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Ott 10, 2018 - gente che scrive, teatro    Commenti disabilitati su Lacca Carminio e Blu di Prussia

Lacca Carminio e Blu di Prussia

SkeltIn un incantevole saggio intitolato “Penny plain, twopence coloured“, R.L. Stevenson racconta della sua passione infantile per i teatri giocattolo. Erano teatrini di carta colorata e legno, talvolta provvisti di un sistema di illuminazione a candeline.

Il primo editore britannico* di questo genere di giocattoli, quello a cui Stevenson fa riferimento, fu Skelt, e quello che vedete quassù a sinistra è il contenuto di una di quelle buste “per teatrini” che i cartolai vendevano: scene, personaggi e testo per commedie, tragedie, drammi e pantomime, disponibili in due versioni, come da titolo: in bianco e nero al costo di un penny, o già colorate per due pence.

Toy_Theatre.jpg

Questo invece è un teatrino di Pollock

A quanto pare, il piccolo Louis ogni tanto comprava uno di questi plays, e la cosa, che avveniva sempre di sabato, di ritorno da un’escursione al porto per vedere le navi, comportava tutta una liturgia particolare. Intanto la scelta non era per nulla facile: Louis esitava talmente tanto da far spazientire i cartolai, perennemente incerto tra titoli come “Il Pirata”, o “La Foresta di Bondy”, oppure “Il Principe Cieco”.

A decisione avvenuta, si pagava il penny dovuto: la scelta cadeva sempre sulla versione in bianco e nero, perché metà del piacere consisteva nel colorare le figure sui fogli. Si mescolavano lacca carminio e blu di prussia per il viola dei mantelli, si usavano verdi diversi per la foresta…

E poi il gioco era finito.

Stevenson confessa di non avere mai ritagliato una volta le figure, mai messo in scena una singola commedia o dramma. La deliziosa incertezza della scelta, il trionfale ritorno a casa, col premio stretto sotto il braccio e la mente a pregustarne l’apertura e il possesso, la gioia di preparare e stendere i colori erano tutte le soddisfazioni che il piccolo Louis chiedeva ai suoi plays. In realtà, l’intrigo descritto dalle istruzioni lo deludeva sempre, e non vedeva davvero necessità di metterlo in scena.** Piuttosto, s’immaginava nei panni dei protagonisti per qualche giorno, e poi ricominciava a fantasticare dell’acquisto successivo, leggendo i titoli del catalogo di Skelt sul retro della busta.

TreasureIsland3Chissà quanto gli sarebbe piaciuto vedere la sua Isola del Tesoro in versione Toy Theatre, come nel  teatrino (moderno) qui di fianco… Chissà se lo sognava mai, mentre colorava le storie altrui e ci ricamava sopra -senza mai ritargliarle né metterle in scena? I genitori rimproveravano Louis di volubilità, perché si disinteressava troppo presto del giocattolo appena comprato, senza accorgersi come quel modo di procedere prefigurasse già il sognatore e, più ancora e peggio, l’uomo che, per tutta la vita, avrebbe cercato di costruirsi una realtà di suo gusto, scontrandosi sempre con i crudi e poco poetici fatti.

Fin da bambino, Stevenson non era fatto per la realtà: si era già accorto di preferire la vigilia, l’attesa e la preparazione all’atto. Aspettare, ricordare, immaginare, e poi aspettare qualcos’altro, senza mai soffermarsi sull’attimo presente. E come altro avrebbe potuto vivere, quest’uomo che era un narratore e nient’altro?

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* Non ho il coraggio di scrivere “inglese”, per una volta. Credo che noi Continentali ci dimentichiamo un po’ di quanto la Scozia sia un altro posto rispetto all’Inghilterra (e viceversa) fino a quando non rileggiamo qualche autore scozzese…

** Anzi, secondo lui, una rappresentazione sarebbe stata una noia infinita per qualsiasi bambino… Non mi capita spesso di dissentire da Stevenson – ma in questo caso devo proprio.

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Mar 9, 2018 - Spigolando nella rete, Storia&storie    Commenti disabilitati su Storidentikit

Storidentikit

AileanBreacStewartVi ricordate di Alan Breck Stewart?

Non è del tutto impossibile, considerando la frequenza con cui vi tormento in proposito, e in realtà ne abbiamo parlato di recente.

Ad ogni modo, questa volta non è del tutto colpa mia: potete biasimare Caroline Wilkinson, dell’Università di Dundee, cui qualche anno fa è parso bello fare una ricostruzione della faccia dell’Alan storico – Ailean Breac (o Breic) Stewart – e il risultato lo vedete qui accanto.

Come è successo? Be’, la professoressa Wilkinson ha trattato Ailean come ogni altro sospetto omicida di cui non si conosca la faccia: ha tracciato un identikit sulla base delle testimonianze.

Perché le testimonianze scritte ci sono – sia legate all’omicidio del detestatissimo agente della Corona Colin Cambell nel 1752, sia unrelated – e parlano di un giovanotto dalla faccia lunga e stretta segnata dal vaiolo, dagli occhi azzurri e infossati, dai capelli ricci e scuri e dal naso lungo…

A dire il vero parlano anche di uno scervellato violento e inaffidabile – ma a dirlo era James Stewart, il padre adottivo che fu impiccato per l’omicidio in questione, di sicuro ingiustamente e forse al posto di Alan, che si era reso uccel di bosco. Una punta di astio e/o di panico da parte del povero James sarebbe più che comprensibile, ma sospetto che il fascino di Alan sia tutta farina del sacco Stevenson, e l’originale fosse ben poco raccomandabile.

