Accenti

A proposito – almeno in parte – del discorso di ieri, volevo segnalare questo favoloso sito dell’Università di Edimburgo (che, sia detto per inciso, si può pronunciare Edinbra, Edinbara o anche, se si vuole andare sul colloquiale, Embro-Embra).

Le varie pagine sono un po’ lente a caricarsi, ma vale la pena di ascoltare le incredibili varietà di pronuncia. Già solo la parola right, nella homepage, è un’esperienza istruttiva. Purtroppo la sezione dedicata all’Inglese shakespeariano (di cui in realtà sappiamo solo quello che si può dedurre dalle rime usate all’epoca in poesia) sembra essere ancora in fieri. Per chi è proprio curioso, qui c’è una piccola intervista in cui un attore dimostra la differenza tra Inglese standard e una ricostruzione (speculativa) della pronuncia elisabettiana.

Qui invece si possono sentire delle clip più estese, con la cadenza e l’accento in evidenza. Provate a confrontare RP (Received Pronounciation, quella che s’impara a Oxbridge, very upper-class), e Cockney (un Cockney sta a Londra come un Trasteverino sta a Roma). Ma, qualora doveste prenderci gusto, ci sono anche Scozia, Galles, varie parti degli Stati Uniti, India, Africa…

E infine qui trovate lo stesso paragrafo in Inglese letto in un’incredibile collezione di accenti stranieri. Per dire, ci sono 24 tipi diversi di accento italiano.

 

Feb 14, 2010 - musica    3 Comments

Les Misérables

Oggi cambiamo musical, pur restando sempre in ambito di ispirazione letteraria.

 

I Miserabili è stato tra le letture predilette della mia adolescenza (anche se devo confessare di avere saltato a pié pari la digressione sull’argot parigino, e di avere skimmed over quella sulle fognature…), e questo è stato il primo musical che ho visto a Londra. La seconda volta che l’ho visto, ero in compagnia di un’amica che, davanti al botteghino, essendo stanchissima, mi ha chiesto dubbiosamente: “Ma dura molto più di un’ora e mezza?” “Noooo,” ho mentito io, che volevo proprio rivederlo. E’ andata a finire che si è addormentata durante lo spettacolo, per risvegliarsi nella scena della battaglia, al suono della fucilata che uccide Gavroche. Ha dato uno strillo tale, che tutto il teatro è scoppiato a ridere nonostante il momento tragico!

Io fingevo di non esserci.

Feb 13, 2010 - Oggi Tecnica    Commenti disabilitati su Randy Ingermanson: Orgoglio e Pregiudizio

Randy Ingermanson: Orgoglio e Pregiudizio

Chi l’avrebbe detto? Anche Jane Austen ragionava in termini di tre atti e tre disastri… O, quanto meno, in O&P c’erano tre disastri e tre atti per gli sceneggiatori! Ecco l’analisi di Randy.

Trama e Struttura di Orgoglio e Pregiudizio

Il primo dell’anno, la mia famiglia e io abbiamo finalmente trovato l’occasione di guardare Orgoglio e Pregiudizio. Volevamo farlo da un po’, in realtà, ma capitava sempre qualcosa. Be’, ci è piaciuto un sacco. Il film è molto più breve della versione televisiva della BBC, che dura 5 ore, ma devo dire che sono entrambi eccellenti.

L’eroina di questo film è Elizabeth Bennet, interpretata da Keira Knightley. (So che cosa state pensando, e la risposta è no! Non ho una cotta per Keira Knightley, ed è un puro caso che abbiamo guardato due suoi film di fila. Keira è molto carina, lo ammetto, ma non è carina come mia moglie. Giuro).

Ora, Orgoglio e Pregiudizio non è uno di quei film tutti trama e azione: non ci sono duelli all’arma bianca o inseguimenti in macchina, e nemmeno un elicottero che esplode; solo un sacco di dialogo intelligente preso pari pari dalla grande Jane Austen. E’ un film incentrato sui personaggi, diciamo un film da ragazze. Ciò non toglie che abbia una trama ben definita, e che sia facile individuarne le linee principali usando la Struttura in Tre Disastri, che adesso vi mostrerò insieme alla Struttura in Tre Atti.

