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La Vendetta di Lady Caroline

E con questo titolo da romanzo gotico, in realtà, rispondo alla mail di F., che mi chiede lumi su Lady Caroline Lamb, citata un paio di post orsono.

CaroLambLady Caro era una bellezza celebre, ben nata e maritata ancor meglio, colta e brillante – di quel genere di brillantezza che a volte non lascia presagire troppo bene. Per Byron, conoscerla e cominciare a corteggiarla fu tutt’uno, ma lei dapprincipio non ne voleva sapere. Lo trovava mad, bad and dangerous to know. Poi Byron non era tipo da arrendersi, e traboccava di fascino, e forse Caro non diceva del tutto sul serio. Fatto sta che nel 1812, per qualche mese, i due condussero un appassionato affair in quel genere di discrezione secondo cui tutti sapevano, tutti sussurravano e nessuno diceva ad alta voce. La faccenda finì per ennui di Byron – ma stavolta fu Caro a non accettare no come risposta. Raccolta e consolata dal marito nella quiete dell’Irlanda, la signora cominciò una campagna di ur-stalking. A parte le prevedibili lettere di suppliche, insulti e minacce, a parte i tentativi di introdursi in casa di lui, a parte i messaggi recapitati nei modi più improbabili, Caro rivelò un talento persecutorio fuori dal comune. Essendo perfettamente in grado di falsificare stile e grafia di Byron, riuscì a pubblicare delle poesie sotto suo nome e a farsi mandare da amici comuni un ritratto in miniatura… E se siete tentati di dispiacervi per Byron, potete farne a meno, visto che lui replicò colpo su colpo senza particolari esitazioni. Era il genere di gioco cui si gioca in due, e anche lui sapeva imitare – se non la grafia – lo stile di Caro.

E a volte non ne sentiva nemmeno il bisogno: a un “Remember me!” che lei riuscì in qualche modo a scarabocchiare su un libro che gli apparteneva, il nostro poeta rispose con questa amabile sestina:

Remember thee! Remember thee!
Till Lethe quench life’s burning stream
Remorse and shame shall cling to thee,
And haunt thee like a feverish dream!
Remember thee! Ay, doubt it not.
Thy husband too shall think of thee!
By neither shalt thou be forgot,
Thou false to him, thou fiend to me!Glenarvon

E intanto i mesi e gli anni passavano, e la faccenda diventava sempre meno privata, e la buona società mormorava, e i due si scambiavano colpi bassi con ossessiva ferocia… finché, nel 1816, Caro pubblicò – e qui arriviamo al punto – un romanzo gotico intitolato Glenarvon. Glenarvon è, vedete, la storia di una nobile fanciulla che non può sposare l’amatissimo cugino, vien data in moglie a un uomo che impara ad amare e poi però cade vittima delle seduzioni dell’eponimo ribelle irlandese fascinoso&tormentato, nonché seduttore seriale dalle identità multiple – nessuna di esse una brava persona.

Abbondano infanticidi, intrighi, maledizioni, duelli, tradimenti, agnizioni, crepacuore di varia natura, spettri e maledizioni e Glenarvon, perseguitato dallo spettro vindice di un monaco che gli ripete in continuazione “Hell awaits its victim,” impazzisce, si suicida – e muore in due tempi, perché a una bella scena di terrificante agonia non si dice mai di no.

Ora, forse tutto ciò non sarebbe stato poi troppo scandaloso, se non fosse stato per due particolari: in primo luogo, Glenarvon era un ritratto particolarmente malevolo di Byron – why, era l’atto di creazione dell’eroe byroniano fuori dall’opera di Byron, cosa che forse l’originale avrebbe anche potuto apprezzare, se non si fosse trattato di una drammatizzazione tanto crudele quanto trasparente di fatti fin troppo reali. Inutile dire che non solo Byron non ci faceva una gran figura, ma nella caratterizzazione, nella trama, nello stile – in tutto – si annusava un certo qual sentore di feroce parodia. E sospetto che l’assalto letterario fosse quel che rodeva di più, perché nel 1816 Byron non aveva più granché in fatto di reputazione da difendere – con tutta la pena che si era dato per distruggersela da sé. Glenarvon però dovette pungere a giudicare dal commento che sopravvive: “E ho letto il Glenarvon di Caro Lamb. Maledizione.”*

ByronIn secondo luogo, Caro non si era accontentata di sparare metaforicamente su Byron. Intelligente, aguzza e dotata di opinioni robuste, aveva colto l’occasione per fare a pezzetti molto piccoli l’alta società, la monarchia, il Reggente, un paio di governi, la repressione delle rivolte irlandesi… Donna imprudente.

