di me per cui è calibrata. La cosa forse più interessante sono i commenti in cui l’autrice svela particolari della creazione dell’uno o dell’altro personaggio, luogo o particolare della trama*. Come dicevo, il tutto è bellino a vedersi: molte scene del libro sono ricreate in belle illustrazioni vagamente interattive, e l’interfaccia è, come ci si poteva aspettare, a tema in ogni minimo particolare. L’enfasi sembra essere concentrata sull’intento di “ricreare il mondo dei romanzi di HP.”

E questo, vi confesso, alla quinta o sesta reiterazione mi ha dato da pensare. Ma non era il mestiere del lettore quello di immaginare “il mondo del romanzo” sulla base del lavoro dell’autore – ed eventualmente qualche illustrazione?

Se c’è una descrizione del processo di lettura che mi piace più di altre, è quella che si trova più di una volta nel ciclo di Thursday Next di Jasper Forde. Valga per tutte la meravigliosa scena in First Amongst Sequels** in cui la protagonista, per ragioni troppo lunghe da spiegare, si ritrova all’interno di Pinocchio proprio mentre qualcuno lo legge. La scena è la bottega di Geppetto, descritta in grazioso e minuto dettaglio… ma ecco che il lettore si avvicina alla pagina in cui si trova Thursday: l’aria vibra e si riempie del profumo della segatura, i colori si fanno più vividi, la luce gioca sul filo delle lame, ogni singolo truciolo assume rilievo, in un crescendo che culmina con il passaggio del lettore per poi dissolversi. Perché quando non c’è l’immaginazione del lettore a dargli vita, “il mondo del libro” rimane piatto e vuoto.

E c’è di più: con questa enfasi sul ruolo del lettore e con il tema ricorrente di una ebook, ereader, kindle, ipad, editoria digitale, pottermoremalvagia cospirazione per imporre il sistema UltraWord 9.0, una specie di interfaccia destinato a sostituirsi in modo viepiù invasivo alla soggettività del lettore***, Fforde sembra avere preconizzato uno degli attuali dilemmi dell’editoria digitale: to enhance or not to enhance?

Sarà interessante vedere se e come, nei prossimi volumi della serie, Fforde integrerà gli sviluppi tecnologici che hanno raggiunto e superato le sue creazioni immaginarie – per esempio gli ebooks con colonna sonora di cui si parla in questi giorni un po’ dappertutto: qui trovate una descrizione della faccenda sul Corriere, qui un commento di scarsissimo entusiasmo e qui un vero e proprio rant di Harry Mount sul Daily Telegraph – e vale la pena di leggere anche i commenti.

Ora, il mio cuore di lettrice tende a schierarsi con Fforde e con Mount: a parte le possibili nefaste conseguenze sulla lettura in luogo pubblico, che ne sarà di questo passo della lettura come la conosciamo e intendiamo?

Qualche mese fa discutevo di e-readers con il professor Massimo Puliani, docente di Comunicazione Visiva Multimediale all’Accademia di Belle Arti di Macerata: il professore sosteneva la superiorità dell’iPad per le sue possibilità multimediali, io difendevo il Kindle come strumento di lettura. In realtà parlavamo di cose del tutto diverse, perché il Kindle è l’equivalente digitale di un libro cartaceo – e dunque di quella che chiameremo lettura tradizionale, mentre l’iPad è il supporto ideale per tutti quegli enhancements che fanno di un ebook qualcosa di molto diverso da un libro.

Ora, la domanda è: qual è lo scopo ultimo degli enhancements? Il professor Puliani parlava di potenzialità didattiche e di fruizione di risorse digitali; la gente di Pottermore propone esperienze complementari alla lettura – la possibilità di “entrare” in prima persona nel mondo del libro tramite una combinazione di gioco di ruolo e social networking; Booktrack, la società che ha prodotto i primi ebooks con colonna sonora, prefigura la possibilità di rendere la lettura più attraente per i cosiddetti “lettori deboli” – in particolare i giovanissimi.

Posso concordare con il professor Puliani per quel che riguarda libri di testo, saggistica, libri di viaggio, ma quando si parla di narrativa ho qualche dubbio. Una storia che ha bisogno di immagini, filmati e musica per produrre il suo effetto sul lettore è… be’, un film. O forse un audiovisivo, o magari un videogioco, o anche qualcosa di completamente diverso – ma di certo non è un romanzo. Non nel buon vecchio senso per cui posso leggere la scena dell’assalto alla prigione di Newgate in Barnaby Rudge e chiudere il libro con l’impressione di avere respirato il fumo delle torce…

La domanda successiva è quella posta da Booktracks: che ne è di tutta quella giovane gente cresciuta a film, anime e videogiochi? Vogliamo condannare intere generazioni a non conoscere mai un classico se non via Hollywood? E, per tornare ad argomenti già discussi, non è questo un potenziale mezzo per convincere i giovanissimi lettori che la letteratura non deve per forza essere noiosa? Ebbene, tutto ciò non è poi così dissennato. Ha davvero senso difendere il mos maiorum della lettura se questo deve significare che più nessuno legga? I tempi cambiano, cambiano le abitudini, le percezioni, i percorsi mentali, le soglie di attenzione. Ci si può chiedere se gli enhanced ebooks siano una risposta a questi cambiamenti o se servano a precipitarli più di quanto già non sia – ma è difficile negare il cambiamento stesso. O il fatto che la sopravvivenza sia per due terzi adattamento.

