Senza Errori di Stumpa

Shakeloviana: The English Channel

The English Channel è un play di Robert Brustein – e no, non parla della Manica.

Con una manciatina di gente in scena, parla di Shakespeare, e di Marlowe, e di arte, e di teatro, e del significato e valore dell’originalità, e del rapporto tra un autore e il suo materiale, e di grandezza, e di debiti, e di un sacco di cose.

E poi, giustificando il titolo, parla di cose che vogliono essere scritte – e di quell’impressione che a volte si ha, di essere… visitati.

“Vengono quando dormo, dice il Will di Brustein, E qualche volta quando non riesco a dormire, e pretendono che li faccia entrare, e gridano con quelle voci fameliche. Chiedono che dia loro vita. E quando ho dato loro vita, ne chiedono di più.”

E questo Will è perfetto per questo – per essere The Channel – perché non ha una personalità terribilmente definita. È una sorta di spugna che assorbe (e annota) tutto quello che sente. È una manciata di cera morbida, pronta a modellarsi su qualsiasi forma  lo colpisca. È un ladro, dice Kit Marlowe. Un ladro di parole, di espressioni, di sentimenti – e occasionalmente di versi. E lo dice con qualche acidità – ma d’altra parte questo Kit non potrebbe mai essere così neutro e flessibile: un radicale fiammeggiante, è sempre lui a parlare in tutti i suoi personaggi. Marlowe foggia l’umanità a sua immagine e somiglianza, mentre Shakespeare foggia sé stesso in forma di varia e molteplice umanità.

Poi però Marlowe muore – e il suo fantasma inappagato offre a Will di essere la sua voce, il canale attraverso cui prendono vita le idee che la pugnalata fatale a Deptford ha, so to say, soffocato in culla.

Uno Shakespeare che scrive sotto preternaturale dettatura? È questa l’impressione che si potrebbe ricavare, dopo avere visto i due poeti alle prese con Emilia Lanier e il giovane Henry Wriothesley per cinque atti. E se ci si fermasse lì, potrebbe quasi essere deludente…

Ma.

In realtà i cinque atti cambiano d’aspetto quando li si legge incorniciati tra due testi. Prima c’è un’introduzione che spiega come la teoria dello Shakespeare-di-cera sia nata da un insieme di suggestioni* raccolte a teatro, nei libri di Stephen Greenblatt – cui il play è dedicato – e nell’esperienza personale dell’autore. Quell’impressione di essere visitati, ricordate? E poi c’è qualcosa di bizzarro, intitolato “Recensione di un Fantasma”, in cui Richard Burbage, probabilmente il primo Romeo, ironizza  in maniera smaliziata e semi-elisabettianasul play, e sulla mitologia bardolatrica e, già che c’è, sull’antistratfordianesimo:

“Com’è che voi moderni vi sentite obbligati a credere che chiunque possa avere scritto le opere di Shakespeare – tranne Shakespeare?”

E se lo chiedete a me, non ha tutti i torti – ma non è questo il punto. Il punto è che, preso da solo,  The English Channel è un play ragionevolmente brillante, che riprende un’immagine non del tutto nuova di Shakespeare, e strologa sul suo rapporto con la sua ispirazione e la sua opera. A rendere tutto ciò davvero significativo, tuttavia, a gettare luci di taglio sul gioco metateatrale e metaletterario, a radicarlo in una prospettiva a cannocchiale di punti di vista interpretativi, sono quei due arnesi che lo incorniciano come due fermalibri – uno prima e uno dopo.

Mi domando se in scena, privato di questa cornice fondamentale, il play non soffra un po’ e non non rischi di diventare un grazioso giochino metaletterario.

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* Ho sempre trovato curioso che nel numero non ci sia Shaw, il cui Will, in The Dark Lady of the Sonnets, sembra un po’ un progenitore di quello di Brustein…

 

Shakeloviana: The English Channelultima modifica: 2014-06-09T08:07:49+02:00da
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