Feb 5, 2010 - blog life, considerazioni sparse, grillopensante    Commenti disabilitati su Motori di Ricerca

Motori di Ricerca

Un po’ di numeri: qualcuno sensato, qualcuno… er, meno.

Se le statistiche di MyBlog sono attendibili, nel corso della giornata del I Febbraio, i lettori che sono arrivati a Senza Errori di Stumpa via motore di ricerca lo hanno fatto con queste parole chiave:

– Alla fine della storia io tocco

– Manfred von Richtofen storia

– Parallelepipedo

– Tecniche narrative

Per quello che riguarda Cyrano e il Barone, nulla da dire, se non che sono molto contenta che si arrivi dalle mie parti cercando di loro… Ed è evidente che aggiungere “storia” alla ricerca è d’aiuto. In entrambi i casi, chiedendo lumi a Google, SEdS è nella prima pagina. Fort bien.

“Tecniche narrative” ci trova in terza pagina, il che tutto sommato non è male, ma di fare assai meglio non dispero*.

Un po’ più sconcertante è scoprire che, digitando “parallelepipedo” nella search box di Google, SEdS e io spuntiamo a metà della sesta pagina, per via di questo post… Chiunque sia sbarcato qui cercando nozioni geometriche sarà rimasto un tantino deluso!

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* Scoperta effettuata in giorni successivi al 1° di Febbraio: per “Show, don’t tell”, SEdS è a metà della prima pagina… Così va bene.

 

Feb 4, 2010 - libri, libri e libri    Commenti disabilitati su Per Posta Aerea

Per Posta Aerea

9780313324376.jpgE’ o non è meraviglioso quando la posta arriva presto al mattino? Qui non sempre accade, ma a volte sì.

E ancora più meraviglioso è quando con la posta arriva un libro… Ah, la soddisfazione di firmare occhieggiando di sottecchi il pacco bianco, rosso e blu (posta aerea dagli Stati Uniti), mentre il postino fa dell’ironia sull’ennesimo libro… Scusi, è qui la biblioteca comunale? Sarà il Rautmann? O sarà il Cavallo? Il postino infila faticosamente la penna in qualche tasca di difficile accesso. O non sarà invece il romanzo che devo recensire per la HNR? Ma no, quello arriverebbe dall’Inghilterra… Non avrei fatto meglio a mettermi un giaccone per uscire in questo gelo?

Alla fine, quando ormai sono semicongelata, il benedetto postino cede il benedetto pacco, e via in casa a cercare le forbici per aprire il premio.

E dopo tutto è il Rautmann: Daily Life in the Byzantine Empire, un classico nel suo genere, edizione a copertina rigida, mosaici ravennati in copertina. Già solo a sfogliarlo pare una meraviglia. Speriamo che non sia troppo scarno di dettagli sul XV Secolo…

Mi sento quasi come il piccolo Stevenson che rincasa con il suo play sottobraccio. Bene, oggi non ci sono per nessuno.

Feb 3, 2010 - Genius Loci    Commenti disabilitati su Salotti e Teatri: la Parigi Gaia di Alexandre Dumas

Salotti e Teatri: la Parigi Gaia di Alexandre Dumas

cle-19-dumas2delpech.jpgAlexandre Dumas Père arriva a Parigi ventenne, carico di sogni di gloria e pretese d’eleganza. Ne ha abbastanza di fare il giovane di studio per un notaio di provincia, ha testa solo per i drammi e i giornali, e anela alle infinite possibilità della capitale. Nelle sue fluviali Memorie* il Nostro racconta della sua prima serata parigina a teatro, quando alcuni zerbinotti ebbero l’idea di farsi beffe del giovane provinciale.

“Signore, il mio nome è Alexandre Dumas Davy de la Pailleterie**,” comunicò altezzosamente il ragazzo al più rumoroso dei beffeggiatori. “Abito al numero 20 di Rue de la Quintaine, e domattina mi troverete in casa.”

Era la formula della sfida a duello, almeno stando ai romanzi d’appendice. Invece, i Parigini cominciarono a sghignazzare e spintonare, e quando l’offesissimo Alexandre reagì, si ritrovò messo alla porta come disturbatore, furibondo e con le penne alquanto arruffate.

Non vi ricorda l’arrivo a Parigi di qualcun altro? Ma proprio come il suo D’Artagnan, Dumas sarebbe stato presto vendicato dell’infelice accoglienza ricevuta. Nel giro di qualche anno, il piccolo provinciale sarebbe diventato il beniamino di tutta Parigi, dai garzoni di negozio alle duchesse.

margot2.jpgCome per Dickens (ma così diversamente da lui!) il successo passò per il teatro e i giornali: tra il 1829 e il 1832, tre drammi in costume e uno contemporaneo – e un tantino scandaloso – ne fecero l’astro delle scene parigine. Gli attori più celebri del tempo si litigavano i suoi ruoli, e le attrici si gettavano nel suo letto***: Dumas ne mantenne fino a tre per volta, e per comodità aveva adottato il sistema di alloggiarle tutte nello stesso quartiere in cui abitava anche sua madre, così da poterle visitare tutte in poco tempo, mentre trottava tra teatri, caffè, redazioni, ristoranti salotti bene e salotti letterari, dove frequentava la crema del romanticismo letterario francese.