INIZIO: Siamo in Inghilterra, alla fine del XVIII Secolo, ed Elizabeth Bennet vive in campagna con i suoi genitori e quattro sorelle, tutte nubili come lei e in età da marito. Mr. Bennet è un gentiluomo non particolarmente ricco, e la volubile e ciarliera Mrs. Bennet vuole disperatamente trovare mariti ricchi e giovani per le sue figlie. Jane, la sorella maggiore, incontra Mr. Bingley, un giovane piacevole e ricco che si è trasferito in campagna da Londra, provvisto di un amico, l’acido Mr. Darcy, ancora più ricco, ma molto meno piacevole. Dapprincipio le cose sembrano mettersi bene per Jane e Mr. Bingley, ma poi…

 DISASTRO n° 1: Mr. Bingley parte bruscamente per Londra, abbandonando la povera Jane senza un motivo o una spiegazione.

MEZZO (I Parte): in conseguenza di questo disastro, prima Jane e poi Elizabeth si recano a Londra. Jane non riesce a incontrare Mr. Bingley, ma in compenso Elizabeth incontra Mr. Darcy, che le piace sempre meno, e a maggior ragione quando scopre che è stato lui a spingere Mr. Bingley ad abbandonare Jane.

DISASTRO n° 2: del tutto inaspettatamente, Mr. Darcy chiede a Elizabeth di sposarlo, confessandole di essere innamoratissimo, nonostante lei gli sia socialmente inferiore. Elizabeth rifiuta sdegnata.

MEZZO (Parte II): sconvolta, Elizabeth torna a casa, a vedersela con la sua bizzarra madre e le sue sorelle minori a caccia di marito. Dopo qualche tempo, parte per un viaggio con una coppia di zii, capita casualmente a visitare la magione avita di Mr.Darcy, mentre lui è assente, e scopre che i suoi servitori lo considerano un uomo generoso e gentile. Il viaggio di Elizabeth è bruscamente interrotto dalla notizia che la sua sorella minore è fuggita di casa con Mr. Wichkam, un ufficiale di scarsa moralità. La famiglia evita a stento uno scandalo quando qualcuno offre a Wickham una somma generosa, purché sposi la ragazza e se ne vada lontano con lei.

DISASTRO n° 3: Elizabeth scopre che è stato Mr. Darcy a pagare Wickham, salvando la sua famiglia dal disonore. Ora si trova in debito verso un uomo con cui credeva di avere rotto ogni rapporto.

FINALE: Mr. Bingley ritorna in campagna e torna a corteggiare Jane, con cui ben presto si fidanza. Nel frattempo Elizabeth ha cambiato opinione su Darcy, scoprendo che la sua maschera gelida nasconde in realtà il classico cuore d’oro e, quando lui le chiede nuovamente di sposarlo, accetta. Il film finisce con il bacio di rito.

Visto come, ancora una volta, i Disastri sono punti nel tempo, ciascuno dei quali effettua la transizione al successivo blocco di tempo?

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Blurb: Randy Ingermanson, romanziere pluripremiato, “Quello del Fiocco di Neve”, pubblica mensilmente The Advanced Fiction Writing E-zine per più di 19,000 lettori. Per imparare mestiere e marketing della narrativa, catturare l’occhio degli editor, e divertirsi facendo tutto ciò, visitate http://www.AdvancedFictionWriting.com.

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Bizantinerie

Siege_of_Constantinople.jpgSono sempre persa nella revisione del mio romanzo turco-bizantino, talmente persa che non sto scrivendo un bottone per il Premio Stagionalia, cui pure vorrei partecipare…

Hm.

Però poi succedono piccole cose felici come questa: nella prima stesura avevo fatto del Genovese di Pera che in realtà è una spia al servizio del Sultano un mercante d’olio. Non so di preciso perché, l’avevo fatto e basta. E oggi m’imbatto in un dettaglio tecnico che non conoscevo: gli artiglieri ottomani, per evitare che i loro enormi cannoni di bronzo fuso si spaccassero, dopo ogni sparo coprivano la canna di panni intrisi di olio caldo. Di conseguenza, l’esercito assediante consumava quantità stravaganti di olio, e lo comprava tutto a Pera (con grande scandalo dei Veneziani e dei Greci della Città). Morale, il mio mercante di olio cum spia ha una ragione per andare e venire dal campo turco, si rivela essere del tutto plausibile e mi permette di mostrare più di un particolare d’epoca in una scena sola.

Piccole soddisfazioni. Ed è vero: non mi costerebbe niente, se fosse invece un mercante di stoffe, cambiarlo in mercante d’olio per la bisogna. Però, quando si sta revisionando, cambiando, spostando, tagliando, aggiungendo, lucidando e tutto quanto, inciampare in qualcosa che non solo può restare com’è, ma è persino meglio del previsto, è come un cioccolatino inatteso.

