Set 14, 2010 - grillopensante    2 Comments

Compagni Immaginari

220px-Harvey_1950_poster.jpgSono sconcertata.

Intendevo scrivere un post sui compagni immaginari, credendo di trovarne all’infinito nella letteratura per fanciulli, e in effetti è così, ma sembra che siano per lo più nella letteratura per fanciulli – e per fanciulli grandi – angloamericana. Non solo, scopro anche che in Italia l’idea del compagno immaginario tende ad essere considerata lievemente malsana.

Ossignor.

Quindi scopro anche che per anni ho avuto abitudini lievemente malsane e non lo sapevo…

Se non bastasse, scopro in rete un esercito di madri preoccupate per l’equilibrio dei loro pargoli e di gente che guarda con disapprovazione alla disinvoltura con cui gli Anglosassoni trattano l’argomento. Potrei citare autori come Neil Gaiman (il cui taglio è, come ci si potrebbe aspettare, un nonnulla inquietante, ma facciamo finta di nulla), come Cecelia Ahern, come Jodi Picoult, come Patricia Polacco (il cui adorabile e geniale Emma Kate rivolta l’intero concetto come un guanto), come Maurice Sendak (peccato per il film!), come A.A. Milne e, naturalmente, Bill Watterson.

Perché, ebbene sì, Winnie The Pooh e Hobbes sono compagni immaginari – o come altro chiamare degli animali di pezza resi vivi dalla fantasia dei loro padroncini? Un altro caso di questo genere è Emily, la bambola di Sara Crewe ne La Piccola Principessa. Adesso mi comprometto dichiarando che LPP è, a mio avviso, una piccola gemma sottovalutata, ben diversa da altre storie strappalacrime per fanciulli, da cui si differenzia celebrando il potere dell’immaginazione. Pensandoci bene, la faccenda merita un addendum tutto suo a questo post, ma per il momento non divaghiamo e limitiamoci a ricordare come Emily non sia “la bambina” di Sara, bensì un’amica e confidente con cui condividere la nostalgia per l’India e il padre lontano: un’amica immaginaria a tutti gli effetti.

Non tutti i compagni immaginari sono giocattoli in partenza, e a questo proposito mi viene in mente un raro esempio italiano: naturalmente adesso non la trovo più, ma mi pare proprio di ricordare una filastrocca intitolata Il Buio è un Cavaliere*, in cui un bambino affronta la paura del buio trasformando la temuta oscurità in un amico immaginario.

Questo sembra esemplificare bene le teorie sostenute da alcuni studi recenti, secondo cui una percentuale altissima di bambini si crea almeno un compagno immaginario, traendone conforto, complicità e divertimento, superando paure e difficoltà, elaborando eventuali traumi, esercitandosi ai rapporti sociali, al dibattito e alla riflessione. Non mi sembrano cattivi risultati.

Cinema e televisione hanno proposto una serie infinita di compagni immaginari, e credo che citerò un paio di casi soltanto: l’eponimo coniglione Harvey e le tenere bestiole di Miss Potter. Ho scelto tutti questi conigli per due motivi precisi. Il primo è che Wikipedia ha un’intera pagina dedicata alla discutere la natura di Harvey: secondo una scuola di pensiero, non sarebbe un compagno immaginario propriamente detto, perché nel film si afferma esplicitamente che è reale. Lo stesso sembrerebbe dover valere per Hobbes, le cui azioni sembrano avere talvolta risultati reali, come le palle di neve tirate a Calvin. Non sono del tutto certa di essere d’accordo: molti compagni immaginari fittizi** assumono vari gradi di realtà all’interno delle loro storie, ma questo ha che fare con la natura della finzione narrativa e la sospensione dell’incredulità, più che con la natura immaginaria dei compagni stessi.

In secondo luogo, sia Harvey che Miss Potter descrivono compagni immaginari di persone adulte. Naturalmente, Elwood è considerato matto (hence il suo trionfo sugli increduli quando Harvey risulta essere reale) e Beatrix irreparabilmente eccentrica, ma per entrambi i compagni immaginari sono presenze positive. Per BP sono addirittura una sorta di personificazione dell’immaginazione creativa: vere e proprie muse con tanto di coda lanosa. E se pensate che questa sia un’iperbole narrativa, lasciatemi terminare con la storia di Paul Taylor.