Nel 1838, Dumas incontrò un professore di Liceo con velleità letterarie frustrate, di nome Maquet: fu l’inizio di uno dei più straordinari team letterari della storia. Basti pensare che il primo parto del matrimonio tra le ricerche storiche di Maquet e l’estro narrativo di Dumas fu il ciclo dei Moschettieri, pubblicato dapprima a puntate con un successo strepitoso. Ormai Dumas era consacrato come autore, e ricevuto dappertutto, compresi i salotti del duca d’Orleans e della principessa Mathilde Bonaparte. E’ proprio lì che ce lo descrive Edmond de Goncourt: “…enorme, sudato, sbuffante, eccessivamente gaio… parla dei suoi romanzi, del suo teatro… di un privilegio teatrale che non può ottenere, poi ancora di un ristorante che vuole aprire agli Champs Elysées. Un personaggio enorme, a misura d’uomo, ma con un’esuberanza infantile.”

Con la sua vitalità instancabile, i suoi romanzi storici, la sua passione politica e i suoi viaggi esotici, Dumas incarna alla perfezione il fermento scintillante della Parigi del XIX Secolo, dove la cultura si faceva nei salotti e nei caffè, dove un dramma storico a teatro era un avvenimento nella storia della letteratura.

petitchatelet.jpgE poi Dumas immortala Parigi, facendone lo sfondo di una buona metà dei suoi romanzi. Ma non aspettatevi denuncia sociale à la Dickens o à la Victor Hugo, non aspettatevi miseria e squallore, perché la Parigi dei romanzi di Dumas è pittoresca e colorata come uno sfondo teatrale, piena di giardini dove si duella o si amoreggia, di ponti per le imboscate, di palazzi illuminati da centinaia di candele, da taverne linde e allegre e, alla peggio, di torrioni medievali adibiti a prigioni. Persino gli omicidi più cruenti, persino le sollevazioni di piazza hanno l’alone romantico di una scena d’opera bene illuminata. A dire la verità, le Parigi di Dumas sono due: da un lato la sua città brillante che fa da sfondo ai lavori contemporanei, come il susseguirsi di foyer di teatro, alberghi eleganti e saloni nella porzione parigina dei Fratelli Còrsi; dall’altro, la Bastiglia di Ange Pitou, lo Chatelet di Ascanio, la Rue Tiquetonne dove alloggiava D’Artagnan, e tutta la parte medievale della città che all’epoca stava scomparendo per fare posto ai boulevards del barone Haussmann****. Entrambe irreali come altrettanti sfondi dipinti.

E Parigi, in cambio?

Oh, Parigi adorava Dumas per il suo successo. Operai e sartine compravano a puntate i suoi feuilletons, mentre borghesia e nobiltà riempivano scaffali interi dei suoi volumi, e tutti si affollavano a teatro per assistere ai suoi drammi. Tutti giudicavano le grand Alexandre brillante, divertente, generoso, ammiravano il suo spirito e lo avevano in gran simpatia, ma… Lui, Alexandre, avrebbe voluto di più: avrebbe voluto essere preso sul serio. Avrebbe voluto un ministero dopo la Rivoluzione di Luglio del 1830, nella quale si era esposto per il duca di Orléans, ma non lo ebbe; avrebbe voluto un seggio all’Académie Française, e non lo ebbe; avrebbe voluto un seggio in Parlamento, e non lo ebbe; non avrebbe disdegnato una moglie del bel mondo, e non la ebbe. Quando si veniva al sodo, Dumas era troppo chiassoso, troppo volubile, troppo inaffidabile: chi poteva dire quale sarebbe stata la sua prossima eccentricità? Vero, quando si trattava di rendere appetibile al pubblico la conquista dell’Algeria, era Dumas che il Governo mandava in crociera spesata sul posto per scriverci un romanzo o un dramma – ma un ministero? A quello scapigliato? Andiamo!! Ce n’est pas serieux!818.jpg

E così, Dumas seguitò per conto suo, fondando giornali che fallivano uno dopo l’altro, sfornando romanzi a dozzine, comprando teatri, mettendo in scena drammi, facendosi costrurire castelli improbabili, ammassando fortune e sperperandole tra amanti, figli illegittimi, amici, approfittatori, cause legali*****, spese folli, sempre generoso, sempre imprudente, sempre stravagante, sempre di corsa dietro un altro sogno più nuovo, più luccicante, più improbabile.