Feb 11, 2010 - cinema e tv, grillopensante    Commenti disabilitati su Il più grande Italiano…

Il più grande Italiano…

A parte l’essere una consumatrice compulsiva di TG, non guardo molta televisione, e certo mai i giochi. Tuttavia, ieri sera ero a cena da amici, ed è così che mi è capitato di assistere a parte di una puntata di una trasmissione chiamata Il più grande, in cui un litigioso manipolo di personaggi televisivi e cronisti esteri finge di individuare, per eliminazioni progressive, il più grande Italiano di tutti i tempi.

Dico “finge”, perché mi rifiuto di credere che persone sane di mente eliminino spontaneamente e in buona fede gente come Michelangelo, Caravaggio e Dante da una lista in cui, a fianco di Totò e Anna Magnani, resiste baldamente (tenetevi forte…) Laura Pausini!!

Questo non ha nulla a che fare con il fatto che a me la Pausini non piaccia: il punto è che cosa ci facesse nella lista dei candidati, in primo luogo, quand’anche fosse la più grande cantante del creato universo! Comunque, non fingeremo neppure per un momento che ciò che accade in quella trasmissione sia spontaneo, a partire dal supposto televoto per finire con le baruffe pseudoletterarie tra Sgarbi e un obnoxious corrispondente tedesco di cui non ho afferrato il nome. Chiaramente si tratta di una serie di scelte autoriali, tese a giocare sul fascino della polemica, sui pregiudizi culturali della stampa estera e sul fattore-shock di certi accostamenti.

Quello che mi domando con qualche costernazione e non poco disgusto è quale immagine dell’Italia gli autori avessero in mente nel progettare questo programma della TV pubblica. Un’immagine rigorosamente politically correct, intanto, come si evince dal modo in cui tutti rifuggono con orrore dall’idea di bocciare Falcone e Borsellino. Poi un’immagine fatta di stereotipi, in base alla quale “Totò è Totò e non si tocca”, e la Magnani viene indicata come “modello per tutte le ragazze e donne italiane*”. Infine, un’immagine di fatua gaiezza, di pittoresca incuranza della nostra storia come del nostro futuro, di divertente ignoranza. E tutto ciò è ancora più inquietante perché i popoli fondano la loro idea di grandezza sui modelli a cui aspirano. Guardateci, dice l’Autore RAI a nome dell’Italiano Medio, noi siamo brava e allegra gente, non siamo pericolosi, siamo eterni bambini, simpatici, creativi e innocui, aspiriamo ad essere come Totò, come la Magnani, come la Pausinile nostre glorie letterarie, artistiche e scientifiche a mala pena le conosciamo, il nostro potenziale proprio non c’interessa. Lasciateci cantare, va’, che è meglio.

E adesso pensate alla corrente campagna pubblicitaria pro-canone, in cui varie celebrità della tivvù di stato visitano famigliole medie e felici, e abbonate, liete di pagare il canone, perché nella RAI si riconoscono… Ecco servita l’identità nazionale arrosto in salsa RAI, con contorno di 150° dell’Unità in agrodolce.

Qualcun altro ha la pelle d’oca?

E per finire, siccome una rapida indagine in rete mi ha rivelato che il format della trasmissione approda niente meno che dalla BBC, eccovi l’elenco dei 100 più grandi Britannici di tutti i tempi uscito dall’omologo programma inglese. Dopo avere accusato il colpo del n° 1 e, tutto sommato, dell’elenco nel suo insieme, mi sono un po’ sollevata il morale sghignazzando del n° 3, e ancora di più comparando le rispettive posizioni del n° 3 e del n° 5. Mica solo noi, dopo tutto… ma tutto considerato non è una gran consolazione.

ETA: Mi si dice che, alla fin fine, il “televoto” abbia ristabilito un qualche senso delle proporzioni, assegnando la vittoria finale a Leonardo, seguito da Verdi. A questo punto, direi che i casi sono due: o il risultato al televoto è genuino, e allora tutto sommato gli Italiani sono più assennati di come voglia dipingerli la RAI; oppure la faccenda è pilotata, e allora gli autori RAI sono astuti confezionatori di premesse controverse risolte in conclusioni consolanti, e io, con il mio rant, ci sono cascata appieno!

