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Come fai a scrivere su commissione? Ne parli spesso, quindi penso che ti capiti normalmente. E io non capisco come fai: come riesci a ispirarti per un argomento che ti impone qualcun altro? E se poi il committente vuole dei cambiamenti che a te non vanno? Ma soprattutto, come fai se è un argomento che non ti interessa – o ti fa addirittura schifo?
Potrei cavarmela dicendo che l’ispirazione è sopravvalutata – ma in realtà è una buona domanda. Vediamo un po’.
E a questo punto farò bene a dire che non ho minimamente l’impressione di prostituire la mia immaginazione, la mia scrittura o alcunché d’altro. Ho scritto e scrivo su commissione – e, udite udite, tendo a trovarci gusto.
Si capisce, ci sono commissioni e commissioni. C’è chi arriva con richieste specificissime e non vuole nient’altro – ma di solito non funziona così. Soprattutto a teatro.
Le compagnie si fanno avanti con un’idea generale. Una richiesta. Un’esigenza. Di solito si comincia con qualcosa di vago tipo Acqua, Sonetti, Shakespeare, Anita Garibaldi. Virgilio… E qualche volta è un argomento che vi riempie di vibrante anticipazione, e qualche volta… er, no.
Acqua era parecchio generico. Anita Garibaldi la detesto con passione. Virgilio poco meglio.
E allora che si fa?
Quel che faccio io è una di due cose, a seconda del committente: o mi prendo un po’ di tempo per pensarci, o discuto fin da subito opzioni, possibilità e paletti. In realtà, spesso le due cose si combinano in ordine variabile. E a questo punto, in genere, succede. Succede che l’idea acquisisce un minimo di forma. Succede che capisco quel che voglio fare con l’argomento distante o poco congeniale. Succede che un’idea o due bussano alla porta, si presentano e si accampano per restare.
Perché mi ci sono voluti anni per capirlo, ma non c’è argomento così infelice, così vago, così ostico che non ci si possa trovare qualcosa – qualcosa da scrivere. Un taglio inaspettato. Una luce nuova su qualcosa che mi sta a cuore. Nella peggiore delle ipotesi, l’occasione di riesaminare un’avversione, e qualche volta correggere il tiro… E una volta trovato questo germoglio, non è più solo quel che vuole il committente: è diventato qualcosa chevoglio scrivere io.
Poi è chiaro – non sempre va bene. Ci sono i committenti irragionevoli, ci sono le incompatibilità di vedute, ci sono gli errori che si fanno, ci sono le diverse idee di non-negoziabilità, ci sono le ostinazioni… Il trucco, visto da qui, sembra risiedere in un certo grado di flessibilità, e nello scegliersi i committenti, più che le commissioni.
E alla fin fine, no: scrivere su commissione non è il male. Non è la tomba della creatività o dell’immaginazione. Potrei persino spingermi a dire che alcune delle mie cose migliori le ho scritte su commissione. Se non altro, perché spesso è una sfida. Un’occasione per lavorare fuori dalla propria zona di sicurezza – il genere di stimolo di cui chi scrive ha bisogno anche quando non lo sa.