Gli uomini come lui muoiono in miseria, e così fu anche per Dumas. Almeno non morì solo: il figlio, l’altro Alexandre Dumas, lo accolse presso di sé, rovinato e malato, ed ebbe cura di lui fino alla fine.

“Sai, Alexandre,” disse il padre al figlio una sera, “mi hanno sempre detto che sono uno scialacquatore, ma io non credo. Guarda sulla mensola del camino: c’è un luigi d’oro. La stessa somma con cui arrivai a Parigi, tanti anni fa… lo vedi, che in tanti anni non ho scialacquato un solo centesimo? Il luigi è ancora lì…”

Haussmann.jpgDi lì a pochi giorni morì di apoplessia, lasciando incompiuti gli ultimi volumi delle sue memorie e un colossale dizionario gastronomico. Era il 1870, e Haussmann stava completando le sue ristrutturazioni: la Parigi di Dumas non gli sopravvisse granché.

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* Trentadue volumi trentadue. L’uomo non aveva misura in nulla, eh?

** In realtà il padre di Dumas, generale napoleonico, era figlio illegittimo del marchese de la Pailletterie e di una schiava di Santo Domingo, ma a quanto pare Alexandre non aveva eccessive remore a millantare il nome del nonno marchese.

*** A quanto pare, dopo la seconda, trionfale rappresentazione del suo dramma Christine, Dumas usciva dal teatro e si sentì chiamare da una carrozza. “Ehi, voi! Siete Alexandre Dumas, lo scrittore?” domandò una voce femminile. Alexandre rispose di sì e si avvicinò. “E allora, salite e baciatemi!” ordinò l’occupante della carrozza. Dumas non se lo fece ripetere. L’audace signorina era Marie Dorval, “la più tenera e patetica attrice di Parigi”, che di lì a pochi mesi sarebbe diventata l’amante di Dumas e la protagonista del suo dramma successivo.

**** Mi ha un po’ sconcertata scoprire che il barone Haussmann non era barone affatto. Millantava anche lui, benché non avesse la scusante di avere vent’anni o quella di essere un romanziere. Not good.

***** Nel 1857 Maquet fece causa a Dumas, rivendicando la co-paternità dei Moschettieri e di molti altri romanzi. La giurisprudenza sulla proprietà intellettuale era una disciplina giovane e incerta: la sentenza riconobbe a Maquet un sostanzioso indennizzo, ma non il diritto ad avere il suo nome accanto a quello di Dumas in veste di co-autore.

 

Kindle, Cinque Settimane Dopo

Ricevo questa email in cui mi si chiedono notizie del mio Kindle e, più precisamente, se è un acquisto che mi senta di consigliare. Ho pensato che un aggiornamentino sul fidanzamento tra me e l’Arnese potesse essere utile, per cui:

D: [M]i è capitato sotto il naso un e-book… purtroppo non ho avuto il tempo di fermarmi a guardarlo bene, perchè in effetti l’oggetto era un po’ sconcertante: come dimensioni sembrava tanto un palmare un po’ cresciuto, però era tutto bianco, al punto da non capire dove cominciava lo schermo.

R: Ok, bellissimo non è… Almeno non di suo. Direi che una copertina è assolutamente necessaria, sia per proteggerlo dai graffi e dagli urti, sia per attenuare l’impressione frigidaire, sia per maneggiarlo. Non ho mai provato davvero a usare il mio Kindle senza copertina di pelle, ma devo ammettere che, da come sono posizionati i tasti, sospetto che non sia comodissimo. La copertina risolve il problema. Quando ho comprato la mia, ho dovuto farla arrivare dagli USA, perché non c’era nulla del genere in commercio in Italia. Però adesso che il Kindle è in commercio anche qui, forse le cose sono migliorate.

D: Mah, tu come ti trovi?

Dopo cinque settimane di fidanzamento, sono ancora perfettamente felice. Ho constatato che la batteria, leggendo due o tre ore al giorno, dura un mesetto, e che Calibre consente di caricare praticamente qualsiasi cosa (alla peggio è necessario convertire il testo di partenza in PDF). L’unica cosa simile a un problema, per ora, resta l’impossibilità di organizzare l’elenco dei libri caricati. Tra l’altro, ho la sensazione che sposti i titoli secondo criteri che non ho ancora individuato… Questo potrebbe diventare una seria seccatura quando avrò caricato molti files.

D: E’ facile reperire poi i testi da inserire in memoria?