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* Si potrebbe voler trovare una lieve consolazione nel fatto che questa perla di saggezza sia stata partorita da una giornalista americana? Pur con tutta la simpatia che provo per gli Americani, il mio temperamento latino comincia a ribollire nel momento stesso in cui uno di loro comincia a parlarmi di pizze e di mandolini…

Feb 10, 2010 - Genius Loci    2 Comments

Finis Austriae: Joseph Roth e Vienna

Joseph Roth.pngFino alla metà degli Anni Settanta tutti credevano che Joseph Roth fosse il rampollo di un ufficiale austroungarico e che, a sua volta, avesse servito come ufficiale durante la I Guerra Mondiale, finendo prigioniero in Russia. E di conseguenza si credeva che libri come Fuga Senza Fine, La Marcia di Radetzky e La Cripta dei Cappuccini fossero largamente autobiografici. Queste informazioni si trovavano sulle quarte di copertina e nei lemmi d’enciclopedia, per un motivo molto semplice: Roth stesso le aveva fornite.

Peccato che non fosse vero.

In realtà, prima di diventare un giornalista celebre, un romanziere e un esule girovago, Joseph Roth era stato un figlio della piccola borghesia ebraica nella provincia galiziana, uno studente borsista e poi un sottufficiale nell’ufficio stampa dell’Esercito Austroungarico durante la guerra, senza vedere un singolo giorno di servizio al fronte.

Ecco uno scrittore che, invece di creare personaggi autobiografici, crea una biografia fittizia simile a quella dei suoi personaggi, in particolare di Franz Trotta, il protagonista de La Cripta dei Cappuccini*. Quello che è curioso, se vogliamo, è che la vicenda bugiarda di Franz diventa il simbolo di tutta una generazione di Viennesi, la generazione perduta, la generazione sconfitta: non quelli che muoiono in guerra, ma quelli che hanno l’ancor peggiore ventura di tornare, fantasmi di una Vienna finita. Anzi no: di un Impero finito. Aquila.png

Perché, diciamolo subito, Roth non concepisce l’Austria post-bellica, la piccola Austria che parla Tedesco, raccoglie stelle alpine e canta canzoni sentimentali. L’Austria, per Roth, è l’Impero; e di questo Impero Vienna è un po’ la madre e un po’ il parassita, una sorta di scrigno della grandezza imperiale (malinconicamente incarnato prima dal vecchio Francesco Giuseppe, poi dalla cripta dove riposano gli Asburgo), che governa, protegge, punisce e sfrutta le sue periferie con pari, inesorabile equanimità**.

Non è una Vienna allegra, quella di Roth, fatta di uffici ministeriali dove nulla mai compie e nulla si dimentica, di palazzi in rovina che diventano pensioni, di caffè dove i giovani di buona famiglia trascorrono le loro giornate, discutendo di come il senso dell’Impero sia più vivo in Ungheria e in Polonia che nelle città germanofone. Allo scoppiare della guerra, Franz e i suoi amici sono quasi sollevati: dal momento che il loro mondo sta già crollando senza che possano farci alcunché, dal momento che non vedono un futuro, una morte in guerra, una buona morte in nome delle ultime vestigia dell’Impero, è forse il meglio che possano inconsciamente augurarsi. La morte che incrocia mani di scheletro sopra le coppe da cui questi giovani bevono è l’immagine che ricorre in tutta la prima metà del romanzo.

Ma la guerra e la morte passano oltre, Franz sopravvive e, sfuggito alla prigionia in Russia, torna fortunosamente in una Vienna che stenta a riconoscere. Con la madre e con gli amici sopravvissuti, beffati come lui, ricomincia a celebrare, come in un’eterna liturgia funebre, i piccoli riti secondari dell’Impero che non c’è più: nessuno ha denaro, il vino e il caffè sono diventati pessimi, da Demel non servono più meravigliosi pasticcini dai colori di gioiello, e le candele di sego hanno sostituito quelle di cera, ma in fondo tutto questo è appropriato. Appropriato a una città che non ha più un Impero, né un Imperatore. Finito è il tempo in cui un cittadino austroungarico poteva viaggiare da Lwow a Trieste, a Praga a Sarajevo, ritrovando sempre simili le stazioni intonacate di giallo, i giocatori di domino nei caffè, lo spirito dell’Impero***. FranzJoseph.jpgPerduta è la crisalide dell’identità antica, al di sopra delle nazioni e delle lingue. Nella nuova Vienna, testa senza più corpo né corona, rimane solo la scelta tra correre con il nuovo mondo (come fa Elisabeth, la moglie separata di Franz), oppure lasciarsi morire un poco per volta insieme ai brandelli del vecchio. Per Franz e i suoi amici, gli sconfitti che un futuro non lo avevano mai preso in considerazione, la scelta è terribilmente facile.

