Dic 5, 2012 - editing, pennivendolerie    21 Comments

Il Mestiere Dell’Editor

In questo post si parlava, tra l’altro, di editing ed editor. E proprio a proposito di queste bizzarre creature. S. rimuginava:

Ma perché esistono? Non sarebbe più utile giudicare la capacità dello scrittore di sfornare il prodotto “chiavi in mano”? 

Ecco, in realtà non proprio. La pubblicazione non è un esame di buona scrittura – e meno ancora di buona sintassi e grammatica. E lo scrittore novellino capace di sfornare un romanzo “chiavi in mano”, tirato a lucido e pronto per la pubblicazione è una specie di araba fenice. Che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa. Però provate a immaginare un buon romanzo scritto così così. Ottima storia, personaggi accattivanti, atmosfera perfetta – e sintassi spaventosa. Meglio gettare tutto alle fiamme o meglio mettere all’opera qualcuno che addomestichi la consecutio temporum?

Uno così non è uno scrittore, dite? Non saprei. Facciamo un esempio illustre. Quando si ritrovarono sulla scrivania il manoscritto di Jane Eyre, da Smith, Elders & Co. si resero subito conto di avere per le mani qualcosa di notevolissimo. Però lo spelling del misterioso Currer Bell era atroce, e la punteggiatura pareva sparsa con il salino, tanto era erratica e selvaggia*. Se a pagina quattro George Smith avesse deciso che Bell non sapeva scrivere e avesse gettato tutto nella stufa, quello sarebbe stato il funerale vikingo di Jane Eyre. Invece Smith fece disdire tutti i suoi appuntamenti, lesse (faticosamente) tutto in un giorno e una notte e l’indomani scrisse a Currer Bell offrendo un contratto di pubblicazione. Dopodiché mise al lavoro il protoeditor William Smith Williams, e tra loro due resero leggibile la notevole prosa di Charlotte, procurando a Smith, Elders & Co. un best seller, e un classico alle generazioni future.

Altre volte invece si tratta di buchi in una trama altrimenti buona, di lungaggini, di magagne dovute all’inesperienza dell’autore. A parte tutto il resto, si può anche pensare che lavorando con un buon editor l’autore possa imparare dai propri errori – cosa che potrebbe in teoria fare anche da solo, ma diventa più facile e più costruttiva se qualcuno gli punta il naso nella direzione giusta.

Esempio non strettamente narrativo – ma siamo in zona: in teatro si fa workshop. Una volta giunto a una ragionevole stesura, l’autore si procura un po’ di attori (oppure, se è fortunato, la stessa compagnia che metterà in scena il lavoro) e li guarda fare una specie di lettura drammatica del testo. In genere si tratta di una lettura in piedi con il copione in mano, in modo da vedere come funziona. Questo non solo perché ci sono cose che sono perfette sulla carta e disastrose in scena, ma anche perché attori e regista hanno più esperienza e una percezione migliore della meccanica teatrale. Hanno occhio per le implausibilità, orecchio per le rigidità e le lungaggini. E l’autore… be’, l’autore dovrebbe limitarsi a prendere appunti e trarne beneficio, reprimendo tutti gli istinti omicidi.

E nessuno pensa male dell’autore teatrale che passa i suoi testi a questo specifico tritacarne. Magari non molti sanno che succede – e forse in Italia, tanto per cambiare, succede meno che nel mondo anglosassone – ma tant’è. Non è poi così diverso dall’editing.

Provate a immaginare l’editor come una specie di regista, che media tra l’autore e il pubblico, forte della sua conoscenza della meccanica. Perché la scrittura è un mezzo espressivo e come tale, piaccia o no, ha una meccanica, dei principi, un funzionamento. Ed è su questo che l’editor lavora.

Poi c’è una legittima, legittimissima domanda successiva: dove si ferma l’editor?

[… S]arei felice di poter leggere quello che l’autore di un romanzo pensava fosse la stesura definitiva, prima che un editor gli spiegasse che cosa io avrei voluto leggere,

rimuginava ulteriormente S.

Ah, well, questa è un’altra faccenda. Tutti abbiamo sentito storie come quella di Gordon Lish & Raymond Carver (i cui racconti, ripubblicati in forma pre-Lish dopo la sua morte, erano… be’, tutt’altro), o quella di Susannah Clapp & Bruce Chatwin (che di suo non era affatto terso e stringato come lo conosciamo e amiamo)… E peggio ancora, tutti abbiamo sentito storie molto più truci, perché non tutti gli editor sono Lish o Clapp. Il problema è che ci sono cattivi editor, editor così così, editor criminali e buoni editor che lavorano al servizio di politiche editoriali tra l’aggressivo e il criminale**, tese alla standardizzazione di un prodotto.

