Dico “qualche puntata” perché io ne vidi solo tre: quando si accorse che la faccenda mi dava gl’incubi, la mia saggia nonna applicò una forma di censura famigliare, ma siccome stiamo parlando di un’epoca in cui era raro che i palinsesti si modificassero in corsa, è possibile che sia andato in onda qualche episodio di più. Dopo di questo ho impiegato quasi trent’anni a scoprire che non solo la serie esisteva davvero, Sapphire and Steel nella versione originale, ma vanta ancora un discreto numero di affezionati e ha avuto anche un seguito (radiofonico, mi pare).
Ciò detto, quanto a genere, Z&A è di difficile definizione: probabilmente qualche tipo di fantasy, se consideriamo i due misteriosi agenti temporali a caccia di sfilacciature nella trama del tempo, ma un fantasy molto singolare. Rivedendolo a tanti anni di distanza, non mi meraviglio che avesse levato il sonno alla Clarina di anni sei, e già questo è degno di nota. In genere, tendiamo a sorridere di quello che ci spaventava da bambini, ma Z&A era e resta davvero un po’ inquietante. Più che un po’. E non pensate a effetti/effettacci speciali, mostri o truculenze, perché non c’è nulla del genere.
In realtà, non c’è granché di nessun tipo, production-wise: set essenziali (e pure un po’ tristi), una manciata di attori, musica ridotta all’osso, effetti speciali ai limiti dell’artigianale. Eppure l’insieme ha una tensione, un senso di mistero e un’atmosfera che mettono davvero i brividi. A che cosa si deve il miracolo?
– In primo luogo, una scrittura stratosferica*. Il concetto di Peter J. Hammondè affascinante: il tempo come entità semi-senziente e non precisamente benevola, una sorta di corridoio onnipervasivo, a sua volta abitato da inquietanti esseri che non vedono l’ora di uscirne. Quando un anacronismo sfilaccia la trama del tunnel, il tempo straripa e le cose si mettono oscuramente male, richiedendo l’intervento dei Nostri Eroi. La genialità della faccenda consiste nel non spiegare troppo a fondo il meccanismo: da dove vengono Zaffiro e Acciaio? Chi li comanda? Che cosa succederebbe se lo strappo temporale non venisse ricucito? Un sacco di domande di questo genere vengono poste e mai del tutto risolte**, tutto procede per metafore e allusioni, il lieto fine non è mai particolarmente lieto, e la minaccia rimane sempre inafferrabile, sempre evitata all’ultimo istante, sempre inquietante. Il principio in base al quale la paura è mancata conoscenza, rivoltato come un guanto e usato a fini drammatici con favolosa abilità.
– A seguire, una regia sorvegliatissima e claustrofobica, che esclude tutti i fronzoli a beneficio dell’efficacia. Nemmeno le pettinature Anni Ottanta e i vestitoni azzurri di Zaffiro riescono a diluire il senso di minaccia creato con una lampadina nuda che oscilla, una filastrocca ripetuta e quattro battute di musica minimalista. O con una macchia di luce bianca che sale lentamente una scala mentre le voci dei Nostri ignari filtrano dalla porta della cucina. Brr…
Morale: produzione all’osso + concetto solido + buona scrittura + attori competenti e convinti = qualcosa che lo spettatore, dopo averne viste un paio di mezz’ore, ricorda con la pelle d’oca a trent’anni di distanza.
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* Sapevate che avrei detto così…
** Normalmente direi che non si bara con le aspettative del lettore/spettatore, ma qui l’occultamento di motivi e ragioni è connaturato al concetto della storia, né più né meno che l’idea del Tempo/corridoio.
*** Pare che Joanna Lumley si lamentasse di non capire la metà di quello che doveva dire, mentre McCallum e Hammond avevano l’abitudine di chiudersi da qualche parte e apportare modifiche dell’ultimo minuto, giusto per rendere il dialogo ancora più esoterico.
**** Altra idea narrativamente solida: non c’è bisogno di rendere i protagonisti simpatici a tutti i costi, specie se, per la coerenza della storia, è meglio che non lo siano.