R: In Inglese si trova praticamente di tutto*, per le altre lingue non altrettanto, però direi che la situazione si sta evolvendo. Qui e qui ci sono due elenchi di siti da cui è possibile scaricare gratuitamente ebooks in Italiano, e poi c’è sempre il mio amato Progetto Manuzio. Per lo più si tratta di classici. Alcuni editori italiani** cominciano a muovere timidi passi in questa direzione, ma forse è presto per dire se il mercato italiano recepirà.

D: Una volta che hai inserito un libro lì dentro, che ne fai del cartaceo? O ci metti solo cose che ancora non hai letto?

R: Personalmente carico sul Kindle due tipi di testi: narrativa o saggistica che non ho ancora letto, e materiale di riferimento che voglio poter avere al seguito senza trascinarmi dietro quintali di carta, come dizionari specialistici, glossari, enciclopedie, cronologie e cose del genere. L’unico libro che ho caricato pur possedendolo in versione cartacea è Lord Jim, perché… be’, perché sì. A parte tutto, non ho nessuna intenzione di sostituire i miei adorati libri-veri-e-propri con il Kindle: è spazio per altri 1500 titoli, complementare, non alternativo.

D: E la memoria non si può cancellare o perdere in qualche modo?

R: Scampi e liberi! Però sospetto che possa accadere… per cui un po’ di backup non fa mai male. Quello che compri su Amazon rimane in memoria nel tuo account per i secoli eterni (anche se sembra esserci qualche controversia attorno al numero di volte in cui un testo può essere scaricato…), e il resto per ora lo tengo in memoria anche nel computer, per esempio per mezzo di Calibre. I miei sogni di fare spazio nell’hard disk si stanno rivelando un po’ velleitari, ma pazienza.

D: E se un giorno non funziona più?

R: L’Arnese ha una garanzia. Il mio ne ha una internazionale perché è stato acquistato negli USA, ma immagino che comprato in Italia venga con tanto di garanzia italiana. Se davvero sia riparabile, non lo so (e francamente spero di non doverlo nemmeno mai scoprire…). A giudicare da quel che si legge sui forum di Amazon, i guasti sono rari e, se avvengono sotto garanzia, l’apparecchio viene sostituito. Vale di nuovo il discorso di prima: meglio avere un backup dei propri files, così da poterli ripristinare in caso di guai.

In conclusione, acquistare o no? Direi che tutto dipende dall’uso che se ne vuole fare. L’e-reader (non solo il Kindle) è un aggeggio estremamente specializzato: serve a leggere, e questo è quanto. Se si legge tanto, se si viaggia spesso, se non si sa più dove mettere i libri, se si detesta leggere sullo schermo di un computer, allora direi che l’e-reader è una scelta molto sensata. Con una buona conoscenza dell’Inglese (o una seria intenzione d’impararlo), probabilmente, lo si sfrutta meglio e di più.

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* Un vantaggio (dal mio punto di vista impagabile) è quello di rendere accessibili molti, molti, molti libri introvabili: titoli fuori commercio che ora vengono ripubblicati soltanto in formato digitale.

** Piccoli come Bruno Editore o grandi come Mondadori…

Gen 31, 2010 - musica    Commenti disabilitati su Music of the Night

Music of the Night

D’accordo, il video ha un eightish feel molto pronunciato, ma fa lo stesso: la canzone è meravigliosa, e Michael Crawford e Sarah Brightman sono rispettivamente il Fantasma e la Christine originali, la gente per cui Lloyd-Webber ha scritto questa musica…

La notte affina e rende più potenti le sensazioni*,
L’oscurità risveglia ed eccita l’immaginazione,
I sensi abbandonano quietamente ogni resistenza.
Inutile resistere alle note che scrivo,
Perché io compongo la musica della notte.

Lenta e dolce, la notte dispiega il suo splendore:
Afferrala, sentila, tenera e tremante.
Sentire per credere,
La musica inganna:
Forte come il fulmine, tenue come la luce di una candela.
Osi affidarti alla musica della notte?

Chiudi gli occhi, perché gli occhi dicono solo il vero,
E il vero non è quello che vuoi vedere.
Nel buio è più facile fingere
Che le cose siano come dovrebbero essere…

Dolce, insinuante, la musica ti accarezza.
Ascolta, senti come s’impossessa di te in segreto:
Apri la tua mente, libera la tua fantasia,
In questa oscurità che sai di non poter combattere,
L’oscurità della musica della notte.

Chiudi gli occhi e inizia il tuo viaggio in un mondo nuovo e inaspettato,
Lascia ogni pensiero del tuo vecchio mondo.
Chiudi gli occhi e lascia che la musica ti liberi,
E solo allora potrai appartenermi.

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*Al solito, traduzione mia. Buona domenica a tutti.

Gen 30, 2010 - Oggi Tecnica    6 Comments

Randy Ingermanson: Trama e Struttura

Come promesso, ecco a voi Randy Ingermanson. Cominciamo con una serie di articoli sulla costruzione della trama, apparsi sulla sua Advanced Fiction Writing E-zine fra il gennaio e il febbraio 2006.