Quello dell’editor è un mestiere come un altro. Ok, forse un po’ più misterioso della media – perché in fondo si tratta di lavanderia glorificata, ed è il genere di faccenda che sarebbe molto meglio, a mio timido avviso, praticare dietro le quinte. E forse anche un po’ più indefinito e indefinibile della media, perché può funzionare in tutta una varietà di modi, dal leggere il Riot Act ai congiutivi sballati fino a rimaneggiare/amputare/ricucire la storia.

Resto però dell’idea che, per rispondere a S., gli editor esistano perché un buon editing può fare molto per un buon testo imperfetto. E che la miglior definizione del mestiere l’abbia data Arthur Plotnik:

Voi scrivete per comunicare ai cuori e alle menti altrui quello che vi brucia dentro. E noi editiamo per eliminare il fumo e far brillare il fuoco.

 

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* E lo stesso valeva per Ellis e Acton Bell. Quando consideriamo che si trattava in realtà delle Misses Brontë, tre insegnanti/istitutrici, intenzionate ad aprire una scuola tutta loro…

** Se volete sorridere (un po’ storto) in proposito, leggetevi La Storia Del Lupo, di Davide Mana.

Il Mestiere Dell’Editorultima modifica: 2012-12-05T08:11:00+01:00da laclarina
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21 Commenti

  • Credo che S. fosse alquanto influenzato dagli standard dell’editoria scientifica “hard”. Non nel senso malizioso, ma nel senso di “altamente specializzato”. Quelli sono settori in cui la forma conta infinitamente meno del contenuto: e chissenefrega se la punteggiatura di un libro di fisica dell’atmosfera non segue gli standard dell’Accademia della Crusca, è sufficiente un livello decente di correttezza.

  • Altro mondo, naturalmente – per quanto mi venga da pensare che anche la fisica dell’atmosfera diventi più comprensibile se è scritta in Italiano/Inglese/Sanscrito scorrevole…
    Dopodiché i rovelli di S. erano perfettamente sensati – e speriamo che S. abbia trovato nel post qualche genere di risposta. 🙂

  • Mi permetto di dissentire, Simone.
    L’editoria scientifica ha degli standard di formattazione del testo molto precisi e stringenti – MLA o APA formatting styles, ad esempio.
    L’Università di Chicago pubblica il fondamentale Chicago Manual of Style (che è la Bibbia per qualsdiasi attività editoriale nel mondo anglosassone) ma anche delle guide specifiche per stile e formattazione di articoli e testi scientifici.
    Aggiungo infine che è dimostrabile – non ho i dati alla mano ma sono stati pubblicati, ed è divertente leggerli – che un articolo scritto bene, in altre parole che vada il più possibile al di là del livello minimo di decenza, ha maggiori probabilità di essere pubblicato, di solito riesce a ottenere la pubblicazione su riviste a impact factor maggiore, e fra quelli pubblicati sulla stessa rivista ma meno piacevoli alla lettura, ottiene più citazioni.

    Insomma, scrivere bene in ambito scientifico, anche nell’ambito delle scienze di base, permette di raggiungere più lettori.

  • Caro Davide, nella mia esperienza ho notato che la prassi è ormai quella di pubblicare gli articoli esattamente come approvati dai referee. E siccome i referee (noi referee, dovrei scrivere) tendenzialmente non possiamo né vogliamo correggere la sintassi, le case editrici quasi sempre pubblicano “as is”.
    Ti potrei indicare un recente libro di un mio collega, dal quale ho imparato molto vent’anni fa. È apparso per i tipi di una delle più potenti case editrici internazionali, e sembra una prima bozza. Caso isolato, che non fa statistica. O forse sì?

    Però attenzione a non confondere l’editoria scientifica “per il volgo” con quella per gli scienziati. Chiaro che Cambridge University Press tiene alla forma e alla grammatica, ma l’interesse diminuisce per un testo come “Advanced algebraic topology” o “Non-smooth critical point theory”.

  • Mi è rimasta in mente un’intervista di Davide Malesi all’autore di “La vera storia di Long John Silver”, Björn Larsson. La domanda era “Qual è il tuo autore preferito, oltre a Stevenson” (cito a memoria). E Larsson spiazzò l’intervistatore spostando il discorso sul ROMANZO preferito.

    Anche io sono uno di quelli a cui giudicare l’autore interessa meno, preferisco parlare del risultato, e se al risultato ha contribuito positivamente un editor, be’, tanto meglio per il lettore, per l’autore e per l’editor, no?