Così editoria e letteratura si adatteranno. Per ora gli enhancements riguardano qualche vecchio classico, ma sono certissima che si sta già lavorando a narrativa pensata apposta per questa nuova e, lo ripeto, radicalmente diversa forma di lettura.

ebook, enhanced ebook, booktrack, lettura, kindle, ipad, editoria digitaleÈ, badate bene, una diversità molto più radicale rispetto a quella costituita dal passaggio tra cartaceo ed e-reader. A parte tutte le discussioni sul profumo della carta stampata e sul piacere fisico derivante dalle rilegature rigide, la differenza tra leggere una cinquecentina e leggere sul Kindle è essenzialmente di mezzo. Ma tra il mio Kindle e un enhanced ebook si apre l’abisso che separa due processi mentali e due concetti di lettura del tutto differenti.

E si vede che vado invecchiando, perché non posso fare a meno di di restare appassionatamente legata al vecchio concetto di lettura – quella letteratura che, ancora secondo Jasper Fforde, [d]opo tutto, si può dire che […]richieda molta più creatività e immaginazione che scrivere; quando il lettore crea nella sua testa un’emozione, o i colori del cielo al tramonto, o il sentore della brezza estiva che gli soffia sul viso, dovrebbe apprezzare il proprio lavoro quanto quello dello scrittore – forse persino di più.

E voi che ne pensate?

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* In concetto, non vi ricorda il programma @author di Amazon Kindle?

** Non ancora tradotto in Italia. Marcos Y Marcos? Hint, hint, hint…

*** La serie è ambientata in un futuro un tantino distopico, oltre che nel Mondo dei Libri.

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Già che ci siamo, vi consiglio con calore l’opera di Jasper Fforde – un piccolo, brillante, spassoso, acuto, intelligente monumento alla lettura e ai libri, tributato in storie avvincenti, originali, piene di deliziose invenzioni, di nonsense e di idee:

 


Moviemaker ritrovato!

Sapete tutti del passaggio all’Innominatino-cum-Steno, ma forse non ho detto nulla del passaggio a Windows 7. Mi avevano detto che, giungendo come giungevo io da XP, sarebbe stato una tragedia di poco inferiore a quella di chi ha sbattuto il naso in Vista – invece, tutto sommato e nonostante XP mi piacesse molto, finora con Seven stiamo cautamente facendo amicizia, senza enormi scosse.

L’unico serio problema era Live Movie Maker.

Lasciatemi dire che adoro Movie Maker. L’ho usato in abbondanza per spettacoli, booktrailers, progetti didattici e video di varia e diversa natura e, per semplice e intuitivo che sia, ho sempre ottenuto risultati ragionevolmente soddisfacenti.

Live Movie Maker è meglio, mi si dice, e io parto speranzosa.

Sennonché non è meglio affatto. Sarà anche più semplice, ma non ho ancora cominciato a scoprire tutte le funzionalità che non ha più e già mi sento perduta…

Come faccio a trafficare, tagliare, allungare, mescolare e in generale editare le tracce audio? Come faccio a sovrapporre testo e immagini? Come faccio a controllare quel che faccio senza una linea temporale?…

Toi!

Ecco, se condividete la mia desolazione in proposito, se non avete già sperimentato tutto ciò quando siete passati a Vista, se per un motivo qualsiasi non lo sapevate già, lasciate che vi mostri cosa ho appena scoperto:

qui c’è modo di scaricarsi il buon, vecchio e caro Movie Maker 2.6 in una versione compatibile con Seven.  E avendo già provato, posso dire che funziona davvero. Hurrà!

Magari in un secondo momento passerò a Wax*, ma per adesso mi sento molto meglio.

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* Trovato mentre cercavo un’alternativa a LMM. Sembra molto ricco, ma anche diabolicamente complicato. Ne riparliamo quando avrò un po’ di tempo per studiare come funziona.

 

Giu 27, 2011 - Oggi Tecnica, tecnologia    3 Comments

Quattro Anni E Le Idee Chiare

Non è che il passaggio all’Innominatino stia andando proprio liscissimo… E’ successo un po’ di tutto, ma per farla breve diciamo che sono stata naufraga (as in senza rete e senza posta) fino a stamattina, quando è arrivato San G a riconnettermi al mondo.

Essendosi tempo di vacanze estive, San G. è arrivato con la sua adorabile famiglia al seguito e, mentre lui lavorava, io ho parlato con sua moglie, Santa A., e giocato a make-believe con il loro E., quattro anni e un’immaginazione illimitata.

Abbiamo giocato a lungo alla spedizione spaziale. La plafoniera del soffitto era la luna, e la scatola della tastiera un’astronave. Il gioco consisteva nell’allestire l’astronave per la partenza con foglietti ripiegati e nastrini colorati, chiuderla per bene e prendere il volo. E. arrivava fin dove poteva, poi subentravo io per portare l’astronave in orbita e poi… Oh-oh! Houston, abbiamo un problema. Il carburante non bastava: drammatico ammaraggio d’emergenza, recupero in mare – e via daccapo. Abbiamo ripetuto molte volte: ogni volta sembrava che andassimo più vicino alla luna, ma poi… oh-oh! diceva E.