1) Trama e Struttura: la Visione d’Insieme

Costuire trame è facile per alcuni e difficile per altri. I miei amici scrittori mi dicono che sono un buon costruttore di trame, cosa che trovo ironica, perché costruire trame è una delle ultime cose che ho imparato a fare. Credo che ancora adesso non mi venga naturale, ma almeno ho imparato qualche metodo analitico da applicare alle idee. Questi metodi mi aiutano a definire “che cosa è veramente la mia trama”, e mi servono anche a individuare quando manca qualche elemento.

Lo strumento che vorrei discutere qui è quella che chiamo la “Struttura in Tre Disastri”. Non sono sicuro che questa sia una definizione standard – non sono nemmeno sicuro che l’idea sia standard – ma mi piace perché mi aiuta a dar forma ai miei romanzi a livello macro.

Probabilmente avete sentito parlare della “Struttura in Tre Atti”: l’ha inventata un tale chiamato Aristotele, ed è rimasta in voga per un certo tempo. Io l’ho imparata da James Scott Bell, coautore della rubrica di Narrativa per il Writer’s Digest.

La Struttura in Tre Atti divide la linea del tempo della nostra storia in tre parti di durata differente: l’Inizio, il Mezzo e il Finale. E quando dico che sono di durata differente, non sto scherzando: il Mezzo è lungo il doppio dell’Inizio e del Finale.

Quindi, se il nostro romanzo fosse una partita di football americano in quattro tempi, l’Inizio sarebbe il primo tempo, il Mezzo riunirebbe il secondo e il terzo tempo, e il Finale sarebbe il quarto tempo.

Fin qui è terminologia standard, ma come entra in tutto questo la Struttura in Tre Disastri?

Semplice: la Struttura in Tre Disastri dice che nella nostra storia abbiamo tre disastri principali, e che i tre disastri cadono a intervalli regolari. Quindi, il Disastro n° 1 arriva alla fine del primo tempo; il Disastro n° 2 è giusto a metà strada; il Disastro n° 3 capita alla fine del terzo tempo.

Matematicamente parlando, la Struttura in Tre Disastri è complementare alla Struttura in Tre Atti: gli Atti sono costituiti da blocchi temporali, e i Disastri sono punti nel tempo che segnano le transizioni tra i blocchi.

Dunque, il Disastro n° 1 arriva alla fine dell’Inizio, e costringe il nostro personaggio a prendere la decisione che lo introduce nel Mezzo.

Il Disastro n° 2 arriva a metà del Mezzo, ed è lì per evitare che il Mezzo si afflosci (cosa che gli editor dicono quando la storia comincia a perdere ritmo in qualche punto del secondo atto).

Il Disastro n° 3 cade alla fine del Mezzo, costringendo i nostri personaggi ad una decisione che li traghetta nel Finale.

Semplice, no? Nelle prossime parti, applicherò questo schema analitico ad alcuni film che ho visto di recente con la mia famiglia.

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Blurb: Randy Ingermanson, romanziere pluripremiato, “Quello del Fiocco di Neve”, pubblica mensilmente The Advanced Fiction Writing E-zine per più di 19,000 lettori. Per imparare mestiere e marketing della narrativa, catturare l’occhio degli editor, e divertirsi facendo tutto ciò, visitate http://www.AdvancedFictionWriting.com.

Scaricate gratuitamente un rapporto PDF sul metodo Tiger Marketing e il corso in 5 lezioni How To Publish A Novel.

Gen 27, 2010 - Genius Loci    3 Comments

Fumo e Nebbia: La Londra Scura di Charles Dickens

Dickens.jpgCharles Dickens, questa icona della britannicità, questo iper-londinese tra gli scrittori londinesi, non nasce affato a Londra. Invece ci arriva a dieci anni, strappato alla gaia e marittima Portsmouth, alla scuola che amava, alla confortevole certezza di essere figlio di un gentiluomo moderatamente agiato…

Immaginate di trovarvi all’improvviso in un quartiere poco meglio che squallido in una città che passa da uno a sei milioni di abitanti nel giro di un secolo… sudicia, buia, affollata, puzzolente, pericolosa, traversata da un fiume che era una cloaca a cielo aperto, perennemente avvolta in una cappa di fuliggine e fumo: ecco come doveva apparire Londra al piccolo Charles. Per di più, suo padre John era un impiegato amministrativo di basso rango, scarsamente assennato* e alquanto prolifico. Quando, a furia di coltivare velleità sociali irragionevoli, finì in prigione per debiti, toccò a Charles, il maggiore tra i figli maschi, lasciare la scuola e la famiglia** e, abitando a pensione, lavorare in una fabbrica di lucido da scarpe. Poi va detto che si trattò solo di qualche mese passato a incollare etichette sulle bottiglie. Ben presto, Dickens padre ereditò da una nonna una somma sufficiente a pagare i creditori, così la famigliola lasciò il carcere di Marshalsea e il piccolo Charles fu recuperato dalla fabbrica e rispedito a scuola. Fine dell’infanzia tragica: onestamente, credo che possiamo risparmiarci qualche lacrimuccia quando leggiamo delle traversie del piccolo David Copperfield.