  • Evidentemente non solo ho sempre letto testi atipici, ma anche i referee e gli editor dei miei lavori (non esattamente popular science) dovevano discostarsi dalla moda, considerando che questioni di stile e sintassi erano sempre molto curate e si insisteva su entrambe almeno quanto sui contenuti.
    In linea di massima, il referee si occupa dei contenuti (al limite segnalando qualche svista sull’inglese), l’editor della forma.
    E finora li ho sempre trovati inflessibili.
    Non che la cosa mi sia mai dispiaciuta.

  • occhei, ora ho capito pure io a cosa servono gli editor (prima non mi era chiarissimo). se il testo è imperfetto (e pare di capire che lo sia sempre) l’editor lo riscrive meglio.
    però adesso avrei delle domande, eh. facciamo che ne scrivo due.
    la prima è che non capisco perché l’editor non metta la firma sul libro. voglio dire, se modifichi una cosa, prenditi le tue responsabilità, no? insomma, io ne ho letti parecchi di libri pessimi (errori di stampa, vocaboli usati a caso, incongruenze di trama), perché non posso sapere di chi è la colpa? (o il merito, se il libro invece è riuscito bene. ma lì mi dovresti spiegare cos’hai cambiato per renderlo migliore, per capire se sono d’accordo).
    la seconda è che adesso che ho capito a cosa serve un editor non capisco bene a cosa serve un autore.
    insomma, se tutti gli autori hanno bisogno di editing, perché il libro non lo si fa scrivere direttamente all’editor? lui dovrebbe esserne capace, no?

  • @Davide & Simone: è possibile, immagino, che anche in campo scientifico ci siano standard differenti, e che non sia necessariamente solo una questione di target. Non è come se in campo narrativo tutti gli editori fossero terribilmente rigorosi. Inclino a credere che quasi ogni rivista abbia le sue politiche in fatto di stile e di editing.

    @Andrea: interessante osservazione. Ci sono autori di cui adoro ogni riga, e autori di cui ho sposato un singolo libro – ma non vado pazza per il resto della famiglia. Quanto all’essere meglio per tutto se il risultato è buono, sembra intuitivo, ma in Italia c’è questa romantica avversione per l’idea di un editor che smussa gli spigoli e lima la forma, che fa tanto “mestiere” anziché “arte” – pardon: Arte. Anche per questo è meglio per tutti se l’editor lavora dietro le quinte.

  • @Eddie: allora, vediamo un po’. L’editor non firma il libro perché il libro non è suo. L’editor tira a lucido quel che l’autore scrive. E quello è il mestiere dell’editor – mentre quello dell’autore è scrivere il libro. William Smith Williams non avrebbe saputo scrivere Jane Eyre, ma Jane Eyre non sarebbe leggibile senza l’intervento di WSW. WSW ha reso il romanzo comprensibile e leggibile per tutti coloro che non appartenevano alla famiglia Brontë.
    Ci sono autori che editano, ci sono editor che scrivono, ma l’editor non ha bisogno di saper scrivere per editare. E quando ci provano non è detto che lo sappiano fare. Quando Gordon Lish, che pure è il dio americano degli editor, ha provato a darsi alla narrativa, ha fatto abbastanza fiasco. Una delle funzioni dell’editor è quella di fornire un paio di occhi estranei, occhi che vedano quello che vedrà il lettore – dall’esterno. È il motivo per cui non mi edito mai da sola. Io so quello che voglio dire, e lo so anche quando taglio angoli e mi esprimo “in codice”. Perché quel che intendevo e ho lasciato criptico sia comprensibile, a volte occorre un po’ di traduzione. Occorre che qualcuno mi dica che cosa non è chiaro.
    Dopodiché, da nessuna parte è scritto che tutti gli editor siano bravi. Ci sono ottimi editor e ci sono editor incompetenti. Ci sono autori che rifiutano l’editing (se hanno abbastanza potere negoziale presso l’editore…) e ci sono editori che risparmiano sull’editing.
    L’editing non è la panacea, e gli editor sono fallibili…