A un certo punto ho deciso che ci voleva un successo: siamo arrivati sulla luna dopo molti tentativi, abbiamo festeggiato un pochino, ma E. ha perso subito interesse alla cosa allo spazio. Invece ha voluto che sua madre gli facesse delle barchette di carta con delle vecchie locandine, ha equipaggiato la sua flotta con i cavalieri di carta e abbiamo cominciato un’altra avventura piena di scontri, naufragi, abbordaggi e affondamenti.

E non ho più tentato di farla andare bene, perché E. aveva ragione, e che diamine! Dovrei saperlo: qual’è l’interesse di una storia, se tutto va bene? Il lieto fine va bene, appunto, per finire – ma prima di quello devono esserci innumerevoli tentativi e rovesci, devono esserci fallimenti e disastri, devono esserci conflitto e dramma… sennò che gioco è? Sennò che storia è?

Dovrei giocare più spesso a make believe – tutti gli scrittori dovrebbero, per toccare con mano la necessità quintessenziale del conflitto, dei guai e dei rovesci. Perché – il quattrenne E. me l’ha dimostrato nel più trasparente dei modi – una volta giunti felicemente sulla luna non c’è più nulla da fare, se non chiudere il libro e passare a un altro gioco.

Giu 25, 2011 - tecnologia    2 Comments

Il Congedo Dell’Iniquo Steno

O Lettori,

voi non mi conoscete se non per sentito dire. Sono l’Iniquo Steno, il computer della Clarina.

Lo sono ancora per poche ore, perché oggi, dopo sette anni di onorato servizio, vado in pensione. Questo pomeriggio attendiamo San G., il mio patrono, perché mi svuoti la memoria, mi stacchi e mi sostituisca con la macchina nuova, un arnese grosso la metà di me e varie volte più potente, che non ha ancora un nome.

Sia ben chiaro: io funziono ancora, ma non ce la faccio più. La Clarina mi ha portato con sé da una vita precedente, dove il mio problema più grosso era gestire un programma di contabilità in DOS. Il programma era scrittapposta, cosa di cui andavamo tutti orgogliosi, e funzionava benone – almeno fino all’introduzione dell’Euro, quando rimase sconvolto dal dover pensare in centesimi. Allora cominciarono i guai, le incomprensioni, i capricci, i dispetti, gli epici crash. Non era colpa del mio predecessore, e men che meno del sottoscritto, che ereditò il programma già fulminato – ma tant’è. Gli scrittori sono quel che tutti sappiamo e, dopo l’ennesimo crash, la Clarina pensò bene di darmi il nome di un malvagio d’opera.

Tuttavia me la cavavo. Poi venimmo via e da un giorno all’altro scoprii di essere il computer di una scrittrice, editor e traduttrice occasionale, con una tendenza incoercibile a trascorrere giornate intere su Internet, scaricarne treni merci di roba, tenere aperti programmi e finestre come se piovesse e pretendere da me l’equivalente tecnologico dell’ubiquità. Ma io ho solo 512 MB, che diamine! La Clarina non se n’è mai data per inteso, continuando a coprirmi d’improperi ogni volta che cedevo durante una delle sue sessioni di daring multitasking, e guardandosi bene dall’imparare a fare il backup come una persona sana di mente.

“Piantala di volere che faccia diciotto cose contemporaneamente,” diceva gente più saggia, al che la Clarina rispondeva di non voler smettere di fare multitasking perché il computer non glielo permette, e di avere invece bisogno di un computer che le permetta di fare tutto il multitasking che vuole. Così si procedeva saltellon saltelloni tra travasi di bile, deliquii periodici e infarti occasionali, e ogni tanto si convocava San G. al mio capezzale. Poi la settimana scorsa, in occasione dell’ultima visita, San G. è stato chiaro: c’è un limite a quello che la Clarina può pretendere da me. E così, di comune accordo, siamo giunti alla decisione di separarci. Lei ha comprato l’Innominatino (to’! sta a vedere che ho coniato un nome…) e io, visto che sono ancora tosto e funzionante, me ne vado a fare il computer di seconda mano in una scuola elementare. Sono certo che subire quotidianamente le inesperte attenzioni di un centinaio di piccoli informatici crescono sarà una vacanza in confronto alla vita che conduco qui.

Chi l’avrebbe mai detto? la Clarina è dispiaciuta – e un po’ lo sono anch’io. In fondo ci volevamo bene, ma che posso dire? Sono certo che lontani l’uno dall’altra vivremo entrambi vite più tranquille e felici.

E dunque, dopo avervi avvertiti, o Lettori, che nei prossimi giorni potrebbe prodursi qualche piccolo inconveniente su Senza Errori di Stumpa, mi congedo da voi con un inchino come se ne facevano nel Seicento, con tanto di scappellata e le piume che toccano terra. Perché sarò pure una macchina binaria, ma sono la macchina binaria di un’autrice di romanzi storici.