A diciassette anni, il nostro ragazzino era giovane di studio presso un avvocato al Temple, dove si supponeva che svolgesse quella sorta di apprendistato informale che, all’epoca, poteva condurre a qualche ramo della professione legale. In realtà Charles non aveva nessun interesse per l’avvocatura, e impiegava la maggior parte del suo tempo osservando la fauna londinese che popolava gli studi legali e studiando da sé la stenografia. A diciannove anni stava già mettendo a buon frutto tanto la sua capacità di osservazione quanto la stenografia, lavorando come cronista giudiziario per diversi giornali. Il giovanotto aveva occhio e un bernoccolo istintivo per il bozzetto descrittivo. Qualche caporedattore impiegò poco tempo a spedirlo a Westminster come cronista parlamentare dapprima, e poi a pubblicare i suoi sketches, bozzetti di vita londinese.

Nel 1833, a 23 anni soltanto, Dickens era conosciuto ed apprezzato, sotto lo pseudonimo di Boz, da tutti gli strati della popolazione londinese, e nel frattempo aveva fatto esperienza di vari ambienti destinati a giocare ruoli fondamentali nella sua futura vita di narratore: le fabbriche, le prigioni, i tribunali, quei quartieri in cui legioni di londinesi lottavano ferocemente per mostrare qualche grado di rispettabilità o signorilità…

Nel 1836 il Morning Chronicle cominciò a pubblicare le puntate settimanali di The Pickwick Papers, più che un romanzo vero e proprio, un susseguirsi di episodi alla maniera di Smollet, di Fielding e di altri autori settecenteschi. Le prime puntate non ebbero un successo travolgente, ma l’introduzione di Sam Weller, il valletto di Mr. Pickwick, con la sua parlata cockney e la sua combinazione di astuzia e buon senso, mandò le vendite alle stelle. Dickens aveva dimostrato di saper ritrarre i Londinesi, e Londra lo ripagò da allora con incessante adorazione e un’insaziabile appetito per i suoi lavori.Immagine2.jpg

Dickens non si tirò indietro. Dopo The Pickwick Papers vennero, nel giro di pochi anni, Oliver Twist, Nicholas Nickleby e The Old Curiosity Shop, tutti ambientati a Londra, tutti pubblicati a puntate su vari periodici. Diciamocelo: era una vitaccia: ogni dannata settimana (oppure ogni quindici giorni nei casi più fortunati) bisognava produrre un capitolo di tot parole, non di più e non di meno, che terminasse lasciando qualche personaggio in difficoltà tali da costringere il lettore a comprare il numero successivo. E non c’era posto per i ripensamenti: se al capitolo XVI si decideva che il personaggio X sarebbe riuscito meglio come un bon vivant irresponsabile anziché un malvagio vero e proprio, non si poteva tornare indietro, perché i primi quindici capitoli erano già stati pubblicati… Scrittori meno abili affondavano a dozzine su queste difficoltà.

Dickens invece prosperava in quell’atmosfera frenetica. Riempiva i suoi romanzi di sottotrame e personaggi minori, di conversioni a 180 gradi e di coincidenze improbabili, ma lo faceva con tanto estro che il pubblico era in delirio. E lui adorava il contatto con il pubblico, le lettere dei lettori, era sommerso dagl’impegni, dalle letture pubbliche, dalle produzioni teatrali amatoriali. E ciò benché nel frattempo avesse messo su famiglia con l’infelice Catherine Hogarth. Povera Kate, con un marito stravagante, irresponsabile, iperattivo, pieno di fascino e di capricci! Ma forse Dickens non aveva un gran bisogno di felicità domestica: era troppo preso dai suoi successi letterari, dall’ambiente frizzante e vivace del giornalismo londinese…

Paradosso: se c’è un autore che critica aspramente Londra, i suoi mali, la sua corruzione e le sue ingiustizie, questo è proprio Dickens. La gestione degli orfanotrofi e delle scuole, le lentezze del sistema giudiziario, le disparità sociali, l’aspetto disumanizzante dell’industrializzazione, le leggi sulla povertà, l’allignare della criminalità negli slums, pochi sono gli aspetti della vita cittadina che sfuggano alla sua censura. Addirittura, in The Old Curiosity Shop c’è un tentativo abbastanza scoperto di un’equazione tra Città e Corruzione dell’Umanità, cui corrisponde un associazione speculare tra campagna e vita incorrotta e semplice. Eppure, togliete Dickens da Londra, ed eccolo perduto! Cosa farebbe il Nostro senza le redazioni dei giornali, senza i teatri, senza le strade affollate, senza la calca attorno ai tribunali, senza la varia, affaccendata, viva umanità che sgomita nelle vie di Londra? Lo ammetterà lui stesso, molti anni più tardi, quando faticosamente occupato con la prima stesura di Dombey&Son in Svizzera, confiderà a un amico: “Lontano da Londra non so scrivere!”