E in effetti, qui sopra, l’aria raccomandabilissima non ce l’ha, giusto?AppinMurder

Grazioso e simpatico esercizio – ma con un limite sesquipedale: le testimonianze essendo per l’appunto scritte e vecchie di duecentosessant’anni e passa, non sono verificabili in nessun modo. Non è come se a Dundee potessero convocare James Stewart, o l’avvocato di Colin Campbell presente all’omicidio, o gente dell’entourage di Ailean e chiedere loro se la ricostruzione è somigliante… Sono certa che la professoressa Wilkins abbia considerato altri fattori, come fenotipi e strutture facciali dei discendenti Stewart e dei ritratti d’epoca, ma non posso fare a meno di chiedermi a che punto sia intervenuta l’immaginazione dei ricercatori – magari colorata da Stevenson…

Oh well. Non sarò io a lamentarmi. In fondo non si tratta di risolvere un omicidio – anche se a volte, a sentire due Scozzesi che ne discutono, si sarebbe indotti a credere che l’Appin Murder sia faccenda della settimana scorsa – ma l’idea di applicare questo genere di strumenti per ricostruire facce storiche ha più che un po’ di fascino, e mi piacerebbe molto vederla utilizzata su altra gente. La National Portrait Gallery non ha prezzo. Per tutto il resto…

 

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* Yes, yes, I know: il povero David e tutto quanto. Non cominciamo nemmeno.

Provvidenza 2, Peste 0

PSvotoParlavasi di romanzi storici… oh, right: da queste parti ne parliamo spesso – ma, di recente, se ne parlava qui. E, nei commenti, con B. si strologava sui Promessi Sposi – che piacciono a entrambe, ma a B. più che a me. E mugugnavo, come di consueto, per la conversione dell’Innominato, per Santa Lucia Perfettissima Mondella, per il Cardinale Borromeo – e per l’onnipresente Provvidenza&Carità…

Tutto vero, ha risposto B. – ma soprattutto:

per me la cosa più inaccettabile ed inverosimile resta la sopravvivenza alla peste dei nostri. Considerando come l’epidemia falcidiò la popolazione europea, lo trovo assai improbabile…

A ben pensarci, da un punto di vista medico e statistico, B. ha tutte le ragioni: proprio loro due devono sopravvivere separatamente e poi ritrovarsi giusto in tempo per la pioggia salvifico-batttesimale? Improbabilino anzichenò – e tuttavia…

Non ricordo se abbiamo già parlato della Hermiston Theory di Stevenson… forse un accenno a proposito del Capitan Fracassa? Ad ogni modo, a proposito del suo incompiuto Weir of Hermiston, Stevenson sosteneva che, per andare a finir male, una storia deve cominciare a finir male dalla prima pagina.

rlsNon perché le sciagura debbano cominciare a capitare a pagina 1 – ma perché, nel raggiungere la fatidica paroletta di quattro lettere, il lettore deve scuotere malinconicamente il capo e dirsi che sì, in realtà non poteva finire diversamente… C’è dunque una specie di forza di gravità, nelle storie, che inizia presto a rotolare a valle, verso un certo tipo di finale?

L’editore Charpentier e la moglie di Theophile Gautier sostenevano di sì: come poteva un libro scintillante e gaio come Le Capitaine Fracasse finire con un desolato suicidio nella cripta di famiglia? Era orribile, sosteneva Mamade Grisi. Avrebbe sconcertato i lettori, diceva Charpentier. Stevenson non era ancora nato, all’epoca, ma di lì a qualche decennio l’avrebbe pensata allo stesso modo.

Come poi questo dovesse applicarsi a Hermiston non è chiaro, perché il romanzo è rimasto incompiuto… Il protagonista Archie Weir, malinconico sognatore d’animo gentile, sembra appartenere alla schiera di coloro che non sono equipaggiati per prosperare… Se dovessi dire come inizia a finire questo libro, direi: maluccio. Roderick Hudson

Quella gente come Lord Jim, come James Sands, come Daisy Miller e Roderick Hudson*, come Enjolras e compagnia, come Johnny Nolan: li incontriamo e, senza nemmeno accorgercene, cominciamo subito a farci un’idea. Qualche capitolo, e ne siamo certi: non può finir bene. Doomed people. Mi viene in mente la volta in cui, qualche decennio fa, leggendo il primo capitolo della prima stesura di un mio romanzo, un amico arrivò al punto in cui entrava in scena uno dei protagonisti e, dopo una riga di descrizione, profetizzò: “Hm. Questo qui muore giovane.” Ed essendo una fanciulla ingenua e acerba, spalancai gli occhi in tutta sorpresa – perché era assolutamente vero…

Ma d’altra parte, non è soltanto questione del personaggio: è la storia nel suo complesso, è l’atmosfera, sono le idee su cui la storia è costruita. Poteva Sigognac, dopo varie centinaia di pagine di scanzonate avventure, lasciarsi morire tra le tombe degli antenati? Poteva Lord Jim, dopo aver dato tante disastrose prove di non saper venire a patti con la realtà, invecchiare felice insieme a Jewel? Ed ecco allora che torniamo ai Promessi Sposi: poteva Manzoni, dopo averci assicurato ad nauseam, che la Provvidenza bada alle sue pecorelle, lasciar morire di peste Renzo o Lucia – o entrambi?