Quando scrisse La Cripta dei Cappuccini, Roth era in esilio in Francia, sfuggito per tempo alle persecuzioni naziste, legato ad ambienti veteromonarchici che caldeggiavano un impossibile ritorno degli Asburgo su un fantomatico trono d’Austria. Scelta  stravagante e cavalleresca, omaggio di devozione ostinata e consapevole all’ideale tramontato.

Non stupisce – ma commuove – il finale del romanzo: è il marzo del 1938 e Franz siede al caffè, come sempre, quando giunge notizia dell’Anschluss, l’annessione dell’Austria da parte della Germania nazista. La novità provoca concitazione, e il caffè si svuota. Solo Franz indugia e, rimasto solo, se ne va, per le strade ventose e deserte, fino alla chiesa dei Cappuccini al Neuer Markt, per rendere, dalla porta che non gli è consentito di varcare, un ultimo omaggio al suo Imperatore e al vecchio mondo sconfitto. Gott erhalte! – Dio conservi! grida Franz, quando non c’è più nulla da conservare.

Roth sarebbe morto un anno dopo, esule e malato. Della sua Vienna oggi non rimane più molto, a meno di cercarla negli angoli più bui di Demel, o nella Cripta. Ma fuori di lì, alla luce del sole Vienna (insieme a tutta l’Austria) ha abbracciato un modello sentimental-turistico dell’Impero, fatto di figuranti vestite da Sissi, concerti di capodanno e feste da ballo****. Dell’Impero rimane solo questa pallida immagine di zucchero, crinoline e boschi tirolesi.Cripta.jpg

Joseph Roth, che si era costruito una biografia simbolica per meglio aderire a una Vienna ideale e sovrannazionale, non avrebbe apprezzato.

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* I Trotta, lo sappiamo da La Marcia di Radetzky, sono una famiglia di origine Slovena, il cui ramo principale è stato nobilitato in seguito a un salvataggio dell’allora giovane Francesco Giuseppe, in un episodio finito, con molti abbellimenti, sui libri di testo. Il romanzo ha il suo culmine in un desolato incontro tra il figlio del salvatore nobilitato e un ormai vecchio Francesco Giuseppe, che dei Trotta non ricorda più nulla, se non di dover essere loro grato.

** A noi, cresciuti a una dieta di Pellico e Mazzini, questo fa un po’ specie. Eppure, la percezione generale dell’Impero corrispondeva a un’entità soffocante e benevola in parti uguali, affetta da elefantiasi burocratica e tendenzialmente pervasa da un’identità sovrannazionale.

*** Questo spirito, in realtà, era ancora abbastanza vivo alla metà degli Anni Trenta perché mia nonna, cresciuta in un territorio che era stato alternativamente Italia e Slovenia, chiamasse il suo primogenito Francesco Giuseppe in onore dell’Imperatore.

**** Mi si dice che il Prefetto di Vienna partecipi in media a centocinquanta balli l’anno.

Feb 9, 2010 - cinema, guardando la storia    Commenti disabilitati su Storicamente Corretti

Storicamente Corretti

Abbiamo parlato, qui e qui, di letteratura e cinema; parliamo di storia e cinema, questa volta.

Qualche anno fa, in un saggio intitolato “Le troppe sviste di sir Scott”, lo storico militare e medievalista Marco Meschini (Cattolica di Milano), ha offerto un’analisi molto stimolante del modo in cui la storia finisce sugli schermi cinematografici, concentrandosi su Kingdom of Heaven, di Ridley Scott, una narrazione alquanto disinvolta dell’assedio di Gerusalemme, nel 1187.

Meschini, ammiratore confesso di Scott, parte dalle dichiarazioni contradditorie rilasciate dal regista e dallo sceneggiatore William Monahan a proposito dell’accuratezza storica del film. Si parte da un “i personaggi sono storicamente corretti”, per arrivare a un “talvolta abbiamo dovuto ritoccare la realtà a fini narrativi”, per culminare con uno spudorato “è successo 800 anni fa… voi c’eravate? Io no!”