E nel frattempo, piovono i successi: A Christmas Carol (Canto di Natale), forse la storia più famosa di tutta la letteratura inglese; David Copperfield, il prediletto e più autobiografico tra i suoi romanzi; Bleak House (Casa Desolata), con la sua feroce denuncia di un sistema giudiziario incancrenito; Little Dorrit, che punta il dito contro la prigione per debiti***; A Tale of Two Cities (Le Due Città), l’unico romanzo storico insieme al meno fortunato Barnaby Rudge; e poi Great Expectations (Grandi Speranze), e Our Mutual Friend (Il Nostro Comune Amico)… tutti così profondamente impregnati dello spirito, dei costumi, delle abitudini e dei vizi di Londra… Leggete dei pescatori di cadaveri annidati come ratti lungo il Tamigi, della sarta delle bambole che va a vedere le signore davanti alla Royal Opera House per copiare gli stili degli abiti, del giovanotto assunto per catalogare una biblioteca nelle stanze piene di muffa al Temple, della pittrice di ritratti in miniatura che vive in affitto accanto alla buona famiglia decaduta a Camden Town, delle piccole aziende nella City, degli imbalsamatori, delle ragazze da marito, dei venditori di ballate agli angoli di strada, degli spazzini a nolo, dei ladruncoli, degli avvocaticchi, delle levatrici, delle vecchie madri tiranniche… C’è tutto un mondo nelle pagine di Dickens, e per la maggior parte, questo mondo si agita nelle vie di Londra. Anzi, Londra stessa è un personaggio a pieno titolo: sempre scura, nebbiosa, fredda, un po’ crudele, con i suoi campanili che bucano il cielo grigio, con il fiume opaco, buono appena per i suicidi e il contrabbando, con le vie sporche e gli appartamenti pieni di muffa, i ponti deserti dove la gente si accoltella. Londra non è mai accogliente, di rado appare gaia, ma è sempre vivida, reale e pittoresca insieme.

Immagine4.jpgUno dei tanti misteri alchemici che resero questo scrittore disordinato e affannoso, crudele e allegro l’idolo della sua città. Quando morì, nel 1870, Dickens era immensamente popolare. Centoquarant’anni più tardi, lo è ancora, i suoi romanzi sono letti in tutto il mondo, e quanta gente forma la propria idea di Londra prima di andarci, sulle pagine di Canto di Natale, di Oliver Twist e di David Copperfield****? E il fatto è che della Londra di Dickens resta sorprendentemente molto, a volerla cercare. Passeggiando intorno a St.Paul in una giornata bigia, traversando i cortili del Temple sotto la pioggia, rispondendo al bigliettaio cockney dell’autobus in Fleet Street, attraversando il vecchio Mercato delle Mele a Covent Garden, ecco che David, Amy Dorrit, Mrs. Nickleby, i fratelli Pinch, Sam Weller, Dick Swiveller e tutti gli altri ci vengono incontro.

La Londra di Dickens, quella che ha nutrito i lavori di Dickens, quella che Dickens ha immortalato e, in parte, creato – quella Londra è ancora al suo posto.

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* E forse nemmeno terribilmente onesto: è possibile che il suo precipitoso trasferimento a Londra fosse il frutto di qualche colpevole leggerezza nel maneggiare il denaro destinato alle paghe della Royal Navy.

** Com’era d’uso all’epoca, moglie e figli “a carico” vivevano in prigione con il detenuto.

*** Tribunali, prigioni, fabbriche… suona familiare?

**** Confesso di essermi allarmata quando ho saputo che a Londra avrei abitato in una residenza universitaria a Southwark… perché Southwark, ai tempi di Dickens, era uno slum per nulla raccomandabile.

Gen 26, 2010 - commercials    Commenti disabilitati su Iridescenza

Iridescenza

Non c’è verso che mi ricordi a quale casa automobilistica appartenesse questa campagna, e mi dispiace, perché chiunque ne abbia ideato lo slogan è un genio.

Driving technology.