PSFinePoi va detto che in tutto ciò c’è probabilmente una vasta quantità di senno di poi, e che un lettore smaliziato sa riconoscere i segni molto presto, e che non è sempre stato così – e che, stando ai famigliari, Stevenson aveva in mente un lieto fine per Archie e Christina…**

Ma a quest’ultimo particolare non so se credere. Può lo scrittore che teorizzava il finale triste da pag. 1 aver pensato di far prosperare Archie Weir? Ne sarei un pochino delusa – allo stesso modo in cui, pur sopportandola pochino, sarei molto sconcertata di veder morire di peste Lucia Perfettella.

Voi che ne dite, o Lettori? Ci sono storie che secondo voi non potrebbero finire altrimenti? E storie che invece dovrebbero?

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* Isabel Archer, on the other hand…

** Mi par di ricordare che a qualche punto la BBC ne abbia tratto uno sceneggiato. Sarei curiosa di sapere come finisce.

E L’Azione Rapita

DumasAthosParlavamo dell’Azione Orfana, giusto? Quella tecnica narrativa in base alla quale il romanziere storico affibbia ai suoi personaggi fittizi le parti non assegnate della storia.

Come D’Artagnan e compagnia, gente semifittizia – nel senso che degli originali storici Dumas conservò poco più che nomi e professione – infilata in circostanze (forse) storiche ma nebulose.

Insomma, supponendo che La Rochefoucauld non lavorasse di fantasia citando la faccenda dei puntali di diamanti della Regina, qualcuno li avrà pur trafugati, giusto? E qualcun altro li avrà pur recuperati… E allora, perché non rispettivamente Milady e i Moschettieri?

Parlavamo di tutto ciò, e concludevamo che, non pur non essendo inciso nella pietra che si debba far così, si tratta di un metodo efficace – anche perché, per la duratura fortuna dei romanzieri storici, la storia pullula di buchi interessanti.

Ma non è detto che si debba far così – e infatti si fa (e soprattutto si faceva) anche in altri modi. romanzo storico, alexandre dumas, arthur conan doyle, francesco domenico guerrazzi, r. l. stevenson, rafael sabatini

C’è il Posto in Prima Fila, ovvero un protagonista fittizio che è segretario/scudiero/amico d’infanzia/amante/prole illegittima/sarta/confessore/whatnot del personaggio storico che fa le cose interessanti. E perché debba proprio venirmi in mente per primo Rogiero, il fittizio figlio illegittimo di Manfredi di Svevia ne La Battaglia di Benevento di Guerrazzi, proprio non lo so – ma tant’è. E poi mi viene in mente l’Ascanio dumasiano, apprendista di Benvenuto Cellini. Ma per un esempio migliore, suppongo di poter citare David Balfour, che assiste all’Omicidio di Appin molto da vicino e poi scappa per le brughiere con il principale sospettato.

romanzo storico, alexandre dumas, arthur conan doyle, francesco domenico guerrazzi, r. l. stevenson, rafael sabatini Poi c’è lo Scippo d’Azione, il cui re incontrastato è probabilmente Arthur Conan Doyle con il suo Gérard. Il fittizio Gérard è ampiamente ispirato al reale Marbot, ufficiale di cavalleria, aiutante di campo e memorialista – di cui gli vengono assegnate d’ufficio varie vicende e prodezze. Come pure vicende e prodezze di varia altra gente, in una collezione di elevata improbabilità e notevole spudoratezza… Ma in realtà fa tutto parte del gioco, perché dato il tono generale e l’ottima, ma proprio ottima opinione che Gérard ha di sé, il lettore è di fatto invitato a leggere con un sopracciglio levato e il costante dubbio di avere a che fare con un contafrottole di prima forza.

E infine c’è l’Azione Rapita Con Spudorato Flair, il cui esempio più fulgido si trova, a mio timido avviso, in Captain Blood. Ora, vedete, da un lato Peter Blood è ispirato almeno in parte alla vita di Henry Morgan e alla sua pittoromanzo storico, alexandre dumas, arthur conan doyle, francesco domenico guerrazzi, r. l. stevenson, rafael sabatini ca, eminentemente seicentesca carriera da schiavo a governatore della Giamaica. Dall’altro lato Sabatini si dà qualche pena per stabilire una voce narrante che finge di comportarsi da storico. Ogni tanto, tra una scena e l’altra, il narratore cita e compara fonti, ricostruisce, opina, dubita… Oh, è tutto molto tongue-in-cheek, ma quello è il gioco a cui si gioca. E poi, mentre Peter Blood si prepara a prendere Maracaibo, ecco che il narratore esce allo scoperto.