Francamente, avrebbero fatto miglior figura se non avessero voluto rivendicare fette decrescenti di fedeltà ai fatti. Voglio dire, tutti sappiamo che la storia è storia e Hollywood è Hollywood, e non ci scandalizziamo troppo, nemmeno quando Baliano, in realtà signore di Ibelin e colonna del Regno Latino di Gerusalemme, ci viene contrabbandato come un povero maniscalco francese che scopre di essere figlio illegittimo di un gran signore e capitano crociato*. O meglio, non ci scandalizzeremmo troppo se il regista non ci avesse detto che i personaggi sono essenzialmente corretti.

In definitiva, fare film consiste nello strizzarci l’occhio, invitarci a sospendere l’incredulità e lasciare che ci godiamo le scene di battaglia, giusto? Ma no, Scott deve cercare di imbrogliarci, rimangiarsi via via le assicurazioni incaute e infine, in una dimostrazione palese di coda di paglia, tentar di fare dell’ironia sulla questione.

Col risultato che il film non è ancora iniziato e siamo già maldisposti, tutti i nostri neuroni sono in allerta massima da forze ostili e, invece di appassionarci alla storia, notiamo le incongruenze, gli anacronismi e gli svarioni. Come il fatto che questa gente se ne vada in giro in armatura completa per la maggior parte del tempo, o che carichi con la spada in pugno (anziché la lancia), o che si levi l’elmo nel bel mezzo della battaglia, o che, mentre galoppa, senta ordini gridati da qualcuno all’altro capo dello schieramento…

Tuttavia, Meschini sembrerebbe disposto a concedere queste licenze, seppur malvolentieri, in omaggio a quella concezione comune del Medioevo che un altro Scott, un paio di secoli fa, ci ha affibbiato, e da cui l’immaginario collettivo stenta a liberarsi. In fondo, dice Meschini, l’armatura prèt-à-porter, i Templari cattivissimi e la spada in pugno sono quello che il pubblico si aspetta: dargliene in abbondanza potrà non essere rigoroso, ma è… come dire? Finanziariamente solido. E poi queste bazzecole impallidiscono di fronte al vero e proprio crimine storico di Kingdom of Heaven: la disonestà intellettuale.

In sostanza, Scott ci presenta tutto il clero cattolico (vescovi, ordini militari e preti di villaggio alike) come una masnada di avidi casuisti intenta a mercanteggiare salvezza eterna contro infedeli uccisi. I Crociati sono, nella migliore delle ipotesi degl’idioti ingannati, in quella di mezzo dei fanatici, nella peggiore in combutta con il clero. Il nostro eroe (nobiluomo, ma ex maniscalco, e pertanto uomo del popolo), è una brava persona, ma è lucido perché ha perso la fede. Per contro, i Saraceni (salvo qualche sporadica eccezione) sono onorevoli e cavalleresche persone, prima di tutti Saladino, che onora i debiti, libera i prigionieri e, una volta entrato in Gerusalemme riconquistata, risolleva una croce che trova rovesciata.

Non male, eh? E tanto più perché Ridley Scott ha dimostrato ripetutamente di saper raccontare storie tutt’altro che manichee, tipo Blade Runner, o I Duellanti, solo per citarne un paio. E allora? E allora, forse, la chiave di lettura la dà un commento di Liam Neeson, secondo il quale contravvenire alla realtà storica non solo non è un reato penale, ma è anzi cosa buona e giusta al fine di far passare un messaggio.

Ah. Interessante.

Quindi, in sostanza, il concetto di narrazione storica di Ridley Scott e William Monahan si esemplifica così: il Saladino era un principe tollerante e amante della pace, con un esercito stanziale di 200000 uomini o giù di lì. Ora, non stiamo a spaccare il capello in quattro sul fatto che, stando a tutte le fonti, Saladino non avesse mai più di 35000 uomini su un singolo campo di battaglia. I numeri, dopo tutto, sono secondari. Peggio, molto peggio, è che si sorvoli sulla presenza dell’esercito stesso. Stiamo parlando, fa notare Meschini, di un’epoca in cui nessuno tiene un esercito in armi un giorno più di quanto sia necessario: se l’esercito c’è, è perché Saladino è in guerra. In Jihad, per la precisione.

E invece no: i Crociati sono malvagi e costituzionalmente assassini per una combinazione di avidità e fanatismo; i Saraceni sono brava gente, fiera ma tollerante, civile e amante della pace. E’ tutto ben chiaro? E se storicamente le cose erano un pochino diverse, un pochino meno nette, un pochino più complesse; se si sono stravolte le fonti e la realtà; se si è stati tendenziosi e intellettualmente disonesti, non ha la minima importanza. L’importante, intonano in coro Scott, Monahan, Neeson e Dabashi**, l’importante è il messaggio.