Tutto qui: due parole due. E però provviste di tutta una serie di significati che si possono tradurre liberamente in:

1) Tecnologia per guidare

2) Guidare la tecnologia

3) (Siamo) motivati dalla tecnologia

4) Tecnologia all’avanguardia

Tutti pertinenti, tutti incoraggianti dal punto di vista di un eventuale consumatore, ciascuno un dito puntato verso una direzione diversa: l’aspetto pratico, il vantaggio per il consumatore, la filosofia produttiva, l’eccellenza del prodotto. Tutto, ripeto, in due parole.

Francamente, non mi ricordo nemmeno il resto dello spot, ma il modo in cui è concepito questo slogan mi ha colpita, perché prende un meccanismo poetico particolarmente raffinato e complesso e lo utilizza a fini commerciali. Ora, non scrivo poesia, e non ne leggo nemmeno moltissima, ma adoro quell’estrema distillazione del linguaggio poetico per cui ogni parola/combinazione di parole racchiude più di un significato. Come una gemma che mandi una luce diversa a seconda di come è orientata. Questa iridescenza è una delle caratteristiche più preziose e inafferrabili del linguaggio, poetico o no, e farne un uso così compatto, efficace e coerente è favolosa scrittura; non m’importa se è finalizzata a vendere automobili.

E adesso, se fossi brava, mi proporrei di esercitarmi a produrre qualche cosa di simile, diciamo almeno due combinazioni aggettivo/sostantivo, o sostantivo/verbo, o verbo/avverbio, con almeno due significati diversi e connessi tra loro. Prima della fine della settimana. Perché qualche gemma, ogni tanto, sta bene anche incastonata nella prosa.

Gen 25, 2010 - Spigolando nella rete    Commenti disabilitati su Treasure Trove

Treasure Trove

Nella mia caccia all’abbigliamento tardo-bizantino mi sono imbattuta in questo meraviglioso sito, dove qualche anima santa sta digitalizzando tutta la Vinkhuijzen Collection of Military Costume Illustration. Più di 30000 figure di uniformi storiche di tutto il mondo*!

No, non ha vesti tardo-bizantine, ma è piena di meraviglie come l’imperatore Niceforo:

Nikeforos.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 E i manglaviti:

Manglaviti.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 E la guardia varangiana:

Varaghi.jpg

Quasi come gli albi della Osprey, ma con più cose bizzarre.

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*Tutto il mondo tranne gli Stati Uniti, precisa l’anima santa, che è statunitense.

 

Se Questo E’ Un Uomo

Ho cominciato ieri un laboratorio nuovo alle Scuole Medie di Roncoferraro.

In occasione della Giornata della Memoria, per quattro venerdì leggerò e commenterò brani di Se Questo E’ Un Uomo, di Primo Levi, con i ragazzi di due classi terze. Sono sempre in ansia quando inizio un lavoro nuovo in una scuola, specialmente quando si tratta di un laboratorio creato su richiesta e mai sperimentato prima. Tra l’altro, Se Questo E’ Un Uomo è un libro ostico, di quelli che pretendono attenzione per entrare sotto la semplicità apparente della scrittura. L’asciuttezza deliberata e scarna della cronaca può non coinvolgere a prima vista, e non ci sono personaggi con cui un quattordicenne possa identificarsi d’istinto. Così il mio mestiere è aprire delle porte tra la realtà di questi ragazzi e quella del libro, mostrare loro l’ansia di raccontare del giovane Primo, decifrare l’appello nascosto nella durezza apparente dell’epigrafe, tradurre i civili fantasmi cartesiani e il soldato tedesco irto d’armi in termini che possano riconoscere.

Come ho detto, è il genere d’inizio che mi mette in ansia. Mi domandavo mai, a quattordici anni, se gli adulti che mi spiegavano qualcosa temessero di non riuscirci a sufficienza? Forse no.

Poi però arrivano i buoni segni. Il primo è quando cercano d’impressionarti, vogliono far vedere che capiscono, che partecipano, fanno qualche falsa domanda (“Ma non c’era anche Lenin, in Russia, oltre a Stalin?”). Non è ancora davvero promettente, ma è un inizio: vuol dire, se non altro, che hai la loro attenzione. E poi arrivano le domande vere, in tutta la gamma dal candido al pratico all’acuto, e guai a farsi cogliere alla sprovvista. E poi, quando domandi a tua volta, arrivano le risposte, qualcuna un po’ a caso, qualcuna ingenua ma nella direzione giusta, qualcuna singolarmente pronta.

Vuol dire che seguono, che parliamo, almeno un po’, la stessa lingua, e che, se sono fortunata, almeno qualcuno di loro porterà a casa un modo diverso di leggere, di farsi domande, una nuova considerazione per la storia, per la forza dei libri e della parola scritta. Ed è allora che, tutte le volte, mi ricordo perché mi piace fare questo lavoro.