È vero, c’informa, che la presa di Maracaibo è attribuita a Morgan dal suo (ostile) biografo Esquemeling*, ma Jeremy Pitt, navigatore, amico e memorialista di Blood, ce la conta diversamente nei suoi dettagliatissimi e affidabili registri. Tant’è vero che…

Io sospetto che Esquemeling— anche se non arrivo a immaginare come o dove —debba avere messo le mani su questi registri, e che ne abbia tratto le corolle brillanti di più di un’impresa per infiorarne la storia del suo protagonista, il Capitano Morgan. Questo lo dico in via incidentale, prima di passare a narrare le vicende di Maracaibo, per mettere in guardia quelli tra i miei lettori che, conoscendo il libro di Esquemeling, potrebbero rischiar di credere che Henry Morgan abbia davvero compiuto quelle azioni che invece qui si attribuiscono veritieramente a Peter Blood. E tuttavia credo che, quando avranno avuto modo di valutare le motivazioni che spingevano tanto Blood quanto l’Ammiraglio spagnolo a Maracaibo, e di considerare come l’evento s’inserisca logicamente nella storia di Blood – mentre rimane nulla più che un incidente isolato in quella di Morgan – i miei lettori giungeranno alle mie stesse conclusioni riguardo a chi tra i due autori abbia commesso plagio.**

Et voilà! Carte ribaltate. Fonte storica riconosciuta, citata, rivoltata come un calzino e ridotta a plagio. Non sul serio, ma in un gioco non del tutto implausibile, perché Exquemelin è davvero inaffidabile nella sua ansia di annerire quanto può la fama di Morgan, e la faccenda di Maracaibo sembra davvero un po’ uscita dal blu…

Un gioco quasi ucronistico, un piccolo atto di pirateria narrativa pittoresco, spudorato ed elegante – perfetto per la storia in cui è inserito.

E quindi sì: si può fare diversamente, si può eccome – a patto di farlo con la giusta combinazione di eleganza e faccia tosta, e magari strizzando l’occhio al lettore.

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* O, com’è più comunemente conosciuto, Exquemelin.

** Traduzione mia.

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Apr 11, 2016 - gente che scrive, romanzo storico, teatro, Vitarelle e Rotelle    Commenti disabilitati su Maestri di Carta

Maestri di Carta

YodaQualche tempo fa si parlava con un allievo di influenze, divinità e maestri – di quella gente che non s’incontra mai se non per lettura, eppure ha una parte fondamentale nel fare di noi quello che siamo. Almeno dal punto di vista della scrittura. Col che non voglio dire che non succeda anche in altri campi, ma diciamo che gli altri campi son fatti di ciascuno, e limitiamoci al rapporto tra scrittore e scrittore a mezzo libro. Tra l’altro, è precisamente quello di cui si discuteva con l’allievo in questione.

“Scommetto che ci fai un post,” egli disse a conclusione – e io non dissi né sì né no, ma insomma, sappiamo tutti come  vanno a finire queste cose. E soprattutto sappiamo che quando si tratta di SEdS la mia capacità di resistenza è prossima a nulla… Sappi, o Allievo, che se c’è voluto tutto questo tempo è solo perché mi era passato di mente… 

Ma eccoci qui, alla fin fine: sette maestri sette. Sette perché sì – e in un vago ordine cronologico di apprendistato consapevole*.

I. G. B. Shaw. Perché quando avevo dodici anni e mi chiedevano “che cosa vuoi fare da grande?” io rispondevo “la commediografa”. E rispondevo così solo perché allora studiavo francese e non sapevo che esistesse la parola playwright, che mi piace tanto di più – ma non divaghiamo. Volevo tanto, ma in quella maniera informe, you know. Non era che non ci provassi, ma non avevo troppo idea. Poi, nell’estate dei miei tredici anni, entra in scena Shaw, nella forma delle Quattro Commedie Gradevoli, edizione Anni Sessanta, BUR con la copertina rigida – di mia madre. Folgorazione. In particolare Cesare e Cleopatra e L’Uomo del Destino. Teatro a sfondo storico – proprio quello che volevo fare. E la costruzione dei dialoghi, e l’uso delle fonti, e il tratteggio dell’ambientazione storica, e il funzionamento teatrale…

II. Joseph Conrad. In un sacco di modi. La profondità cui si poteva spingere l’indagine psicologica. Le possibilità infinite dei punti di vista. La possibilità di raccontare una storia attraverso l’accumulo di prospettive. La cesellatura di un personaggio centrale. I dubbi e le domande senza risposta. L’intensità. E poi l’uso della lingua – e di una lingua appresa. È in buona parte per via di Conrad che scrivo in Inglese.

III. Patrick Rambaud. Rambaud non se lo ricorda più nessuno, credo. A un certo punto ha letto nella corrispondenza di Stendhal di un romanzo mai scritto. Allora ha preso l’ambientazione (una battaglia napoleonica), ha preso Stendhal in persona, ha preso una manciata di personaggi storici e ne ha cavato un bel romanzo. Nulla d’immortale, solo una buona storia ben raccontata, fedele alle fonti e romanzesca quanto bastava. All’epoca in cui mi trastullavo con l’idea di scrivere romanzi storici ed ero paralizzata dall’incertezza dei confini tra fonti e immaginazione, Monsieur Rambaud è stato piuttosto fondamentale.

IV. R. L. Stevenson. Ah, i narratori di Stevenson, inaffidabili anche quando sembra che non lo siano, sottilmente minati nella loro attendibilità, irragionevoli, opinionated, a volte nemmeno terribilmente intelligenti… O Lettore, a te il delizioso mestiere di trarre conclusioni. E poi Alan Breck e l’Appin Murder – un personaggio minorissimo e un processo celebre ripresi, rivoltati come guanti, dipinti a colori irresistibili e avventurosi là dove in origine si trattava di un figuro losco e di una vicenda cruda e grigia. Ah, saper indurre il lettore a voler credere a me – persino quando sa benissimo di non poterlo fare…

V. Rodney Bolt. Quando uno scrittore mi fa entrare da una porta saggistico-divulgativa con qualche pretesa, poi mi fa sospettare che si tratti di una parodia accademica, e infine mi scodella in pieno romanzo, quando fa tutto ciò con grazia, sottigliezza e intelligenza, quando mi conduce pei prati in questa maniera e non mi irrita nemmeno un po’, tutto quel che voglio è imparare a barare così a mia volta.