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* Wait a moment! Orlando Bloom che fa il povero maniscalco, figlio illegittimo di un capitano, in seguito promosso a uomo del destino… non vi pare di averla già sentita di recente, questa storia? 

** Hamid Dabashi, professore di studi iranici e letteratura comparata  alla Columbia University, esperto di cinema e storia postcoloniale dell’Islam sciita, consulente storico della produzione del film. Si vede che un medievalista non l’hanno trovato.

 

Feb 8, 2010 - libri, libri e libri    Commenti disabilitati su Chi ha paura di Virginia Woolf?

Chi ha paura di Virginia Woolf?

VW_-_Hogarth.jpgL’anno scorso Guanda ha pubblicato una traduzione di A Boy at the Hogarth Press, di Richard Kennedy, con il (goffo?) titolo Io Avevo Paura di Virginia Woolf*.

Goffo ma funzionale e, probabilmente, necessario per il pubblico italiano, non tenuto a sapere che la Hogarth Press era la casa editrice fondata nel 1917 da Leonard e Virginia Woolf.

Virginia non stava bene: nel ’13 aveva tentato il suicidio e negli anni successivi i suoi problemi mentali si erano ripresentati, più allarmanti che mai. I medici suggerivano una sana vita in campagna (che Virginia trovava deprimente) e un’occupazione che la assorbisse. Probabilmente avevano in mente qualcosa come le marmellate o il giardinaggio, e invece Leonard fondò una casa editrice piccola, raffinata e tremendamente snob.

Dieci anni più tardi, nel 1927, enter Richard Kennedy, sedicenne di discreta famiglia dal passato scolastico burrascoso, e dall’allarmante mancanza di qualsiasi inclinazione pratica. O almeno così ritiene il semi-disperato zio architetto che supplica Woolf di assumerlo come tuttofare alla Hogarth Press. Leonard accetta, ed avrà di che pentirsene.

Candido e svagato, Richard non è un granché come garzone: appende scaffali che crollano prontamente, è lento nell’impacchettare i libri, batte a macchina con due dita (e una grammatica abissale), corteggia indebitamente la graziosa segretaria, si lancia in osservazioni prive di tatto sui nipoti dei suoi datori di lavoro… La sua prodezza più epica è anche l’ultima: un colossale errore nell’ordine di carta per l’opera omnia di Virginia gli costa il licenziamento in tronco. “Il più spaventoso idiota che abbia mai avuto il privilegio d’incontrare in una lunga carriera di sopportatore di stupidi”, lo definisce un esasperato Leonard Woolf**.

Ma intanto Richard ha osservato, ha tenuto un diario, ha fatto degli schizzi, abbastanza per offrirci un ritratto del tutto inconsueto dei Woolf: Leonard, impaziente e petulante, capace di razionare la carta igienica o d’insegnare al suo garzone come si fuma la pipa; Virginia tirannica, irrequieta, maligna e affascinante; e attorno a loro tutta un’eccentrica e litigiosa clique di Bloomsbury.

Il risultato (a parte il fatto che Leonard dovette evidentemente riordinare tutta la carta) è un piccolo libro incantevole: non sarebbe bello se ogni grande della letteratura avesse avuto un Richard ad osservarlo e prendere appunti, in tutto candore e senza un’ombra di timore reverenziale?

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* Traduzione, molto gradevole, di Alba Bariffi.

** Never fear: Richard farà strada, studierà arte e diventerà un celebre illustratore. Si vede che così idiota non era, dopo tutto.

Feb 7, 2010 - musica    2 Comments

Chi per fuoco, chi per acqua…

Non è molto allegra, ma è bellissima…

 

Conoscevo una ragazza irlandese che, quando era giù di morale o moderatamente brilla, faceva una specie di gioco con questa canzone: per ogni tipo di morte bisognava a turno citare un personaggio storico o letterario pertinente: tipo who by fire… Giovanna d’Arco; who by water… Shelley; who in the sunshine… e questo era il tipo di punto in cui si accendevano dispute furibonde, perché di sicuro Riccardo III è morto in pieno giorno, ma chi può dire se sulla battaglia di Bosworth splendesse il sole?

 

Feb 6, 2010 - Oggi Tecnica    Commenti disabilitati su Randy Ingermanson: Pirati dei Caraibi

Randy Ingermanson: Pirati dei Caraibi

La parola a Randy, per un’analisi della Struttura in Tre Disastri di uno dei film più deliberatamente, spudoratamente (e spassosamente) non-storici che si possano immaginare.