Sono e resto il vostro umile servitore,

L’Iniquo Steno

Giu 10, 2011 - Spigolando nella rete, tecnologia    Commenti disabilitati su C’è Un Giorno Per La Biro

C’è Un Giorno Per La Biro

Quando si parla di ricorrenze bizzarre…

Oggi, sull’altro lato della Tinozza, è Ballpoint Pen Day. Sissignori: il Giorno Della Biro.

Di primo acchito, viene da chiedersi perché l’America ritenga di dover festeggiare la penna a sfera con niente di meno che una giornata nazionale – ma in realtà, non vi è mai capitato, leggendo un tomo alto una spanna di una sorella Bronte, di Dickens, o di qualunque altro autore da inchiostro e calamaio, di rabbrividire all’idea delle penne da temperare, del grattare dei pennini, delle macchie e di tutto il resto? A me sì. Chi non ha sentito terrificanti storie famigliari di castighi scolastici inferti per avere fatto macchie sul quaderno? O di inchiostro rovesciato sul banco (inclinato) con effetto devastante? O di calamai riempiti di carta assorbente per dispetto o rappresaglia? Per non parlare degli scrittoi portatili, ingombranti, precari e potenzialmente disastrosi, con i loro calamai malchiusi…

E anche le stilografiche, ve le raccomando. Se il pennino non è eccellente, s’intasano, perdono, grattano e in generale mostrano tutto il temperamento di un regista d’opera. E anche quando il pennino è quello che dovrebbe essere, c’è sempre la necessità di riempire la penna – o cambiare la cartuccia – con una frequenza proporzionale alla quantità di scrittura praticata. Ammetto che la cartuccia semplifica le cose, ma quando si è distratti e si dimentica di potarsi la debita scorta, che si fa? In molti casi, si passa alla prima biro a portata di mano.

E in effetti, la penna a sfera nacque proprio nell’intento di superare gli inconvenienti congeniti della stilografica. Ci si provava fin dalla fine dell’Ottocento, a dire il vero, e il primo a brevettare l’idea era stato un conciatore di pelli che aveva progettato un arnese per segnare il cuoio con l’inchiostro grasso. Non entrò mai in produzione, così come tutti i successivi (e numerosi) tentativi di applicare il principio alla scrittura su carta.

penna a sfera,biro,bicA raggiungere una parvenza di funzionalità furono i fratelli Biro, il brillante, talentuoso e incostante Laszlo e il suo più posato fratello Georg. Laszlo, che aveva studiato medicina, arte e ipnotismo senza molto costrutto, nel 1935 dirigeva un piccolo giornale – e aveva la sensazione di passare più tempo a riempire la sua stilografica che a fare qualunque altra cosa. Perché non poteva esistere una penna che non avesse bisogno di essere riempita, che non macchiasse, che non strappasse la carta sottile dei giornali? Laszlo strologò, trafficò, sperimentò e se ne venne fuori con una cannuccia dotata di sferetta per distribuire sulla carta l’inchiostro – ma non quello liquido delle stilo, e nemmeno quello grasso delle rotative. E qui entrò in gioco il chimico Georg, deputato a ideare un inchiostro della giusta densità. I due fratelli avevano fatto passi avanti quando, durante una vacanza, incontrarono il presidente dell’Argentina e gli parlarono della loro nuova e miracolosa penna.

Augustìn Justo s’innamorò dell’idea, e invitò i due Biro in Argentina per aprire una fabbrica. Intanto la guerra incombeva: i nostri giovanotti raccolsero armi e bagagli, brevettarono la penna e migrarono a ovest. 

Forse non avevano considerato per bene: la prima produzione dei boligrafos Birome fu un disastro. La penna non scriveva affatto se non era tenuta in posizione scomodamente perpendicolare al suolo, era inutilizzabile sui piani di scrittura inclinati e tendeva a perdere (al caldo) o a intasarsi (al freddo). Ancora non c’eravamo. I Biro apportarono un fondamentale miglioramento – la sfera rugosa e porosa che permetteva di distribuire l’inchiostro per capillarità e non per gravità – ma la fiducia del mercato nella penna miracolosa era scemata. Gli unici a mostrare entusiasmo erano i piloti inglesi e americani, che scoprirono in Argentina la nuova meraviglia che scriveva anche in quota. Avete mai provato a portare una stilo carica in aereo? E allora capirete la gioia dei flyboys – quanto meno degli ufficiali di rotta.

Questa romantica associazione salvò i Biro dal tracollo, ma cominciavano ad averne abbastanza: finirono col vendere i loro diritti alla Faber. La Faber non ebbe molta fortuna, ma gli Stati Uniti si rivelarono più interessati dell’Argentina alla “penna dei piloti”. Progettisti e produttori saltarono fuori da tutte le parti, e un giorno, nell’ottobre del 1945, i grandi magazzini Gimbels di New York misero in vendita la “fantastica… miracolosa penna stilografica  che scrive per anni senza bisogno di essere riempita – garantita!” La folla si assiepò alle porte in attesa dell’apertura, e Gimbels esaurì in poche ore la sua scorta di 10000 penne – al tutt’altro che popolare prezzo di 12 dollari e cinquanta al pezzo.