VI. Josephine Tey. Anche lei scriveva teatro in una maniera che mi piace molto, ma non è questo il punto. Il punto è La Figlia del Tempo, che è una riflessione sulla storia, il modo in cui si costruiscono, mantengono e smantellano le leggende nere e un sacco di questioni che mi stanno a cuore – ed è scritto nella forma di un giallo originalissimo, popolato di personaggi ben fatti che parlano in dialoghi scintillanti. Tecnica impeccabile, idee, spirito – e soprattuto il modo di raccontare le storie.

VII. Jeffrey Hatcher. Ci voleva qualcuno che mi scrollasse fuori dalla maniera di Shaw, ed è stato Hatcher, che scrive un teatro d’ambientazione storica vivido, spigoloso e pieno di ritmo, appeso a un cambiamento epocale per rendere tutto più irreparabile, thank you very much.

E poi sono sempre la solita che si dà dei numeri e non riesce a tenerli neppure per sbaglio, per cui lasciate che aggiunga ancora Emily Dickinson. E no, non scrivo poesia, ma la densità e iridescenza del linguaggio… non si può scrivere prosa in questo modo, ma il principio mi piace proprio tanto.

E voi, o Lettori? Chi sono i vostri mentori di carta?

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* E niente autori di manuali… Quella è un’altra faccenda. La prossima volta, magari.

Questione di Chimica

ChemistryA volte sta tutto in due personaggi.

Non in uno solo, ma in due. La loro interazione, il modo in cui funzionano insieme, in cui discutono, bisticciano, lavorano… È quella cosa che, a ovest della Manica, chiamano chemistry – e può assumere la forma di un’amicizia, di una storia d’amore, di una collaborazione professionale, di una rivalità…

A volte è l’elemento forte di una storia. Tanto forte, a volte, che uno dei due personaggi prende vita solo in presenza dell’altro. David Balfour, che in assenza di Alan Breck è di una noia mortale, diventa un personaggio quasi accettabile appena Alan entra in scena a interagire con lui. E questo è un caso singolarmente sbilanciato, perché Alan funziona benissimo anche senza David – ma di solito la faccenda è più equilibrata, ed entrambi i personaggi soffrono dell’assenza dell’altro. pharisienne

Ora, la mia timida impressione è che questo genere di fenomeno si produca più spesso nella narrativa di genere. Non solo – ma in modo più… organico. Mi spiego: avete presente come, ne La Pharisienne, Louis Pian diventi più vivido in presenza di Jean de Mirbel? O come, ne Il Velocifero, capiti un po’ lo stesso al narratore Renzo quando attorno c’è il suo amico Gianni? Ma questo è un effetto deliberatamente cercato da Mauriac e da Santucci, per mostrare come l’amico incarni una serie di aspirazioni, idee, necessità e vaghezze assortite del protagonista, tutte cose che si risvegliano e poi prendono forma e diventano più o meno consapevoli in presenza e/o sotto l’azione dell’altro.

Quello che ho in mente è diverso. Parlo di due personaggi creati per funzionare insieme, per combinare quasi a incastro capacità e punti di vista diversi, per bisticciare con efficacia… Per esempio il protagonista/investigatore di un giallo e il suo sidekick.

In particolare, ho in mente un paio di serie di gialli di ambientazione storica, in cui parte del conflitto – oltre all’irrinunciabile delitto – viene dalla contrapposizione di mondi diversi, e il sidekick fornisce al protagonista una finestra tra i due. Il che di solito si sviluppa in qualche tipo di amicizia riluttante.

ham2È il caso delle indagini di Abigail Adams, per esempio. Sì, quella Abigail Adams – ma prima che diventi first lady. Barbara Hamilton ambienta le sue storie nella Boston immediatamente prerivoluzionaria, in cui Abigail indaga con l’aiuto del giovane Maggiore Coldstone. Coldstone è inglese e ovviamente considera se stesso l’investigatore, e questa bizzarra signora coloniale l’assistente – ma è abbastanza intelligente da vedere che lei non solo è molto aguzza, ma conosce Boston e i Bostoniani in un modo che a lui è precluso. Per parte sua, Abigail è pronta a collaborare con questo oppressore dalla mente aperta e, se qualche volta ne sfrutta l’accesso al lato inglese delle cose, ne apprezza la lealtà e il senso di giustizia. Il tutto si sviluppa ben presto nell’amicizia riluttante che si diceva: Abigail diventa quasi materna nei confronti di questo giovanotto pieno di nostalgia per l’Inghilterra, e Coldstone apprezza un volto amico tra i Coloniali – e tutto funziona molto bene, perché lei è intuitiva e lui analitico, lui ha le risorse ufficiali e lei i canali ufficiosi… Poi però, al terzo volume, la Hamilton decide di mandare Abigail in trasferta da sola, e di darle un altro sidekick, e… tutto si affloscia. Il nuovo aiutante è un Coloniale a sua volta e per giunta un nipote acquisito. Sveglio, sì – ma, una volta sparite la tensione, il margine di inconciliabilità, la difficoltà di fidarsi completamente, le lealtà contrastanti e la disapprovazione dei rispettivi ambienti, la storia si fa convenzionale e noiosetta. Abigail da sola non funziona – o almeno, non funziona altrettanto bene. airtreas