La Struttura de La Maledizione della Prima Luna.

La sera dell’ultimo dell’anno sono stato alzato fino a mezzanotte con la mia famiglia per guardare La Maledizione della Prima Luna. L’eroina del film è Elizabeth Swann, interpretata da Keira Knightley.

E’ uno dei nostri film preferiti. Era stato progettato come un film avventuroso e romantico per ragazzi, con Orlando Bloom nella parte dell’innamorato di Elizabeth, Will Turner, ma poi, grazie all’ispirata recitazione di Johnny Depp, che ruba la scena nel ruolo dello squinternato capitano pirata Jack Sparrow, ha acquistato un aspetto addizionale: quello della commedia sopra le righe. Insomma, c’è qualcosa per tutti, in questo film, tranne chi va pazzo per le corse di camion – perché NON ci sono corse di camion!

In compenso c’è un sacco di azione, e la trama è piena di sorprese e imprevisti: c’è da perdersi nel seguirli tutti, ma è abbastanza facile individuare la storia principale usando la Struttura in Tre Disastri. Ecco la mia analisi, in cui metto in evidenza i tre Disastri in mezzo agli Atti della Struttura in Tre Atti.

INIZIO: Elizabeth Swann è la figlia del governatore di Port Royal, ed è appena stata chiesta in moglie da un uomo che non ama, un commodoro della flotta inglese, a cui preferisce Will Turner, un povero fabbro senza posizione sociale. Appena arrivato in città, il capitano pirata Jack Sparrow cerca di sfuggire all’impiccagione usando Elizabeth come scudo umano, ma finisce in prigione ugualmente, sempre condannato alla forca. Elizabeth è segretamente in possesso di un medaglione maledetto, che apparteneva in origine a Will Turner, e che induce l’ex equipaggio del Capitano Sparrow ad attaccare Port Royal.

DISASTRO n° 1: i pirati catturano Elizabeth con il suo medaglione, ma lei rivendica il diritto al “parley”, un incontro con il capitano pirata Barbosa.

Prima Parte del MEZZO: il Capitano Barbosa porta il medaglione (ed Elizabeth) su un’isola non segnata sulle carte, dove intende spezzare la maledizione che dieci anni prima ha trasformato lui e il suo equipaggio in altrettanti non-morti, condannati a non morire né vivere davvero. I pirati sono convinti che il sangue di Elizabeth metterà fine alla maledizione. Will Turner,  che è innamorato di Elizabeth e disposto a tutto per salvarla, si allea con Jack Sparrow per rubare una nave della Royal Navy, arruolare un equipaggio, e inseguire i pirati. Jack sa benissimo che Barbosa e i suoi intendono uccidere Elizabeth.

DISASTRO n° 2: Jack Sparrow e Will Turner liberano Elizabeth, ma Jack è lasciato alla vendetta dei pirati quando Will ed Elizabeth riescono a fuggire.

Seconda Parte del Mezzo: i pirati vogliono uccidere Jack, che però li persuade a inseguire Will ed Elizabeth e il loro equipaggio di vagabondi. Durante una battaglia navale, i pirati distruggono la nave inglese rubata e catturano l’equipaggio, abbandonando su un’isola Jack ed Elizabeth, quando scoprono che è lui a dover morire per spezzare la maledizione. Jack ed Elizabeth vengono salvati dal commodoro, che intende riportare a casa la ragazza (da cui aspetta ancora una risposta alla sua proposta di matrimonio), impiccare Jack e abbandonare Will al suo destino.

DISASTRO n° 3: Elizabeth persuade il commodoro a salvare Will Turner, promettendogli in cambio la sua mano.

FINALE: quando i pirati sono sul punto di assassinare Will Turner, Jack Sparrow li convince ad affrontare gl’Inglesi prima, mentre sono ancora non-morti (e quindi virtualmente imbattibili), e la maggior parte dell’equipaggio pirata ingaggia un feroce combattimento contro l’equipaggio del commodoro. Jack e Will, incaricati di occuparsi del Capitano Barbosa, spqzzano la maledizione. I pirati vengono catturati o uccisi, e tutti ritornano a Port Royal, dove Jack deve essere impiccato, ed Elizabeth sposerà il commodoro. Naturalmente non va a finire proprio così, e tutti vivono felici e contenti, tranne il commodoro.

Notate che i disastri sono tutti punti precisi nel tempo, e ciascuno di essi forza una transizione al successivo blocco di tempo.