In realtà, i problemi non erano ancora del tutto risolti. Oltre ad essere costosa, la penna a sfera non funzionava eccessivamente bene – e di certo non durava per anni. Le perdite d’inchiostro restavano il problema principale. Si scatenò una furiosa guerra commerciale a colpi di miglioramenti tecnici e pubblicità (uno spot aveva per protagonista Esther Williams che scriveva sott’acqua!*), ma di fatto la penna a sfera continuava ad essere un’eccentricità dal funzionamento erratico, e i prezzi precipitarono fino a 19 centesimi al pezzo.

E poi entrarono in scena due uomini di buon senso, audacia e idee.

Il primo fu Patrick Frawley, che si concentrò sullo sviluppo di un inchiostro antimacchia e una punta retraibile, creando la penna Papermate. Per lanciare un prodotto a cui tanti predecessori mediocri sembravano avere scavato la fossa, Frawley ideò una campagna davvero surreale – battezzata Project Normandy: i suoi giovani e spudorati rappresentanti irrompevano armati di Papermate negli uffici dei grandi magazzini, dei grossisti e delle catene di cartolerie, e procedevano a scarabocchiare le camicie dei funzionari. Poi si offrivano di pagare una camicia nuova (di qualità superiore) se gli scarabocchi non fossero scomparsi con il lavaggio. Ora, non so quanti rappresentanti rimediarono una denuncia o un occhio nero, ma l’inchiostro veniva via alla perfezione e, come immagino possa succedere solo in America, la campagna ebbe un successo strepitoso presso grossisti convinti, dettaglianti al seguito e divertitissimo pubblico.

L’altra persona sveglia fu il barone italo-francese Marcel Bich, che si rese conto di una cosa: per conquistare il mercato era necessario produrre a basso prezzo una penna di buona qualità da vendere per poco. Per prima cosa, Bich cercò i fratelli Biro e offrì loro dei diritti sul brevetto e poi, con la loro assistenza a distanza, studiò per due anni ogni modello di penna a sfera in commercio, catalogandone scientificamente magagne e pregi. Alla fine, emerse da tutto questo lavoro con l’Idea: una penna che scriveva bene e, invece che di metallo, era fatta di plastica stampata. Era nata la Bic, la penna trasparente col cappuccio che tutti abbiamo usato almeno una volta nella vita. Un oggettino di plastica usa e getta, che esiste solo nella sua funzione e, appena non scrive più, si butta via per sostituirlo con un altro identico.

Era il 1952, e da allora la penna a sfera è diventata uno strumento irrinunciabile, meravigliosamente pratico e tanto quotidiano che quasi non ci facciamo più caso. Se, in un mondo di tablets e programmi di scrittura, la biro abbia un futuro fuori dai musei è materia di speculazione**. Intanto può vantare un passato pittoresco, un giorno celebrativo, un movimento artistico un tantino eccentrico e quel genere di quieta onnipresenza** che segna il successo di un’invenzione.

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* Non so quanto sia vera, ma circola questa storia: qualche decennio più tardi, durante la corsa allo spazio, Americani e Russi incontrarono lo stesso problema – quello di uno strumento che scrivesse in assenza di gravità. Gli Americani investirono qualche milione di dollari nello sviluppo della biro spaziale, e i Russi dotarono gli astronauti di matite proviste di laccetto per impedire che galleggiassero via…

** E pareva che già qualche anno fa non promettesse molto bene, a giudicare da questo articolo di Repubblica…

*** Dagli astucci scolastici ai tavoli del G8, in apparenza: leggete questo comunicato stampa della BIC.

Apr 15, 2011 - memories, tecnologia    Commenti disabilitati su Elogio Del Temperamatite Rosso

Elogio Del Temperamatite Rosso

Il mio Temperamatite Rosso mi sta abbandonando.

Il mio Remperamatite Rosso è un arnese ereditario, arrivato dall’Austria almeno venticinque anni fa. Non è uno di quei parallepipedi di plastica o metallo con un buco e una lama, grandi come la falangetta del mio pollice. Il mio Temperamatite Rosso è grosso come un brick di panna da cucina, con una manovella, una piastra scorrevole anteriore che si estrae per regolare la temperatura, due orecchie metalliche per aprire e chiudere la molla che tiene ferma la matita, e un cassettino trasparente per i trucioli.

Il mio Temperamatite Rosso, Made in Germany, ha un nome che sembra quello di un’astronave: Dahle 122. Francamente, vista l’invereconda macchinosità del meccanismo, lo trovo appropriato.

Il mio Temperamatite Rosso, quando ero piccola, non avevo il permesso di usarlo – e non avete idea di come lo concupissi. Fa delle punte spettacolari, da farci harakiri, e lascia il legno della matita setoso e liscio. Una specie di santo graal della temperatura di matite. Però si considerava (o meglio: mio zio, proprietario originario del TR considerava) che non possedessi la manualità necessaria a calibrare grado di estrazione della piastra, inserimento della matita e quantità esatta di forza da applicare alla manovella. Mio zio era un ingegnere, enough said. E tuttavia, questa supposta Conoscenza In Astratto, questa sorta di Orecchio Professionale necessari per usare il Temperamatite Rosso lo rendevano ai miei occhi una specie di Stradivari dei temperamatite.