È difficile per noi capire non solo la furia dell’alta società, ma la sua esitazione nel decidere quale tra i due peccati di Caro fosse il peggiore: l’imperdonabile cattivo gusto di un’adultera che scrive un romanzo kiss-and-tell** o la sfacciataggine abissale di una nobildonna che si fa taglientissime beffe del suo ambiente. Alla fine fine, benché fossero entrambi peccati capitali, fu la satira sociale a rovinare l’autrice, e Caro fu socialmente condannata. Un’offesissima Lady Jersey cominciò con l’escluderla dall’esclusivissimo circolo Almack – e bisogna avere letto Austen e Heyer per capire la gravità del gesto. Dopodiché fu la rovina. Ostracizzata e ridicolizzata, Caro si ritirò in campagna. Mai troppo stabile di suo, finì i suoi giorni tra alcol, laudano e attacchi di follia. Il solo a non abbandonarla fu il pur divorziato marito.

Questo ha l’aria di significare che bisogna essere cauti nello scegliere i propri bersagli, e mentre lo scandalo sentimentale tutto sommato ammacca ma non uccide, inimicarsi i propri pari è fatale. Forse, se Caro si fosse limitata a sparare su Byron, a sua volta assai poco popolare nel suo ambiente… ma d’altra parte era una donna – e senza voler salire sulle scatole di detersivo, Jane Austen aveva ragione nel dire che una donna pagava i suoi errori a un prezzo molto più alto di quello che si esigeva da un uomo… Morale? La vendetta per via di romanzo (gotico o meno), come molte altre cose, è meglio meditarla per bene – con un occhio alle conseguenze.

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* In originale rende di più: I’ve read Caro Lamb’s Glenarvon too. God damn.

** Byron fu più grafico nel descrivere l’impresa come un caso di fuck-and-publish… Mi sa che non l’avesse presa tanto bene.

Lug 29, 2013 - Anno Verdiano    Commenti disabilitati su Librettitudini Verdiane: Il Corsaro

Librettitudini Verdiane: Il Corsaro

Il Corsaro è un’opera scritta per ripicca.

Dovete saper che nel ’45 l’editore Ricordi aveva lasciato pubblicare sul suo Corriere Musicale di Milano una recensione men che benevola della Giovanna d’Arco. Verdi, in a dreadful miff, se ne andò dalla bieca concorrenza, l’editore Lucca, e firmò un contratto per due opere da rappresentarsi a Londra e Roma nel ’47 e ’48 – con cast di prim’ordine.

giuseppe verdi, il corsaro, byron, francesco maria piaveEd ecco che, a Masnadieri archiviati (e non strabene), Lucca si rifà vivo. E Verdi gli propone con entusiasmo il byroniano The Corsair. Sia chiaro che l’entusiasmo era tutto per il drammone – storia iperromantica di vendetta, amore & morte, popolata di pirati tragici, emiri malvagi, fanciulle greche e almee pugnaci – e niente affatto per l’editore, l’esosissimo e indelicatissimo sig. Lucca. Avendo avuto tempo di pensarci su, non è improbabile che Verdi si fosse pentito di essersi legato a un soggetto del genere per far dispetto a Ricordi, ma tant’è.

E sapete a chi si rivolge per il libretto? Non a Maffei, dopo il mezzo disastro dei Masnadieri, non a Solera, indignato ed esule in Spagna, e nemmeno a Cammarano – bensì il povero e bistrattato poeta-gatto Piave… E per qualche motivo che non so, nelle lettere Verdi è raddolcito. Sì, be’, raddolcito quanto può esserlo il Terribile Giuseppe (Stai diventando matto? […] Va, va a curarti all’ospedale!), ma abbastanza da apprezzare per iscritto il libretto, che definisce “verseggiato con pù cura del solito” e fatto con amore…

E no, non doveva essere facile lavorare con Verdi… Ma d’altra parte è chiaro che con Piave ci voleva pazienza. Quel che si può dire a favore di questo libretto è che è fedele a Byron – molto più di quanto si fosse preoccupato di essere il librettista della precedente versione operistica di Pacini, per esempio… Ma per il resto…

Andiamo a incominciar, e vedrete da voi.