Idem – se non peggio, con i Carey Mysteries di P. F. Chisholm. Ve ne avevo già parlato, ricordate? Forse anche più di una volta. I gialli di ambientazione anglo-scoto-elisabettiana, con Sir Robert Carey a caccia di cattivi con l’assistenza dell’irrepressibile Sergente Dodd. Ebbene, quando l’elegante Carey arriva a vicegovernare una marca del Border – il turbolento confine tra Inghilterra e Scozia – Dodd si ritrova a dovergli inculcare qualcosa che somigli alla versione Borderer del buon senso. Quando entrambi scendono a Londra, è Carey a tradurre la capitale in termini che Dodd possa digerire. Il modo in cui questi due uomini passano dalla mutua incomprensibilità e sfiducia a un’altra riluttante amicizia è una delle meraviglie di questa incantevole serie. Peccato che nel sesto volume, An Air of Treason, Chisholm (che è poi Patricia Finney) abbia deciso di separare i nostri eroi e mandarli ciascuno per le proprie, seppur connesse, avventure. Risultato? Né Carey né Dodd funzionano granché, e la storia, il ritmo e il colore ne soffrono enormemente.

Apparentemente, Dodd non è fatto per andarsene attorno senza Carey a esasperarlo, né Carey senza Dodd. Così come Abigail Adams perde interesse senza Coldstone – e non ho dubbi che Coldstone sarebbe noiosissimo senza Abigail. La caratterizzazione di ciascuno dei quattro dipende in buona parte dall’interazione con il rispettivo “altro”. Questa chimica narrativa ne fa degli ottimi personaggi in coppia – ma li rende poco adatti a starsene per conto proprio.

È un punto di forza, ma anche un problema potenziale per quando l’autore ha l’uzzolo di cercare nuove strade. Che sia per questo che, dopo Sup with the Devil, nel 2011, di Abigail Mysteries non ne sono più arrivati? Speriamo che non capiti altrettanto a Carey&Dodd – ma il fatto che il settimo volume sia incentrato su lady Widdrington anziché sui nostri eroi, non mi rassicura terribilmente…

Minori

Allora, parlavamo di Cavalieri di Malta – in particolare di quelli postumi di Sir Walter Scott, ricordate? Ebbene, in coda a quel post, Antonio ha scritto questo:

Non si potrebbero considerare queste opere come quello che sono, esperimenti, abbozzi, sogni non compiuti o compiuti di un autore invece di paragonarli alle opere maggiori? […] Io considero questo genere di opere, “le opere minori”, imprescindibili per raggiungere le opere maggiori ma su di esse sospendo la mia capacità di giudizio.

Picasso2La faccenda è interessante sotto più di un aspetto – principalmente perché le cosiddette opere minori non sono tutte uguali. Ci sono le opere minori che sono per l’appunto ‘prentice work, quelle che conducono verso i capolavori, quelli che l’autore pubblica pieno di entusiasmo – salvo a volte pentirsene anni più tardi. E mi viene in mente Balzac con cose come Les Chouans, che poi avrebbe tanto preferito non dover mettere nella Comédie… Oppure The Golden Cup, opera di uno Steinbeck ventisettenne, radicalmente diversa in concetto e tono da quel che verrà dopo, ma già piena dei semi dello stile maturo, seppure a uno stato nonnulla brado.  E tutto ciò è bello e anche istruttivo, perchè scrivere è un’arte che s’impara e si coltiva, andando per esperimenti. È un po’ come vedere le opere giovanili di Picasso, prima che sviluppasse idee e stile tutti suoi: sono opere tradizionali fino all’oleografia, e mostrano l’artista che diventa padrone dei suoi mezzi, che impara a perfezione le regole prima di infrangerle – e di crearne di proprie.BarnabyRudge

Cose di questo genere sono una lettura interessante, a mio timido avviso, perché consentono di vedere lo scrittore in fieri, il formarsi della voce e dello stile, l’acquisizione progressiva della tecnica, gli esperimenti e i tentativi. Provate a pensare ai due romanzi storici di Dickens: da un lato Barnaby Rudge, seminato di cose belle, ma informe e sbilanciato, cresciuto come un fungo su se stesso; e dall’altro – e ben più tardi – Le Due Città, costruito e pianificato in anticipo, tanto più coerente e serrato. Le folle feroci di Barnaby, i temi e l’uso simbolico di un elemento nell’imagery precorrono e promettono quelle di ATOTC – solo che nel frattempo Dickens aveva imparato a tendere assai meglio i suoi archi. E leggere Barnaby fa apprezzare molto meglio certi aspetti di ATOTC.