Crescendo non ho avuto il permesso di usare il Temperamatite Rosso: ho cominciato a usarlo di nascosto, ma sempre con una specie di reverente e colpevole delizia. Oh, come tagliava bene! Oh, che punte perfette! Oh, l’appagante sensazione di imparare per tentativi ed errori l’uso ideale della manovella! Oh, i deliziosi piccoli trucioli arricciati! A un certo punto ho ricevuto in regalo un temperamatite automatico giallo. Questo non ha maiuscole, noterete: era cilindrico, somigliava a un piccolo frullatore, pesava come un demonio, consumava pile con l’allegra incoscienza della corte di Maria Antonietta, faceva tanto rumore da far sobbalzare i gatti e rompeva più punte di quante ne appuntisse. Niente finesse, niente a che vedere – neppure da lontano.

Il mio Temperamatite Rosso divenne mio una dozzina d’anni fa, in un periodo non propriamente ideale – quando temperare le matite appena arrivata in ufficio nel gelo mattutino delle sette meno un quarto, era un rituale consolante come e più della seconda tazza di tè. Per segnare l’acquisizione attaccai al fianco del TR un’etichetta che riportava una citazione di Charlotte Bronte scritta rigorosamente a matita. E’ il punto di Shirley in cui Robert prepara le matite per Caroline:

“I suppose you like a fine one?”

“Such as you usually make for Hortense and me, not your own broad points.”

Ripensandoci ad anni di distanza, dev’essere lo scambio di dialogo più stupido di tutto il libro: se Robert prepara le matite usually, che bisogno ha Caroline di spiegargli come le vuole? Dialogo espositivo: orrore, orror! Ma allora ero ansiosa di brontizzare il mio Temperamatite Rosso. Me lo faceva sentire più mio.

Poi, quando lasciai l’ufficio, il TR migrò insieme a me, continuando a prestare servizio punta dopo punta, matita dopo matita, anno dopo anno.

Adesso il mio Temperamatite Rosso dà segni di stanchezza, e non mi ci so rassegnare. Probabilmente le lame sarebbero da affilare, ma dubito che sia possibile. E così, dopo un quarto di secolo, dovrò rassegnarmi all’idea di cercarmi un altro temperamatite. Forse potrei procurarmente un altro uguale, anche se non sarebbe facile: cercando un’immagine per illustrare questo post, scopro che si tratta di un temperamatite professionale, che il modello 122, entrato in produzione nel 1967, ormai è fuori commercio e gli esemplari rossi e neri si vendono su eBay come pezzi da collezione…

Quindi dopo tutto il mio Temperamatite Rosso è un esemplare da collezione di temperamatite professionale, e forse mio zio non aveva tutti i torti, a suo tempo… ma il punto è: se anche riuscissi a procurarmene un altro, non sarebbe più il mio TR, quello che ho concupito lungamente, usato di nascosto, brontizzato, portato a casa con me.

E in fondo è giusto, perché è l’irripetibilità a rendere unici e significativi persino i temperamatite. Ma adesso che Dahle 122 va in pensione, chi mi tempererà le matite così aguzze, e liscie, e perfette?

Gen 11, 2011 - tecnologia    4 Comments

iPod Malvagio E Reo!

Furore Tremendo!

Sì, lo so, oggi ho già postato, ma devo mettere qualcuno a parte del mio dramma. Vado per ricaricare il mio iPod Nano e iTunes sincronizza… Ops! 70 brani non possono essere passati sulla bestiola perché iTunes non li trova!

Come, prego?

Interrompo la sincronizzazione, la riavvio e iTunes mi informa di avere ritrovato sulla bestiola del materiale acquistato che non è presente sulla libreria: voglio trasferirlo? Se non voglio, posso considerare tutto perduto.

Voglio, naturalmente, e clicco il relativo pulsante – ma non serve a nulla: i settanta brani mancanti seguitano a mancare imperterriti.

Contenendo con uno sforzo il panico, cerco lumi nel supporto online di iTunes, solo per scoprire che a) il materiale di supporto non copre il mio problema; b) non c’è modo di contattare qualche forma di assistenza via email; c) i cosiddetti forum non sono per niente d’aiuto.

Faccio qualche ricerchina in rete su forum non ufficiali, e anche lì nisba. Ci sono compagni di sventura, ma le loro domande ricevono sempre lo stesso tipo di reazione: si vede che hai cancellato o spostato i brani in questione. E quando il meschino risponde che non ha fatto nulla del genere, si sente il rumore delle spalle scrollate e delle teste scosse.

E a questo punto, al panico subentra una certa qual furia…

Giuro: non ho cancellato né spostato nulla, molti dei brani spariti vivevano nella mia libreria iTunes da anni, e tutto era andato bene, sincronizzazione dopo sincronizzazione, fino alla settimana scorsa. Sì, ogni tanto capitava che il programma sostenesse di non trovare un brano, ma un brano singolo potrei averlo cancellato senza nemmeno accorgermene. Quindici cancellazioni inconsapevoli la settimana scorsa e settanta oggi, però, mi sembrano decisamente troppo persino per me…

Che cosa ne debbo dedurre? Che non solo non recupererò più il mio centinaio di brani perduti, ma che un po’ per volta, tutta la mia libreria iTunes scomparirà inghiottita nelle profondità siderali del cyberspazio? C’è qualcosa che posso fare per fermare la morìa? E, già che ci siamo, e visto che il mio non sembra essere un caso isolato, perché non c’è nessuna traccia di furia collettiva su Internet? Voglio dire: al minimo accenno di difetto, di magagna o di comportamento dubbio da parte di Amazon, per esempio, la rete è tutta un esplodere di virtuosa indignazione… o forse Apple pur non offrendo nessun tipo di soluzione a un problema oggettivo del suo software, gode di qualche forma d’impunità che a me sfugge?