  • uh. prima di tutto grazie per la spiegazione.
    ma mentirei se dicessi che mi è tutto chiarissimo (ma è colpa mia, faccio fatica a visualizzare, visto che parliamo in astratto e non ho mai visto lavorare un editor, né uno scrittore).
    ho capito che autore e editor lavorano, per così dire, in sinergia (brutta parola, ma rende l’idea). uno ci mette il testo, l’altro lo ripulisce. questo mi è abbastanza chiaro.
    ma ho capito anche che l’editor interviene per rendere “leggibile” un libro, e fornire all’autore una visione dall’esterno.
    il che significa che l’autore ha scritto un libro “buono” ma non “leggibile”. ma allora cosa rende “buono” un libro illeggibile? la trama? i personaggi? un insieme di cose? il fatto che l’editore spera di venderlo? (io ho questa idea che i libri gli editori li pubblicano perché vogliono venderli, mica che pensano alla qualità. sempre che ci sia modo di definirla, la qualità di un libro).
    un’altra cosa che non capisco è perché l’editor non abbia bisogno di saper scrivere per editare. forse non so cosa si intende per “saper scrivere”, ma insomma. trovo difficile capire come si possa intervenire su un testo non sapendo scrivere, credo che se afferrassi questa cosa, forse capirei il nodo della questione.
    anche l’aneddoto di lish non mi aiuta granché, messa così sembra quasi che un editor sia un bravo scrittore che però non ha idee, e quindi lavora su testi altrui (e questo mi confonde ulteriormente le idee, perché se lavori sui testi altrui, mi immagino che tu sappia scrivere, e che invece ti manchi la creatività).
    insomma, sono curioso, ma forse sono anche lento a capire, e non vorrei tediarti.

  • Allora, riproviamo: torno sempre a Jane Eyre, che era un romanzo assolutamente originale, con dei personaggi singolari, una buona storia e delle idee notevoli, e anche un buon uso della lingua – se si eccettua il fatto che non aveva punteggiatura e lo spelling era poco meglio che casuale. Non è che fosse illeggibile: era materialmente difficile da leggere, perché non teneva conto di regole essenziali per la comprensione generale.
    D’altra parte, l’editor non aveva bisogno di saper scrivere un romanzo per sistemare questi aspetti.
    Come un accordatore di pianoforti non ha bisogno di essere Marta Agerich per accordare il piano, e dubito che Marta Argerich si accordi da sé i pianoforti su cui suona.
    Come un allenatore sportivo non ha bisogno di essere un’assoluta stella del suo sport – ma sa coordinare, preparare e indirizzare i suoi atleti.
    Meglio?

  • Aggiungo una diversa angolazione: l’editor dovrebbe fornire all’autore le osservazioni e le preferenze di un lettore imparziale, e quindi è prima di tutto un lettore.
    Nel senso che l’autore, quando scrive, ha in mente un lettore ideale, al quale idealmente si rivolge.
    L’editor dovrebbe rappresentare le aspettative di un lettore un po’ meno idealizzato, più vicino al mercato.
    Perché io che scrivo posso anche immaginare che il mio lettore ideale adori la mia lunga divagazione sulle pratiche equestri delle tribù ngolok della Mongolia orientale, ma il mio editor sa che il lettore standard del mio genere di narrativa, dopo tre pagine di dettagli equestri, si stanca – e quindi mi consiglia di tagliare le sedici pagine successive.
    Ci litigo, lui mi dimostra la bontà del suo argomento, si passa al capitolo successivo…

    Il problema è l’effetto di standardizzazione che ne può derivare – ma se abbiamo a che fare con un buon editor, questi dovrebbe essere in grado di preservare il mio linguaggio, la mia freschezza stilistica e le mie qualità narrative, eliminando ciò che nessun lettore sarebbe disposto a digerire.

    Esistono poi autori che possono passare direttamente dalla macchina per scrivere alla pagina stampata – Harlan Ellison è un classico esempio (e quello di scrivere in pubblico passando ogni nuova pagina direttamente ai lettori è un suo famoso esercizio per demistificare la figura autorale).
    Ma sarà un caso, Ellison è anche un superlativo editor.

  • Concordo. È l’aspetto cui calza meglio il paragone registico-teatrale.
    Dopodiché, in un mondo ideale tutti gli editor sarebbero bravi, attenti ai particolari, rispettosi della personalità dell’autore, competenti e bravissimi a fare il caffè…

  • Molto interessanti: sia il post sia i commenti.
    E meravigliosa la definizione di Plotnik.

  • per la mia comprensione mi aiuta di più il commento di davide, cioè pensarlo come un lettore (o meglio, IL lettore standard).
    questo mi chiarifica molto l’idea di cosa faccia un editor, per lo meno a livello teorico.
    per quanto, come dice davide, nascano poi i problemi di appiattimento del testo (se l’editor non è bravo, occhei).
    ma qui si entra nel discorso di cosa si possa chiamare “buona narrativa” e “perché sia buona”, che è un discorso forse più estetico che tecnico, e che per me è molto, molto, molto complesso (ci ho pensato su molto, ma non riesco a uscirne in maniera intelligente).
    comunque adesso ho le idee molto più chiare di prima sugli editor, grazie.

