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Giu 16, 2014 - Shakeloviana    Commenti disabilitati su Shakeloviana: Murdering Marlowe

Shakeloviana: Murdering Marlowe

2Vi ricordate lo Will Shakespeare di Clemence Dane?

Ve lo chiedo perché oggi parliamo di un altro play che, pur avendo una certo numero di punti di contatto, non potrebbe essere più diverso.

Come Miss Dane, anche Charles Marowitz tenta la via del verso sciolto. Come Miss Dane, anche Marowitz piazza il giovane Shakespeare all’ombra del giovane Marlowe. Come Miss Dane, anche Marowitz ci mette in mezzo una donna – più o meno contesa, più o meno indecisa. Come Miss Dane, anche Marowitz ci aggiunge una Anne Hathaway abbandonata e attaccaticcia. Come (e più di) Miss Dane, anche Marowitz esplora questioni di individualità artistica e spazi espressivi da trovare. Come Miss Dane, anche Marowitz mette Shakespeare dietro la coltellata fatale a Deptford – sia pure meno… er, direttamente.

E in realtà le somiglianze finiscono qui. In Marowitz, per cominciare, non ci sono bravi ragazzi tormentati. Will è un genio 4ec58402c1655.preview-300insicuro e meschino, divorato dall’invidia al punto che l’omicidio gli sembra un metodo perfettamente sensato per liberarsi del coetaneo più brillante. Kit è pieno di hybris e autodistruttivo, ma sgradevole su tutta la linea – scritto per offrire a Will tutte le motivazioni e tutti i mezzi per l’omicidio, e nemmeno l’ombra di un motivo di rimorso o simpatia. La donna contesa non è una Mary Fitton luccicante e amorale, ma una Emilia Lanier che rimbalza di letto in letto, cercando di manipolare in qualche parvenza di sentimento – o almeno di reazione – due uomini che per lei hanno davvero poco tempo considerando quanto Will sia ossessionato da Kit, e quanto Kit sia ossessionato da se stesso. Anne tenta di essere quella costretta alla prosaicità dalle delusioni, dalla povertà e dall’altrui vaghezza, ma esce piuttosto piatta. Quanto all’individualità artistica, devo confessare che, pur credendo senza un’ombra di difficoltà che Marlowe sia stato una pietra di paragone oltremodo ingombrante, fatico a indurmi ad apprezzare uno Shakespeare ossessivamente, circolarmente intento a ripetersi che oh, se solo non ci fosse Marlowe! È… poco.

E i versi? vi chiederete forse.

Ecco, i versi…

67289-large_0Non ho nulla, ma davvero nulla contro il teatro contemporaneo in versi giambici – a patto che la cosa funzioni. È un “a patto” piuttosto maiuscolo, me ne rendo conto, proprio per il fatto che far funzionare i pentametri giambici in un linguaggio che suoni debitamente elisabettiano e non sia un’infelicità per l’orecchio moderno è un mestiere intricato e delicatissimo. In qualche modo, Clemence Dane ci riesce senza grattare troppo – o almeno così sembra a me, e forse è solo perché con il 1921 si è più indulgenti? Magniloquente, gonfio e purpureo, il linguaggio in versi della Dane è irritante a tratti, ma irritante in quella maniera georgiana che, in qualche modo, funziona. Voglio dire, si vedono immagini come questa qui a fianco, e si capiscono molte cose…

Però si direbbe che il mio livello di tolleranza frani a valle quando si tratta di un autore contemporaneo, perché i pentametri di Marowitz mi rendono un po’ infelice. Non li ho mai sentiti recitare, ma alla lettura mi suonano legnosi e insipidi al tempo stesso. Ripeto, magari sono io, e non è come se preferissi i versi di Miss Dane, ma in qualche modo, lo spudorato tentativo post-vittoriano di riprodurre il linguaggio del Bardo mi irrita meno del dichiarato intento contemporaneo di non voler imitare Shakespeare.

D’altra parte, ci sono varie cose che Marowitz dichiara – tra l’altro di avere costruito il suo play più come un thriller che come un period piece. Considerando quanto è confuso e macchinoso il delitto, non so spingermi ad affermare che ci sia riuscito terribilmente bene.

Morale – un disastro completo?