Morale: un centinaio di brani sfumati nel nulla, pausa pranzo perduta, un diavolo per capello e nessuna soluzione. Come dicevo: furore tremendo!!

Words of wisdom, anyone?

Writing Software

Si era già parlato, tempo fa, di software di scrittura. Fermo restando tutto quello che avevo detto allora, volevo aggiungere qualche articolo alla lista – editor di testo, ma non solo:

WriterPad è un editor di testo a meno di 6 MB e mezzo, uno di quelli con poche distrazioni. Buono per le prime stesure, quando non ci si deve preoccupare di formattazione e stile, e si può voler stampare senza particolari problemi. Ha uno spellchecker, ma è in Inglese, per cui forse non è il caso di contarci troppo. Il punto di forza è la possibilità di strutturare il testo, creando capitoli, sottocapitoli, sezioni o che, e spostare qualsiasi elemento nello schema della struttura, con la certezza che il programma sposterà anche il testo relativo. Il peggior difetto mi sembra essere la mancanza di una funzione di backup automatico.

Storybook è tutta un’altra faccenda: non è un editor di testo, ma uno strumento organizzativo. Consente di creare e gestire linee narrative multiple, capitoli, scene, personaggi, posti e tempi – soprattutto tempi!. Una volta introdotti i dati, è possibile organizzarli e visionarli in modi diversi, mettendo a confronto i vari piani temporali, pescando subito chi è dove in ogni dato momento di una cronologia stabilita, facendosi un’idea di quanta luce della ribalta si è data ad ogni singolo personaggio ed altre meraviglie per la gioia di chi scrive trame complicate. Il tutto viene in una quindicina di lingue, compreso l’Italiano, e fa un backup istantaneo di tutto quello che viene introdotto. E tutto sommato, pesa solo 17 MB. Difetti? La versione che si scarica gratuitamente è illimitata nel tempo e provvista di quasi tutte le funzioni, ma ha l’irritante abitudine di richiedere una donazione alla società sviluppatrice ogni volta che si crea una nuova scena – cosa che non accade facendo una donazione di almeno 10 $. Il mio consiglio è di provare, vedere come ci si trova e se si è in grado di convivere con la questua. Semmai c’è sempre tempo per investire 10 Dollari. Oh, e “ufficialmente” non è compatibile con il MAC, whatever that means.

Dark Room (Windows) e Write Room (MAC OS) sono due versioni della stessa idea: schermo nero, il minimo delle funzioni, niente distrazioni – scrivere, scrivere, scrivere! Quello che un recensore del New York Times ha definito the ultimate spartan writing utopia, ma in realtà niente di molto diverso da Q10. Sempre roba da prima stesura, ovviamente. DR è gratis, mentre WR ha una demo gratis e poi costa 25 $.

EverNote, con un elefantino per logo, è un programma di archiviazione enormemente versatile, che consente di organizzare appunti, immagini, files audio, fotografie, pagine web e più o meno qualsiasi cosa tranne una tazza di caffè, attraverso più dispositivi se occorre. Sospetto che sia utile anche sotto altri aspetti, ma le possibilità durante la fase di documentazione di un romanzo sono pressoché infinite, anche on the go. Pensate a cose come Viaggio a Cartagine di Flaubert, e immaginatene una versione hi-tech…

The Literary Machine è qualcosa che sta a mezza strada tra tutti gli altri: è un editor di testo senza fronzoli, permette di organizzare appunti e files, di fare brainstorming e di strutturare la trama spostando automaticamente il testo. Non l’ho mai usato di persona, ma gente di cui mi fido me ne dice meraviglie, e in particolare canta le lodi di uno specifico aspetto: chi non ha mai desiderato di poter vedere versioni alternative della cosa che sta scrivendo ? E’ meglio che l’Ammiraglio incontri il Sultano appena giunto alla Fortezza, o è meglio che prima ci sia il dialogo con il Vizir? TLM consente di creare le versioni alternative senza l’orgia di copia&incolla.