CharlotteE fin qui ci siamo – ma trovo che la questione sia un po’ diversa quando si tratta di juvenilia ripescati da quaderni e diari mai intesi per la pubblicazione. Come il tema in Francese di Charlotte Brontë – che, considerando date e circostanze, potrebbe nascondere sotto l’apparenza di una storiella morale un bel po’ di amarezza dei confronti del fratello sciagurato. Di certo, tuttavia, non era stato scritto per essere visto da altri che dal professor Heger. Peggio ancora va con i racconti e le poesie faticosamente trascritti dai libricini di Angria e Gondal, cose scritte per gioco dai Brontë ragazzini… È vero che anche in questo si vede il formarsi degli scrittori in erba – ma resta il fatto che si trattava di un gioco del tutto privato tra sorelle e fratello… Non è come se non avessi letto la mia parte di juvenilia, ma ho sempre l’impressione di sbirciare. Arrow

Dopodiché c’è il caso del libro brutto – perché a molti scrittori capita di non essere sempre allo stesso livello. Tutti sapete della mia parzialità nei confronti di Conrad, giusto? Ebbene, non ho la minima difficoltà nell’ammettere che Conrad ha scritto anche un certo numero di libri che non si possono descrivere se non come brutti. Parlo delle collaborazioni con Ford Madox Ford – dalla prima all’ultima – e poi di cose come the Golden Arrow, the Rescue et similia. E questi libri brutti non appartengono a una fase particolare della carriera dell’autore: hanno l’aria di capitare ogni tanto. Scrittore disuguale – e per carità, capita. All’uomo che ha scritto Lord Jim sono disposta a perdonare molte cose e a dire che di alcuni titoli non parliamo.

Ma le opere del declino? Di The Siege of Malta si è detto: opera ultima di uno Scott malato e angosciato, abbandonata senza mai tentare di pubblicarla mentre l’autore era ancora in vita. Oppure Weir of Hermiston, che Stevenson scrisse quando era già in pessima salute – ed era intenzionato a farne il suo capolavoro, ma quel che resta non è terribilmente incoraggiante. D’altra parte, è incompiuto, e di conseguenza non è certo come l’autore avrebbe voluto presentarlo al pubblico. Come Edwin Drood, ultima fatica di Dickens… E allora è giusto esporre l’autore colto in un momento in cui non era ancora pronto?  E forse addirittura – come nel caso di Scott – era consapevole di non poterlo più essere?

eneideUn caso estremo è quello dell’Eneide, che Virgilio, morendo, chiese di distruggere perché troppo incompiuta, e poi Augusto la volle vedere pubblicata ugualmente, così com’era. Come Virgilio non avrebbe voluto… Emily Brontë, sentendo la fine vicina, bruciò tutti i suoi manoscritti – cosa che addolorò molto Charlotte, ma forse fu una mossa saggia. Non c’è nessuna certezza che gli amici rispettino i desideri di uno scrittore defunto – figurarsi i posteri! Dubito che Emily conoscesse la storia dell’Eneide, ma di certo conosceva sua sorella, e la sua incapacità di comprendere cose come un desiderio di riservatezza.

Insomma, le opere minori non sono tutte uguali. Ci sono opere di formazione e opere di declino, opere strappate all’oblio, opere pubblicate per accanimento letterario e opere frutto di un cattivo periodo o di un’idea malconsiderata… Oggetti che, per un motivo o per l’altro, orbitano nella penombra, a qualche distanza del centro luminoso dell’artistry di un autore. Confesso di avere spesso un debole per queste anatre zoppe. Mi dico che è solo perché quel che succede dietro le quinte mi interessa quasi più della storia stessa – ma, soprattutto con le opere tarde, incompiute o rifiutate dall’autore, o altrimenti non intese per la pubblicazione, non riesco mai a leggere senza qualche remora – senza l’impressione di fare qualcosa di indiscreto.

 

 

 

Lug 22, 2015 - libri, libri e libri    Commenti disabilitati su Sogni di una Notte di Stellata Estate

Sogni di una Notte di Stellata Estate

AAVImmaginate una sera d’estate e una corte di campagna persa tra campi, prati e filari di pioppi cipressini. E immaginate anche un gruppo di amici – appena una manciatina – seduti all’aperto a lume di candela. Ci si sono seduti al tramonto, godendosi l’ombra di frescura azzurra e d’oro… Ecco, adesso immaginateli che, mentre il crepuscolo si chiude attorno a loro, estraggono dalle borse i loro libri – e cominciano a leggere a turno.

A leggere di sogni.

E si comincia con la storia onirica de La Piuma postuma di Faletti, candida e leggera e inafferrabile, finché qualcuno (uno scrittore, non a caso) ne divina l’uso.

Si prosegue poi con Sogni di Sogni, E il sogno immaginario che Tabucchi ha intessuto per uno Stevenson quindicenne – premonitore delle isole lontane, delle storie, dei fiumi d’inchiostro. AAV4

Poi ci si alza tutti e ci si sposta nel prato buio per guardare, con un meraviglioso telescopio, una falce di luna come uno spicchio di merletto d’oro e d’ombra – così vicina attraverso le lenti che pare di poterla toccare allungando una mano. E poi Saturno inanellato e vertiginosamente lontano.

E si torna a leggere, mentre l’orizzonte nero fiorisce di fuochi d’artificio lontani – ora qui, ora là…

AAV2Shakespeare è perfetto, allora, con le sue pirotecnie verbali: Mercuzio e la Regina Mab, levatrice dei sogni in corsa affannosa e beffarda sul suo cocchio fatato. E il sogno invocato di Walt Whitman in Capitano, mio Capitano – il desiderio così umano e struggente che la terribile realtà sia soltanto un incubo da cui potersi strappare col risveglio. E poi il Teatro Vivente (e vivo) di Bianca Tarozzi, luogo dei sogni di quei costruttori di sogni altrui che sono i teatranti – narrato in poesia. E per l’angolo di Kipling, il Sogno di Duncan Parrennes, fiaba cinica e amara, dove il diavolo siamo noi stessi, impegnati ad esigere prezzi terribili in cambio di ben poco.