Atto Primo

Siamo su un’isola dell’Egeo dove, all’ombra di una torre bisantina (sic), un coro di corsari si compiace della propria ferocia, concludendo:

Su godiam! ne’ ci caglia che il sangue
Dalla destra vittrice ne grondi,
L’allegria delle tazze confondi
L’imprecar del nocchiero che muor.giuseppe verdi, george gordon byron, il corsaro, francesco maria piave

Non adorate la gente che, all’opera, gongola di quanto è malvagia? Ma questa gente senza complicazioni è capitanata, come da tradizione da un giovanotto di voce tenorile, molti tormenti e animo tempestoso: Corrado, il corsaro eponimo, approva la foga dei suoi ma, quanto a lui, ha della furia da smaltire nei confronti dell’umanità tutta.. Perché, vedete, dapprincipio tutto pareva sorridergli…

L’aura, la luce, l’etere
E l’universo intero…

Essì: aura, luce, etere, universo… Capite che cosa intendo quando dico che con Piave ci voleva pazienza? Ad ogni modo, poi si direbbe che le felici premesse di Corrado si siano un nonnulla guastate, perché adesso lo ritroviamo esule e livoroso nell’Egeo. Che gli è successo? Non si sa. Chi era prima? Mistero. Chi l’ha esiliato? Non lo sapremo mai. Ci basti sapere che Corrado intende dare addosso agli Ottomani più vicini – per lo stupito entusiasmo dei suoi.

E non so se lo sbalordimento generale per il fatto che sarà Corrado in persona a guidare il blitz sia quanto di più lusinghiero per le qualità eroiche d’un tenore – but never mind, e spostiamoci invece nella torre bisantina, dove ha le sue stanze (con vista mare) la bella Medora, soprano e amante del Nostro.

giuseppe verdi, george gordon byron, il corsaro, francesco maria piaveOra, Medora è una di quelle donne che non sanno star da sole, e se la canta accompagnandosi con l’arpa. Oh, come si sente sola! Oh, come si sente triste! Oh, come vorrebbe morire piuttosto che starsene senza Corrado! Oh, come sarebbe meglio giacere nell’avello pianta da lui, piuttosto che vivere in sua assenza…

Figurarsi quando lui arriva soltanto per dirle che è in partenza. Segue una certa quantità di suppliche. E dov’è che vai? E perché vai? E resta, e bada che se te ne vai potresti non trovarmi al mio ritorno, perché potrei morire prima…

E francamente, nessuno di noi sa biasimare Corrado che si districa e va per la sua strada.

Medora sviene, noi le attribuiamo la palma della più insulsa eroina verdiana so far, e il sipario cala.

Atto Secondo giuseppe verdi, george gordon byron, il corsaro, francesco maria piave

Ci siamo spostati in una deliziosa stanza nell’harem di Seid. Dove siamo? A Corone. Chi è Seid? Il locale Bascià (sic), chiaramente l’Ottomano più vicino – nonché l’innamoratissimo padrone della schiava cristiana Gulnara. Gulnara in realtà detesta Seid, e non ne vuole sapere dei veli trapunti di gemme che un coro di odalische cerca di infilarle addosso…

E tuttavia, non è come se avesse molta scelta, povera ragazza. Quando arriva un Eunuco Nero ad annunciare che…

Seide celebra – con gioia e festa
Una vittoria – che egli otterrà,

e che la sua presenza è richiesta, Gulnara può solo portarsi dietro le odalische:

Verrò… voi pure – con me verrete.
Al suo comando – s’ubbidirà.

E le seguiamo anche noi, sulla riva del porto, dove gli Ottomani stanno… er, festeggiando preventivamente l’arrivo di Corrado e compagnia.

Mostriamci e l’infesta
Ciurmaglia cadrà.
Tremate, o corsari!
Su voi fulminando
L’invitto suo brando
Seid graverà,

sghignazza il coro – e a noi vien da dubitare che il fidato messaggero greco del primo atto non fosse poi così fidato…

Entra Seid che, con voce di baritono, scioglie qualche strofetta in lode di Allah. L’entusiasmo del coro è interrotto dall’arrivo di uno schiavo che annuncia un dervis (sic) sfuggito ai corsari e ansioso di favellare al Bascià.

giuseppe verdi, george gordon byron, il corsaro, francesco maria piaveE il dervis è… rullo di tamburi… Corrado travestito!

Seid lo interroga con una certa asciuttezza:

Onde, o Dervis?
E dove preso, e quando?
Chi t’ha salvato?