Paul Taylor fu un grande coreografo americano, un innovatore e un eclettico. Aveva un compagno immaginario, un singolare personaggio provvisto di un dottorato e varie onorificenze, cui attribuiva pubblicamente il merito di parte del suo lavoro. E no, Taylor non era scisso e non mancava di alcun venerdì: il suo amico immaginario era una proiezione di parte della sua creatività (forse quella consapevole, se bisogna giudicare dai titoli accademici, ma non è detto…), una versione adulta di quelle sagome colorate o quegli animali di pezza in cui il bambino trova confronto, gioco e stimolo intellettuale. E scusate se è poco!

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* C’è una raccolta di fiabe di Marina Valcarenghi con questo titolo, ma non so se la filastrocca ne faccia parte. Se avessi dovuto azzardare un autore, avrei detto Rodari. Però stiamo parlando di ricordi vecchi di trent’anni, e potrei sbagliarmi di grosso.

** Nel senso di “compagni immaginari di personaggi fittizi”, as opposed to “compagni immaginari di persone reali. Come definiremo allora i compagni immaginari dei ritratti fittizi di persone reali? E fa differenza se la persona reale in questione aveva davvero un compagno immaginario? Sento che mi sto avviando per una strada molto tortuosa…

Compagni Immaginariultima modifica: 2010-09-14T08:50:00+02:00da laclarina
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2 Commenti

  • Ciao Clarina! Mi soffermo sull’esercito di madri angosciate per i loro pargoli e scandalizzate dalla disinvoltura anglosassone con cui si tratta l’argomento “compagni immaginari” ( e secondo me anche mondi immaginari…): ciò che mi ha sempre colpito di una parte della letteratura e del cinema inglesi, non solo per ragazzi, è la leggerezza che accompagna anche i temi più angoscianti. La realtà è ben presente nella narrazione (penso alle Cronache di Narnia, in cui i quattro fratelli protagonisti hanno il padre in guerra e sono costretti a lasciare madre e casa per salvarsi dai bombardamenti, oppure al film Full Monty, in cui il tema della disoccupazione è secondo me molto più significativo dello spogliarello per cui il film è celebre), eppure i protagonisti riescono in qualche modo a vincere su di essa, ritrovandosi in mondi fantastici o accompagnandosi ad amicizie improbabili, che però salvano la vita, ebbene si. Le preoccupazioni dei genitori nostrani secondo me dipendono in gran parte dalla cultura cattolica radicata e poco incline a divagazioni fantastiche (che hanno sempre un che di ingannatore e diabolico): Tolkien era cattolico, ma forse solo in Inghilterra poteva esistere uno scrittore così.
    Lo stesso motivo per cui in Italia un film sulla disoccupazione finisce con divorzio-suicidio-abbandono e in Inghilterra con spogliarello-risate e amici al pub-coraggio di andare avanti. E’ proprio un altro modo di vedere la vita, ma soprattutto la funzione dell’arte. Amo l’immaginifica fuga (non diserzione!) dalla realtà della letteratura inglese!
    Un saluto,
    Della

  • Ciao, Della!
    Interessante teoria, e sarei completamente d’accordo se si trattasse soltanto di Anglicani dall’altra parte… ma devo dire che Luterani, Presbiteriani, Calvinisti e via dicendo non mi colpiscono come gente particolarmente portata alle gioie dell’immaginazione. Ho in mente un documento puritano del tardo Cinquecento inglese in cui il Cattolicesimo è condannato come “fancifull persuasion”, per via della Leggenda Aurea, degli Angeli Custodi, delle Anime del Purgatorio e altri consimili “voli di fantasia”.
    Ciò detto, è inutile che mi soffermi ancora sulla mia passione per tutta la componente nonsense della letteratura inglese, vero? 😀