In realtà no. Ci sono alcune buone cose in questo play. L’atmosfera cupa e claustrofobica, il senso di minaccia, un’idea di fondo bizzarra ma interessante, la frustrazione di Emilia, il momento rivelatore in cui Will si rende conto di non essere poi così machiavellico come credeva… È un peccato che poi l’insieme non funzioni granché.

 

Giu 9, 2014 - Shakeloviana    Commenti disabilitati su Shakeloviana: The English Channel

Shakeloviana: The English Channel

brusteinThe English Channel è un play di Robert Brustein – e no, non parla della Manica.

Con una manciatina di gente in scena, parla di Shakespeare, e di Marlowe, e di arte, e di teatro, e del significato e valore dell’originalità, e del rapporto tra un autore e il suo materiale, e di grandezza, e di debiti, e di un sacco di cose.

E poi, giustificando il titolo, parla di cose che vogliono essere scritte – e di quell’impressione che a volte si ha, di essere… visitati.

“Vengono quando dormo, dice il Will di Brustein, E qualche volta quando non riesco a dormire, e pretendono che li faccia entrare, e gridano con quelle voci fameliche. Chiedono che dia loro vita. E quando ho dato loro vita, ne chiedono di più.”

E questo Will è perfetto per questo – per essere The Channel – perché non ha una personalità terribilmente definita. È una sorta di spugna che assorbe (e annota) tutto quello che sente. È una manciata di cera morbida, pronta a modellarsi su qualsiasi forma  lo colpisca. È un ladro, dice Kit Marlowe. Un ladro di parole, di espressioni, di sentimenti – e occasionalmente di versi. E lo dice con qualche acidità – ma d’altra parte questo Kit non potrebbe mai essere così neutro e flessibile: un radicale fiammeggiante, è sempre lui a parlare in tutti i suoi personaggi. Marlowe foggia l’umanità a sua immagine e somiglianza, mentre Shakespeare foggia sé stesso in forma di varia e molteplice umanità.

Poi però Marlowe muore – e il suo fantasma inappagato offre a Will di essere la sua voce, il canale attraverso cui prendono vita le idee che la pugnalata fatale a Deptford ha, so to say, soffocato in culla.

Uno Shakespeare che scrive sotto preternaturale dettatura? È questa l’impressione che si potrebbe ricavare, dopo avere visto i due poeti alle prese con Emilia Lanier e il giovane Henry Wriothesley per cinque atti. E se ci si fermasse lì, potrebbe quasi essere deludente… Channel190

Ma.

In realtà i cinque atti cambiano d’aspetto quando li si legge incorniciati tra due testi. Prima c’è un’introduzione che spiega come la teoria dello Shakespeare-di-cera sia nata da un insieme di suggestioni* raccolte a teatro, nei libri di Stephen Greenblatt – cui il play è dedicato – e nell’esperienza personale dell’autore. Quell’impressione di essere visitati, ricordate? E poi c’è qualcosa di bizzarro, intitolato “Recensione di un Fantasma”, in cui Richard Burbage, probabilmente il primo Romeo, ironizza  in maniera smaliziata e semi-elisabettianasul play, e sulla mitologia bardolatrica e, già che c’è, sull’antistratfordianesimo:

“Com’è che voi moderni vi sentite obbligati a credere che chiunque possa avere scritto le opere di Shakespeare – tranne Shakespeare?”

E se lo chiedete a me, non ha tutti i torti – ma non è questo il punto. Il punto è che, preso da solo,  The English Channel è un play ragionevolmente brillante, che riprende un’immagine non del tutto nuova di Shakespeare, e strologa sul suo rapporto con la sua ispirazione e la sua opera. A rendere tutto ciò davvero significativo, tuttavia, a gettare luci di taglio sul gioco metateatrale e metaletterario, a radicarlo in una prospettiva a cannocchiale di punti di vista interpretativi, sono quei due arnesi che lo incorniciano come due fermalibri – uno prima e uno dopo.

Mi domando se in scena, privato di questa cornice fondamentale, il play non soffra un po’ e non non rischi di diventare un grazioso giochino metaletterario.

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* Ho sempre trovato curioso che nel numero non ci sia Shaw, il cui Will, in The Dark Lady of the Sonnets, sembra un po’ un progenitore di quello di Brustein…

 

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