E il finto fuggitivo dice di non sapere nulla, di non avere visto nulla, di non avere alcunché d’interessante da dire… Seid potrebbe insospettirsi, non fosse che, proprio in quella, scoppia un incendio tra le navi ottomane ancorate nel porto.

A Seid pare che il dervis gioisca un nonnulla troppo* e ordina di catturarlo e tosto ridurlo in brani, ma Corrado getta mantello e cappuccio, si rivela, suona il corno, incita i suoi prodi, e quelli arrivano brandendo le spade e ricacciano indietro gli Ottomani.

A che è servita la mascherata di Corrado? Mah… Perché i corsari dovevano aspettare il suo segnale? Boh… In Byron la scena aveva qualche senso, ma Piave ha tagliato qualche angolo. giuseppe verdi, george gordon byron, il corsaro, francesco maria piave

Oh well. Mentre la battaglia infuria, la preoccupazione prima di Corrado sembra essere quella di salvare le donne dell’harem. E mentre i corsari se ne fuggono portandosi dietro le odalische (incidentalmente, Corrado ha beccato proprio Gulnara), ecco che arriva Seid alla riscossa, con un sacco di Ottomani.

I corsari si devono arrendere, e Seid promette vendetta tremenda vendetta, e vi riporto un paio di quartine, perché sì:

Audace cotanto – mostrarti pur sai?
Vedremo, superbo, – vedrem se potrai
Nell’ora suprema – la sorte tua estrema
Con ciglio securo – mirare, incontrar.

E questo era Seid, cui Corrado risponde:

Pei vili tuoi pari -tremenda è la morte,
Ma chiusa è al terrore – quest’anima forte.
Vedrai se il tormento – mi strappa un lamento
Quel gaudio infernale – non devi gustar.

E insomma, i corsari mugugnano, il coro ottomano esulta, le odalische sono impressionate e Gulnara… ah, Gulnara si innamora sul campo del fiero, audace e cavalleresco Corrado.

Tanto è vero che, quando Seid promette a Corrado e ai suoi ogni genere di terribili e innovative torture, la ragazza guida le odalische in un piccolo coro di supplica. Non che serva a nulla, ma ci hanno provato – per la scarsa soddisfazione di Seid.

E sipario!

Atto Terzo

giuseppe verdi, george gordon byron, il corsaro, francesco maria piaveSeid, l’abbiamo detto, non è contento. Ha un paio d’occhi, e ha visto come Gulnara guarda il prigioniero… tant’è che la fa chiamare e, per metterla alla prova, le annuncia l’intenzione di suppliziare Corrado…

“Ma, o Clarina, lo sapeva già!” odesi dal loggione.

E bisogna pensare che si fosse distratta, perché nell’entrare, per prima cosa, chiede a Seid se ha vinto…

“Ma, o Clarina, c’era anche lei!” esclamasi ancora lassù in piccionaia.

E lo so. Prendetevela con Piave, volete? Con Piave che, quando Gulnara suggerisce che forse varrebbe la pena di tener vivo Corrado e chiedere un serio riscatto, fa rispondere a Seid:

Nol farei franco – per quante gemme
Del mio Sultano – chiude l’Haremme.

E ad ogni modo, Gulnara si è tradita. Seid le revoca tutti i privilegi, e lei risponde con qualche vaga minaccia della varietà non-sai-di-che-sono-capace.

Noi qualche sospetto l’abbiamo, vero? E per verificarlo ci spostiamo nella torre**/prigione dove Corrado carico di catene alteramente passeggia. Dev’essere comodo… E mentre passeggia si duole delle circostanze e del colpo che la sua morte sarà per la povera Medora e poi, per dimostrare che ha un’anima d’acciaio, si dispone a ingannare il tempo con un pisolino.

Ma in queste prigioni ottomane non si riesce nemmeno a dormire in pace senza che ti piombi tra capo e collo una donna innamorata che, dopo averti informato di non sapere troppo bene perché è venuta, né come fare per salvarti, si ricorda di avere corrotto le guardie per farti fuggire, e si ritrova in tasca (oh, ma guarda!) la chiave dei ceppi e un pugnale per uccidere Seid. giuseppe verdi, george gordon byron, il corsaro, francesco maria piave

I nostri due indugiano il tempo che serve a scambiarsi qualche confidenza sul fatto che l’uno ama Medora e l’altra odia Seid, e Corrado fa qualche difficoltà – prima perché se non ha saputo vincere gli sembra brutto sottrarsi alle conseguenze, e poi perché lui no, non è tipo da pugnali… No, nemmeno se si tratta di salvare se stesso, i suoi e Gulnara. No, nemmeno se rimanere significa condanannare a morte anche la ragazza che un atto fa ha rischiato tutto per salvare dal fuoco…

Gulnara, non incomprensibilmente, si altera un nonnulla.

