Non in uno solo, ma in due. La loro interazione, il modo in cui funzionano insieme, in cui discutono, bisticciano, lavorano… È quella cosa che, a ovest della Manica, chiamano chemistry – e può assumere la forma di un’amicizia, di una storia d’amore, di una collaborazione professionale, di una rivalità…
A volte è l’elemento forte di una storia. Tanto forte, a volte, che uno dei due personaggi prende vita solo in presenza dell’altro. David Balfour, che in assenza di Alan Breck è di una noia mortale, diventa un personaggio quasi accettabile appena Alan entra in scena a interagire con lui. E questo è un caso singolarmente sbilanciato, perché Alan funziona benissimo anche senza David – ma di solito la faccenda è più equilibrata, ed entrambi i personaggi soffrono dell’assenza dell’altro.
Ora, la mia timida impressione è che questo genere di fenomeno si produca più spesso nella narrativa di genere. Non solo – ma in modo più… organico. Mi spiego: avete presente come, ne La Pharisienne, Louis Pian diventi più vivido in presenza di Jean de Mirbel? O come, ne Il Velocifero, capiti un po’ lo stesso al narratore Renzo quando attorno c’è il suo amico Gianni? Ma questo è un effetto deliberatamente cercato da Mauriac e da Santucci, per mostrare come l’amico incarni una serie di aspirazioni, idee, necessità e vaghezze assortite del protagonista, tutte cose che si risvegliano e poi prendono forma e diventano più o meno consapevoli in presenza e/o sotto l’azione dell’altro.
Quello che ho in mente è diverso. Parlo di due personaggi creati per funzionare insieme, per combinare quasi a incastro capacità e punti di vista diversi, per bisticciare con efficacia… Per esempio il protagonista/investigatore di un giallo e il suo sidekick.
In particolare, ho in mente un paio di serie di gialli di ambientazione storica, in cui parte del conflitto – oltre all’irrinunciabile delitto – viene dalla contrapposizione di mondi diversi, e il sidekick fornisce al protagonista una finestra tra i due. Il che di solito si sviluppa in qualche tipo di amicizia riluttante.
Idem – se non peggio, con i Carey Mysteries di P. F. Chisholm. Ve ne avevo già parlato, ricordate? Forse anche più di una volta. I gialli di ambientazione anglo-scoto-elisabettiana, con Sir Robert Carey a caccia di cattivi con l’assistenza dell’irrepressibile Sergente Dodd. Ebbene, quando l’elegante Carey arriva a vicegovernare una marca del Border – il turbolento confine tra Inghilterra e Scozia – Dodd si ritrova a dovergli inculcare qualcosa che somigli alla versione Borderer del buon senso. Quando entrambi scendono a Londra, è Carey a tradurre la capitale in termini che Dodd possa digerire. Il modo in cui questi due uomini passano dalla mutua incomprensibilità e sfiducia a un’altra riluttante amicizia è una delle meraviglie di questa incantevole serie. Peccato che nel sesto volume, An Air of Treason, Chisholm (che è poi Patricia Finney) abbia deciso di separare i nostri eroi e mandarli ciascuno per le proprie, seppur connesse, avventure. Risultato? Né Carey né Dodd funzionano granché, e la storia, il ritmo e il colore ne soffrono enormemente.
Apparentemente, Dodd non è fatto per andarsene attorno senza Carey a esasperarlo, né Carey senza Dodd. Così come Abigail Adams perde interesse senza Coldstone – e non ho dubbi che Coldstone sarebbe noiosissimo senza Abigail. La caratterizzazione di ciascuno dei quattro dipende in buona parte dall’interazione con il rispettivo “altro”. Questa chimica narrativa ne fa degli ottimi personaggi in coppia – ma li rende poco adatti a starsene per conto proprio.
È un punto di forza, ma anche un problema potenziale per quando l’autore ha l’uzzolo di cercare nuove strade. Che sia per questo che, dopo Sup with the Devil, nel 2011, di Abigail Mysteries non ne sono più arrivati? Speriamo che non capiti altrettanto a Carey&Dodd – ma il fatto che il settimo volume sia incentrato su lady Widdrington anziché sui nostri eroi, non mi rassicura terribilmente…