E per finire, Text Block Writer è un grazioso programmino di index cards virtuali, buono per strutturare trame. Non so se l’abbiate mai fatto: si prendono quelle piccole schede di cartoncino che vanno nei mini-classificatori, su ognuna si scrive il sugo di una scena, poi ci si siede a un tavolo largo (oppure su un tappeto) e si sposta, si sperimenta, si gioca, si vede come va a finire… questo programma consente di farlo senza rischiare che coniugi, prole e genitori camminino sulla faticosamente elaborata trama del VI Volume, o se ne servano come base per mettere la conserva di pomodoro nei vasetti, o stacchino tutte le schedine perché vogliono giocare con la lavagna di sughero…

Ecco qui. Nulla di cui non si possa fare a meno, varie cose utili. Tutte demo di prova, versioni gratuite o freeware – salvo indicazioni differenti, e no: non percepisco percentuali su nulla. 🙂

Lug 10, 2010 - Spigolando nella rete, tecnologia    Commenti disabilitati su Simplicissimus

Simplicissimus

Qualche tempo fa mostro orgogliosamente a C. il Principe dei Regali di Natale, ovvero il mio beneamato Kindle.Tutti ormai conoscete la mia appassionata storia d’amore con l’Arnese il mio sfrenato entusiasmo nei confronti della tecnologia eInk, per cui capite che resto basita e incredula quando C. pulls a face. “Oh, ma si vedono solo così le pagine?” Io sollevo un sopracciglio, e gli chiedo che cosa vuole di più. Salta fuori che a C. hanno detto che sull’iPad si girano le pagine virtuali con il dito, che “è proprio come leggere un libro vero”.

Nonsense, naturalmente. Per divertente che sia girare le pagine virtuali sullo schermo dell’iPad, niente è come leggere un libro vero, a parte leggere un libro vero. La sensazione tattile della copertina, la consistenza e il profumo della carta, il rapporto peso-dimensioni sono del tutto diversi, e non sarà certo un po’ di fancy graphics a restituirli. I pregi dell’eReader sono altri, e non hanno nulla a che vedere con il ricreare l’esperienza di un libro cartaceo: se voglio avere l’impressione di leggere un libro cartaceo, prendo un libro cartaceo. Se voglio portermi portare dietro una biblioteca intera e non seminare diottrie/collezionare emicranie leggendo su schermo retroilluminato, allora è un altro discorso, e la scelta fra iPad e eReader si basa su altri fattori.

Ciò detto, volevo segnalare un sito chiamato Simplicissimus, che mi sembra davvero una buona piazza virtuale sull’argomento. Con Il futuro simplicissimus.pngdei libri – i libri del futuro per motto, Simplicissimus.it è varie cose: una miniera d’informazioni*, un negozio-libreria virtuale, un blog, una community, un e-editore, una fonte di ebooks in Italiano: ci si trovano articoli, segnalazioni, forum, supporto e servizi, dalla conversione di formati alla pubblicazione digitale… Tutto – tutto, o quanto meno un bel po’ – su eReaders e dintorni. Non ho idea di quanto sia recente la creazione, ma mi piace quello che fanno: c’era bisogno di qualcosa del genere in Italia e in Italiano.

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* Per esempio ho scoperto che a volte sono densa: c’è questa versione a fumetti di Kidnapped che giace nel mio hard-disk in formato .cbr, e solo stasera – grazie a un articolo scovato tramite il blog di Simplicissimus – che mi basta passarla attraverso CaLibre per convertirla in PDF! Ne riparleremo. Di Stevenson a fumetti, intendo.

Mar 24, 2010 - tecnologia    Commenti disabilitati su Disperazione Informatica

Disperazione Informatica

Buona notizia: c’è un sito nuovo in arrivo.

Cattiva notizia: credevo che fosse questione di un giorno o due, ma adesso non sono più sicurissima. Spiego. Sono informatically challenged, e non è una novità. Per cui, tra il momento in cui ho cominciato a lavorare al mio nuovo sito e questo pomeriggio è passata qualche settimana. Qualche settimana di esperimenti e tentativi, benché WordPress sia francamente facile da usare. Ho anche attivato un abbonamento di prova a una cosa chiamata Typekit, che doveva consentirmi di utilizzare dei fonts particolari sul mio bel sito nuovo, ed ero molto soddisfatta di me stessa.

Ieri pomeriggio ero giunta alla conclusione che il sito fosse pressoché pronto. Mi pareva sufficientemente completo, ero soddisfatta della combinazione di colori, mi pareva di avere fatto le cose come si deve. E quindi, “perché non provo a inserire il font nuovo?” mi sono detta. E l’ho fatto. Con qualche fatica, perché la cosa non è esattamente immediata, ma l’ho fatto. Sono o non sono bravina?

Peccato che, controllando l’opera mia, abbia scoperto che il carattere che avevo scelto appare minuscolo una volta nel sito. Una cosa da perderci due diottrie per paragrafo… Ho cercato di annullare le modifiche, ma apparentemente non c’è modo di farlo o, se c’è, poor little I.C. me non lo trova. Allora sono andata alla pagina di supporto di Typekit, e solo allora ho scoperto che quello della misura è un problema diffuso: tutti i fonts tendono ad essere piccoli una volta inseriti nei siti. Forse c’è un modo per ingrandirli, ma bisogna trafficare con l’html, e non ho trovato quello che mi serviva… 

Perché non ho guardato la pagina di supporto prima di inserire i fonts? Anzi, perché non ho lasciato il font che c’era, che dopo tutto andava benissimo? Alla fine ho spedito una richiesta di aiuto a Typekit, ma per ora non si vede cenno di risposta. Dovrò rifare tutto daccapo? Dovrò cambiare manualmente il testo pagina per pagina? Cosa che, tra l’altro, su WordPress è dissennatamente, irragionevolmente complicata…

Come dicevo sopra, Disperazione Informatica. Profonda, anche.

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