GULNARA:
Di seguirmi tu dunque disdegni?

CORRADO:
Io disdegno…

GULNARA:
Terror d’un pugnale
Provi tu, masnadiero, corsale?
(Risoluta)
Un imbelle a vibrarlo t’insegni!

“Ah, che fai?” le grida dietro l’intuitivo Corrado. E Gulnara, ci dice Piave, fugge rapidamente pel cancello brandendo colla massima esaltazione il pugnale.

Odesi un tuono, e Corrado se ne resta lì a sperare di morire… dove si capisce che dopo tutto lui e Medora sono a match made in heaven.

Un istante più tardi, la nostra tostissima fanciulla ritorna con il pugnale insanguinato – e Corrado l’accoglie al grido di

Tu?… Gulnara, omicida!…

Lei gli fa notare che l’ha fatto per lui, lui finalmente si decide ed entrambi scappano.

giuseppe verdi, george gordon byron, il corsaro, francesco maria piaveMa precediamoli all’isola sull’Egeo, dove Medora se ne sta a piagnucolare sul molo, dicendo al coro che sa che Corrado è morto, e che è contentissima di seguirlo nella tomba… Ma che appare là lontan sul mare? Una nave! E che nave sarà? È una nave amica! E chi mai ci sarà a bordo? È Corrado!

Il coro esulta, e noi ci aspettiamo che esulti anche Medora, giusto? E allora perché invece la fanciulla assume quest’aria inorridita?

Perché, e ce lo lascia capire mentre corsari, ancelle, Corrado gioiscono per quella che sembra una felice conclusione, lei è genre savvy, e lo sa che all’opera non va mai a finire bene. Così, sulla fiducia che Corrado fosse morto, si è avvelenata. E già, non voleva altro fin dall’atto primo…

Adesso però le sorge il dubbio di essere stata un tantino precipitosa – anche perché chi è questa bellezza in vesti trasparenti che accompagna il suo amante e si torce le mani piena di rimorso?

Conscio dell’urgenza del momento, Corrado le riassume il secondo e terzo atto alla velocità del lampo:

Per me infelice – vedi costei;
Rischiò suoi giorni – pe’ giorni miei.
Fu di Seide – la favorita;
Ardea l’haremme, – salvai sua vita.
Grata e pietosa – le mie ritorte
Infranse, e tolsemi – da orrenda morte;
Fuggimmo insieme. –

Oh! esclama il coro… giuseppe verdi, george gordon byron, il corsaro, francesco maria piave

Ma Gulnara non vuole essere ringraziata: l’ha fatto per amore e, se adesso Medora muore, stia pur certa che lei e Corrado la ricorderanno sempre. Insieme.

Yes, well. Ma la nostra ex almea ha fatto i conti senza l’oste – o almeno senza il corsaro che, non appena Medora muore, si butta in mare con tutta l’intenzione di seguirla nella tomba.

Che fai? Corrado!… Ah corrasi
Quel misero a salvar!

strepitano i corsari, ed escono di scena – come pure escono di scena le ancelle, portandosi via la defunta, e lasciando Gulnara a svenire tranquillamente in privato.

Sì, ecco, appunto.

E comunque, una volta visto il libretto – pur verseggiato con amore – a Verdi l’entusiasmo era scemato alquanto. Tanto che compose un po’ così e poi, a opera pronta, non si fece nemmeno vedere alla prima triestina, in barba agli obblighi contrattuali.

E un po’ per l’assenza del compositore, un po’ per i modesti meriti di libretto & musica, il povero cast di prim’ordine (tra gli altri Gaetano Fraschini e la Barbieri-Nini) dovette accontentarsi di un tiepido successo.

E se avete l’impressione che quello di comporre un po’ come veniva stesse diventando un vizio di Verdi, non so davvero darvi torto…

 

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* “Non riesce a trattenere la gioia,” c’informa Piave. Questo sì che si chiama andare sotto copertura…

** Visto? Quando manca la caverna c’è la torre.