Senza Errori di Stumpa

L’Uomo Che Voleva Essere Shakespeare III

E il venerdì, più puntuale delle rondini a primavera, torna William Henry Ireland. Lo ritroviamo in spasmodica attesa della prima di Vortigern and Rowena a Drury Lane. La sua tragedia shakespeariana. Immaginatevelo, questo ragazzino di ventuno anni, che col peso della più maiuscola frode letteraria dei suoi tempi sullo stomaco, si torce le dita in un misto di sovreccitata anticipazione, sogni di gloria e terror panico.

E in mezzo a tutto questo, due giorni prima del fatidico debutto, Malone fece scoppiare la sua bomba editoriale.

Edward Malone era un altro bardolatra, un avvocato irlandese fiammeggiante e un pochino squadrellato a sua volta. In anni successivi lo si sarebbe scoperto colpevole di cose riprovevoli come furto e tagliuzzamento di documenti originali, ma nel 1796 aveva una considerevole reputazione – e la usò tutta per distruggere la collezione Ireland in quattrocentoventiquattro pagine di furibonda requisitoria illustrata con tavole fuori testo. Lo spelling dei supposti autografi, concionava Malone nel suo libro, non era elisabettiano; lo stile non era elisabettiano; una considerevole parte del lessico non era elisabettiana; le firme non somigliavano poi così tanto a quelle conosciute… tutto era falso, falso, spudoratamente e criminalmente falso.

Il libro fu un successo immediato, per cui immaginatevi che genere di pubblico riempisse platea e palchi del Drury Lane due giorni più tardi. Il teatro era pieno di giornalisti, curiosi e claques rivali: quella organizzata da Sheridan, quella voluta da Malone e varie altre a spese dell’uno o dell’altro giornale o fazione. E poi c’erano bardolatri di ogni colore, appassionati di teatro, fan di Kemble, partigiani degli Ireland e feroci maloniani… 

È quasi un miracolo che i due primi atti riuscissero ad andare bene – e ad essere persino applauditi – in questa atmosfera incandescente. William Henry, nascosto nei camerini col cuore in gola, cominciava a sperare che dopo tutto, dopo tutto… e poi entrò in scena un attore giù di voce e lievemente buffo – e fu il disastro. Parte del pubblico non aveva aspettato altro: cominciarono gli sghignazzi, i lanci di bucce d’arancia, le contestazioni, gli insulti – e intanto gli attori s’innervosivano viepiù. Persino Kemble fu fischiato, e quando l’attore che interpretava il malvagio rimase incastrato sotto il sipario, in platea si scatenò una vera e propria rissa.

All’epoca non era cosa tanto inconsueta o tanto grave da far sospendere una rappresentazione, ma di certo il Vortigern non ebbe repliche – e la pur pilotatissima reazione del pubblico, con l’inglorioso naufragio della tragedia ritrovata, era tutta acqua al mulino di Malone.

Era finita. Nei mesi successivi critiche, dubbi e scherno fioccarono su Samuel Ireland, che tutti consideravano responsabile della frode – se frode era. Oh sì, c’era ancora chi credeva al sonetto, alla professione di fede e al pagherò, ma il Vortigern era stato un duro colpo, e la credibilità shakespeariana di Samuel era irreparabilmente franata a valle. In tutto ciò, il vecchio incisore biasimava suo figlio – ma non per avere falsificato alcunché, bensì perché non voleva presentargli Mr. H., il misterioso proprietario dei documenti, che avrebbe potuto chiarire tutta la faccenda…

Come suol dirsi all’opera, O umana cecità sei pertinace. Samuel non volle mai rassegnarsi all’idea che i suoi autografi fossero falsi. E quando William Henry, sfinito dalla tensione e dalla vergogna, finì per confessare, il padre non gli credette. E non perché avesse fede nell’onestà di suo figlio, sapete, ma perché lo considerava troppo stupido per avere architettato – e meno ancora realizzato – un piano del genere.

È la beffa finale. È ciò che fa di William Henry Ireland un personaggio semitragico. È il motivo per cui questa storia sarebbe perfetta per un romanzo…

William se ne andò di casa per sposare una fanciulla dal passato interessante, che mantenne pubblicando romanzi gotici, le sue tragedie – e soprattutto, il suo più grande successo, un libro sulla sua incredibile frode. Inutile dire che suo padre era inorridito, non aveva la minima intenzione di essere scagionato in quel modo e anzi negava, negava e negava con ferocia che ci fosse alcunché di vero in quei deliri a stampa. Samuel Ireland morì nel 1800, convinto che la sua collezione shakespeariana fosse autentica e senza mai essersi riconciliato con quell’orribile ragazzo, quel figlio stupido e disonesto, la sua vergogna, la sua rovina, il più fatale errore della sua vita.

Depresso e diseredato, William seguitò a campare con i suoi romanzi gotici e le sue satire da poco, e un secondo libro sulla sua vicenda di falsario. Ma siccome anche allora vivere di scrittura non era soverchiamente confortevole, seguitò anche a integrare le entrate al modo che gli riusciva meglio: producendo falsi falsi autografi shakespeariani.

No, davvero.

Avete letto bene: falsi falsi autografi. Falsi dei suoi falsi.

Perché vedete, immagino che Samuel si rigirasse nella tomba, ma se non era riuscito a diventare celebre scrivendo, William aveva fatto centro nel momento in cui aveva confessato di avere condotto per il naso accademici, principi, scrittori e primi ministri. Non solo le sue Confessions furono un secondo successone, ma i collezionisti cominciarono a offrire discrete somme per i suoi falsi. Molti collezionisti. Tanti che, una volta esauriti i pezzi della collezione paterna – e la domanda continuando inabbattuta, William non vide ragione di deludere tanti ammiratori e rinunciare a una fonte di reddito. E allora cominciò a produrre manoscritti originali del Vortigern, dell’Enrico e del sonetto di Anne come se piovesse.

Falsi falsi.

Cosicché è vero, quando nel 1821 l’incorreggibile William Henry annunciò di avere scoperto il testamento di Napoleone, l’Inghilterra si fece quattro risate. E quando qualche anno più tardi se ne uscì con il carteggio tra Giovanna d’Arco e il Delfino, nessuno finse nemmeno di crederci.

Epperò, quest’Inghilterra smaliziata continuava a comprare i falsi falsi, e mi domando – mi domando…

Mi domando se l’ex ragazzo stupido si aspettasse davvero di essere creduto con il suo falso Napoleone e la sua falsa Pulzella. Se non gli fosse solo parso il caso di ricordare all’Isoletta che lui era ancora lì, il pittoresco falsario confesso – e in tutta discrezione, qualcuno voleva per caso acquistare l’ultimo, ultimissimo falso shakespeariano che ancora gli restava tra le mani?

Oh, non saprei, ma dal ragazzino che marinava la scuola e si costruiva di nascosto armature di cartone e carta stagnola, potrei anche aspettarmelo. E mi piace figurarmelo così, William Henry, mentre il sipario si chiude: un po’ triste, al pensiero di quel padre che non era capace di credergli, ma con un accenno di sorriso beffardo e un po’ storto mentre fa marketing delle sue frodi e delle sue bugie.

See? Not so very stupid after all, am I?”

L’Uomo Che Voleva Essere Shakespeare IIIultima modifica: 2013-03-29T07:10:00+01:00da
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