  • Eh no, adesso però non tiratemi fuori la storia del “lettore medio”, per favore. Perché dobbiamo arrivare al punto in cui un libro è degno se “piace al bimbo e piace al nonno”? Come diceva S., non è bello che un editor decida quello che piace al lettore. E, aggiungo io, non è bello nemmeno che i lettori impongano agli editor i loro gusti.

    Che fine hanno fatto i libri che vanno contro corrente? Non ci sono più autori che sanno chi sono e sanno per chi scrivono? Se l’autore vuole diciannove pagine di descrizione dell’erba del prato, è un suo diritto. Se poi l’editore (con la “e” finale) non se la sente, non lo pubblicherà. Ma è alquanto triste che ci sia una figura in mezzo che spiega all’autore come deve scrivere per far contento l’ipotetico “lettore quadratico medio”.

  • @Jane: Plotnik è una notevole persona.

    @Eddie: be’, il concetto di buona narrativa non solo è complesso, ma anche abbastanza mutevole nel tempo. Ci fu gente che giudicò l’atroce The Admirable Crichton di W.H. Ainsworth “primo e inarrivabile tra tutti i romanzi inglesi di ogni tempo”, e ci fu chi rifiutò sdegnosamente Il Gattopardo… Diciamo che l’editor si occupa dei lettori del suo tempo.

    @Simone: adoro quando i gelidi matematici si fanno lievemente sentimentali nelle loro idee sull’editoria… 🙂 No, ok: non picchiarmi, ma il fatto è che a) qualcuno deve pur decidere che cosa pubblicare; b) l’editore medio deve vendere libri e stare a galla, non selezionare l’oscuro capolavoro che farà felice la posterità; c) se un primo capitolo di descrizione dell’erba che cresce rende invendibile un romanzo altrimenti interessante, anche l’autore farà bene a domandarsi se l’erba sia più importante dell’essere effettivamente letto.
    Anche perché il fatto che il capitolo erboso piaccia tanto all’autore non significa che sia narrativamente efficace… Non si tratta di piacere al nonno e al bimbo, si tratta di piacere al genere di lettore che legge quel genere di libro.
    Il che non significa che non si commettano crimini in nome dell’editing e del mercato. Ma di nuovo: stiamo ipotizzando un buon editore che impiega un buon editor e pratica buone politiche editoriali.
    E intanto nevica. 🙂

  • Ho cercato tra le categorie l’argomento più spinoso e delicato da trattare, l’elevato numero di commenti mi dà ragione.
    Tu sei una editor….come parlarne male?
    No, a parte le boutade, hai descritto quello che l’editor dovrebbe fare, ma poi “tra il dire ed il fare….”, come districarsi in questa varia offerta?
    Sto rischiando credo, Enzo

  • Ah, districarsi non è facile. Si può fare prima qualche chiacchiera o un po’ di corrispondenza per cercar di capire come lavora l’uno o l’altro. Si può ascoltare il consiglio di gente che ci ha lavorato. Ci si può fare un’idea dal blog o dal sito. Si può sperare che tengano qualche conferenza o intervento, ascoltare e farsi un’idea. E poi non c’è altro che provare – e magari trovarsi male e migrare altrove… Il più ovvio dei metodi (scusi, che libri ha editato?) non è praticabilissimo, perché un buon e serio editor non racconta mai a chi ha fatto il bucato. Nel mondo anglosassone capita (neanche troppo di rado) che l’autore ringrazi nell’apposita pagina “il/la mio/a editor XXX per il suo costante supporto, occhio di lince, flusso inesauribile di critiche costruttive e ottimi suggerimenti…”
    Qui da noi…. er, non capita.

  • Non mi ero sbagliato, hai saputo “leggermi”: un punto a tuo favore.
    Ora mi spieghi – se vuoi – perché per esempio, ai mostri sacri è permessa la licenza, lo sgarro di sintassi e ad un esordiente no.
    Oppure le virgolette alte c’è chi le preferisce ai discorsi diretti e/o citazioni, ovvero chi le sottolinea con il lapis rosso, giacché predilige i caporali.
    Ho in mente diversi progetti, ma prima voglio studiare, capire il da farsi. Non lo so, ho bisogno di guardare.
    Enzo

  • Lo sgarro è permesso a chiunque lo faccia con cognizione di causa: se la sintassi approssimativa è usata deliberatamente per caratterizzare una voce narrante o un personaggio, allora è concessa all’esordiente come al mostro sacro. Se è incompetenza o sciatteria, allora non è consentita a nessuno.
    Virgolette o caporali possono dipendere da predilezione personale o politica editoriale. Dipende.