E sembrerebbe – ad onta della frutta gelata e dei dolci, e dei bambini, e dei gatti e delle piccole file di ranocchie – sembrerebbe tutto molto terrificante, e ancora di più di fronte alle fiammelle affondate nel silenzio siderale. Si guarda Titano, si guarda la grande Deneb, si guardano ammassi e nebulose e sistemi binari di stelle che si fanno compagnia a lontananze inimmaginabili, e si è tentati di sentirsi piccoli piccoli, e sperduti… AAV6

Ma in realtà, noi gente piccola piccola, seduta attorno al fuoco nella notte, guardiamo attraverso queste inimmaginabili distanze, seguiamo il dito puntato da innumerevoli generazioni di astronomi e di poeti… E se siamo capaci di telescopi che inseguono le stelle, di sonde che viaggiano decenni, di teatro e di poesia che attraversano i secoli – o partono per attraversarli – forse allora Kipling si sbaglia, per una volta: non siamo poi così terribilmente piccoli, e dei prezzi che paghiamo, alla fine, vale la pena.

 

Lug 3, 2015 - grilloleggente    2 Comments

Baratti

book_swapVi ho mai raccontato di Polly?

Polly e io abbiamo condiviso per quattro anni una stanza di collegio e, pur volendoci un gran bene, per quattro anni ciascuna di noi ha sospirato con tristezza e scetticismo sui gusti letterari dell’altra.

All’epoca, Polly leggeva avidamente Tom Robbins, gli Scandinavi e ogni Sudamericano possibile e immaginabile. Io divoravo Conrad (tutto, tutto, persino i libri brutti), un sacco di saggistica storica e tutti i romanzi navali su cui potevo mettere le mani.

Tuttavia, lo spirito missionario è insito nella natura umana, e a ognuna delle due pareva impossibile non poter inculcare un po’ di buon senso letterario all’altra… Parlavamo molto di libri, ci raccontavamo a vicenda trame e meraviglie di quello che avevamo letto, e avevamo surreali discussioni in cui Polly parlava di Vargas-Llosa e io di Golding: ciascuna andava felicemente per il suo binario, e scambiavamo cenni sporgendoci dal finestrino dei rispettivi treni.

Quello che facevamo ogni tanto, però, erano i baratti: se tu leggi X, allora io leggo Y.bookexchange

Sì, sul serio. Per esempio, ho letto La Casa degli Spiriti di Isabel Allende in cambio di Lord Jim di Conrad. No, nemmeno a me sembra uno scambio equo, ma tant’è: c’era poco che non avrei fatto per la causa di Lord Jim, e la mia diabolica compagna di stanza se n’era accorta…

E ho letto Eva Luna Racconta in cambio di Rapito, e Polly mi rinfaccia ancora adesso l’infinità di pagine che David impiega a rendersi conto che non è poi così naufrago, e che con la bassa marea potrebbe andarci a piedi, sulla terraferma… Naturalmente non ho perso molto tempo, negli ultimi vent’anni, a difendere David, ma, nemmeno Alan ha conquistato Polly. E nemmeno Jim. E d’altra parte nessun abitante della Casa degli Spiriti ha conquistato me. E tuttavia, sono molto grata di quei baratti, tanti anni fa. Se Polly non avesse insistito, non avrei mai sfiorato un libro della Allende con l’orlo della veste per… be’, non c’è altro nome per questo: prevenzione. Adesso ho letto qualcosa di suo, e posso dire con cognizione di causa che non mi piace, e perché non mi piace. Allargare gli orizzonti, and all that jazz. A parte tutto, non si sa mai che cosa si può scoprire.

Tant’è che qualche baratto abbiamo continuato a farlo per anni, anche dopo l’università… Poi, quasi senza nemmeno accorgercene, abbiamo smesso, ma forse è ora di riprendere: è bello avere qualcuno che, ogni tanto, ti spinge al di là delle abitudini/latitudini acquisite.

 

Dic 8, 2013 - cinema    Commenti disabilitati su Il Signore Di Ballantrae

Il Signore Di Ballantrae

200px-ThemasterofballantreacoverC’è stato un momento, corso durante, in cui ho creduto che, se avessi menzionato The Master anche solo un’altra volta, i miei allievi avrebbero cominciato a scagliare oggetti pesanti nella mia direzione…

Perché forse ve l’ho già detto, ma non c’è praticamente limite al debole che ho per Stevenson, e trovo che The Master dovrebbe essere testo obbligatorio per quanto riguarda i narratori inaffidabili…

Forse qualcuno di voi ricorderà che, una domenica di secoli orsono, avevo postato l’inizio dell’adattamento televisivo del 1984 – e poi però il video relativo era stato inghiottito da Youtube. Non è che la serie mi piaccia enormemente (a parte tutto il resto, James Durie è un altro di quei personaggi per cui non so immaginare un interprete giusto…), ma questo inizio, con lo sbarco in Scozia di Bonnie Prince Charlie nel 1745, e le cornamuse, e il vento, e le fiaccole e i beacons… eh.

E in più, guardate che cosa ho trovato: lo sceneggiato RAI del 1979 – ad opera dello specialista Anton Giulio Majano.

E buona domenica.

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